La consacrazione profetica di Dante
Se apriamo il canto XVII, scopriamo il grande discorso di Cacciaguida sull’esilio e sulla missione di poeta-profeta, che il suo antenato assegna a Dante.
E nel definire la sua missione profetica, Cacciaguida lo incita ad essere sincero, franco e anche duro, come lo furono gli antichi profeti:
“…Coscienza fusca
O de la propria o del’altrui vergogna
Pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna”
(Canto XVII del Paradiso 124-129)
E le cose dolorose che Cacciaguida stava per predire a Dante, erano temperate con altre consolanti:
«Già si godea solo del suo verbo
Quello specchi beato, ed io gustava
Lo mio, temprando col dolce l’acerbo”
(Paradiso XVIII 1-3)
Una certificazione autorevole
E infatti Dante, nei canti successivi, ottiene una certificazione di fede, speranza e carità dai tre grandi Apostoli: Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre apostoli prediletti di Gesù, che lo accompagnano in modo esclusivo nelle occasioni più significative della rivelazione, come nel Monte Tabor (trasfigurazione) e nel Monte degli Ulivi, nel drammatico momento che preludeva alla passione.
Allo stesso tempo, però, Dante, a somiglianza dei profeti, assiste a durissime invettive contro i prelati, i papi, gli uomini corrotti della chiesa e degli stati, allo stesso modo con il quale i profeti come Geremia, Elia, Ezechiele, Amos, Abacuc inveivano contro la corruzione del popolo ebraico con il culto degli dei pagani e del dio Baal, al punto che Boccaccio sembra cogliere pienamente questo punto sottolineando la natura predicatoria aspra (ancorché laica e non clericale) della poesia dantesca, con “sapor di forte agrume” e uso di “parola brusca”. L’asprezza del messaggio di Dante è ispirata all’impegno di una sincerità totale, di una piena fedeltà e veridicità, di una indifferenza per chi potrebbe sentirsi offeso dalla verità, al punto che Dante considera il suo compito come un “nutrimento” vitale:
“Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta»
(Paradiso XVII 130-132)
Un altro personaggio che gli affida la missione profetica è San Pier Damiani, che lo sollecita a farsi messaggero verso il mondo di quanto ha visto e appreso nel suo viaggio mistico:
“E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più mover li piedi”
(Paradiso XXI, 97-99)
E San Pier Damiani, nello stigmatizzare la corruzione della chiesa, adotta una frase molto caustica:
“Or vogliono quinci e quindi chi i rincalzi
Li moderni pastori, e chi li meni,
tanto son gravi! e chi diretro li alzi;
cuopron de’ manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’una pelle:
oh pazienza che tanto sostieni!”
(Paradiso XXI, 130-135)
Indegnità dei prelati
Questa descrizione della pinguedine dei prelati, dei loro abiti suntuosi e pomposi, della loro accidia servita e riverita in portantina, è una delle più crude rappresentazioni del mondo ecclesiastico e clericale.
E infine c’è l’autorevole accreditamento del primo pontefice, San Pietro, che lo conferma nel suo compito di messaggero scomodo, dopo che ha espresso a Dante una durissima requisitoria contro i suoi successor indegni, soprattutto Bonifacio VIII, che San Pietro chiama “quelli ch’usurpa in terra il luogo mio…fatt’ ha del cimiterio mio cloaca del sangue e de la puzza; onde il perverso che cadde di qua su, là giù si placa”: ossia Bonifacio VIII ha ridotto la tomba di Pietro e il Vaticano in un immondezzaio di delitti e di vizi, al punto di rendere ben contento Lucifero, il perverso che fu gettato giù dal paradiso. E rivolgendosi a Dante:
“e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo”.
(Paradiso XXVII 64-66)
Questa similarità assunta di Dante alla figura del “profeta” era stata predetta da Beatrice, nell’ultimo canto del Purgatorio, qualificando Dante come poeta-profeta e scriba Dei:
“Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi”.
(Purgatorio XXIII 52-54)
Tutto questo ci induce a considerare che Dante fosse profondamente consapevole di questa vocazione profetica dopo aver messo nella bocca di personalità così importanti per lui espressioni come quelle riportate.
Le profezie dell’esilio nel canto del Paradiso
Prima che giungesse al Cantico del Paradiso, Dante ha accennato già nel Cantico dell’Inferno e in quello del Purgatorio, al suo destino di esule, sempre sotto la forma teologica della profezia, per confermare il senso profondo e simbolico del suo viaggio come metafora della rivelazione, al di là quindi dei fatti contingenti e specifici della sua vicenda personale.
E’, tuttavia, nel canto del Paradiso che si conclude la teologia dell’esilio con la definitiva consacrazione del ritorno del Dispatriato alla sua vera patria, che non è più Firenze con le sue beghe e i suoi onori effimeri, ma la candida rosa della beatitudine celeste:
“Questo sicuro e gaudioso regno,
frequente in gente antica e in novella,
viso e amore avea tutto ad un segno...
...Tu m'hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt'i modi
che di ciò fare avei la potestate..."
(Paradiso XXXI 25-27 e 85-87)
.L’esilio (“per tutte quelle vie”) viene riletto con il modello biblico dell’esodo e della liberazione degli ebrei e come pellegrinaggio, cioè come una condizione spirituale privilegiata che consente a Dante di intraprendere un cammino di verità e di libertà e che ha come orizzonte l'eternità.
Profeta universale
Ed è il poema stesso che costruisce gradualmente e definitivamente quella gloria che gli consente di superare il gap temporale tra la sua storia individuale e l’intera storia dell’umanità, consacrandolo definitivamente come profeta universale e lucido fustigatore del malcostume sia politico che religioso del suo tempo e di tutti i tempi, considerando che tutto quello che troviamo nelle invettive di Dante e nella evocazione dei protagonisti del suo racconto si possono senza alcun indugio applicare a tutti i tempi della storia umana, compresi gli attuali, nei quali assistiamo a forme ancora più epidemiche di malvagità, di crudeltà, di corruzione, con versioni nuove come il traffico di droga e di esseri umani.
E la corruzione della chiesa e del mondo religioso è oggi ancora più vasta e impressionante di quei tempi antichi.
Anche il desiderio di ritorno a Firenze per ottenere l’incoronazione poetica in San Giovanni, che inizialmente Dante evocava già nelle prime due cantiche, viene sublimato con una interpretazione molto più nobile della stessa parola tecnica “bando” che è la forma legale per comminare l’esilio:
“Cotal qual io la lascio a maggior bando
di quel de la mia tuba che deduce
l’ardua sua matera terminando”
(Paradiso XXX, 34-36).
Il maggior bando significa qui che la gloria e la fama (bando) dell’opera poetica sarà “maggiore” di quella che avrebbe ottenuto con l’incoronazione a Firenze.
I dispatriati imparano a vedere da lontano
L’investitura profetica è sempre accompagnata da un carisma di visione preveggente e lungimirante e Dante, con la Divina Commedia, coglie elementi in un certo modo “eterni” dell’agire umano, che fanno dire a Cacciaguida, nel canto XVII del Paradiso, una definizione sempre attuale del suo poema, quasi un sigillo di intramontabilità:
«Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento».
(Paradiso XVII 133-136)
Dal punto di vista teologico, il vento di cui Cacciaguida parla coincide con lo pneuma, ossia con lo spirito di verità che caratterizza tutti i profeti (soprattutto Elia ed Ezechiele) e lo stesso Gesù.
È lo pneuma che dà il coraggio agli apostoli tremebondi e chiusi nel cenacolo e li fa andare fuori gridando la loro fede nel risorto e trovare un coraggio indomito contro i loro nemici.
Ma la coincidenza di queste investiture con le profezie riguardanti il suo esilio, incoraggia la nostra interpretazione: ossia che è proprio questa esperienza che crea le condizioni esistenziali per essere profeta, perché il distacco da tutto dà una capacità di lettura “distanziata” di ciò che accade e rende leggibile le sue forme nascoste, i lati meno appariscenti delle vicende umane, per consentire la percezione di ciò che è latente e “invisibile agli occhi” 1.
Dante e la duplice chiamata: dal viaggio nell’Oltretomba alla Profezia
Attraverso il dono del viaggio nell’oltretomba Dante trova nel suo stesso peregrinare e nella esperienza dell’esilio il dono di un carisma profetico, che gli permette di trasfigurare la sua esperienza in una metafora biblica che definisce l’intera umanità in esilio rispetto alla sua vera e definitiva patria celeste. Nella teologia questo destino di “viator” è icasticamente definito da Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi (5,1.6.):
“Noi infatti sappiamo che la nostra abitazione terrestre, questa nostra tenda, viene distrutta, avremo nei cieli una abitazione di Dio, una casa eterna…e facendoci dunque coraggio e sapendo che finché alberghiamo nel corpo, peregriniamo lontani da Dio”.
Dante fa dire a Adamo che è stato mandato in esilio dal Giardino del paradiso terrestre non tanto per aver mangiato del frutto dell’albero, quanto per aver voluto ergersi a dio e infrangere il “limite” (l’unico) che Dio gli aveva imposto:
“non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno"
(Paradiso, XXVI, 115-123).
Le cantiche rappresentano perfettamente il nostro esilio
E le Cantiche rappresentano la perfetta raffigurazione del destino di questo esilio: l’Inferno, per coloro che sono esclusi per sempre dalla patria, ossia condannati ad un “etterno essilio” (Inferno XXIII, 126), il Purgatorio per coloro che sono in transito verso la patria (evocati dal salmo In exitu Israele de Aegipto”) e il Paradiso per coloro che sono entrati in patria in modo definitivo e glorioso.
E fra i dispatriati definitivi vi sono purtroppo anche le persone che sono destinate al Limbo, come Virgilio.
Dante è certo che la gloria poetica che il suo viaggio nell’oltretomba, gli consente di sublimare il suo esilio immeritato e doloroso in pellegrinaggio sacro da Firenze, città del diavolo, all’eternità:
“io, che al divino da l’umano,
a l’etterno dal tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano”
(Paradiso XXXI, 37-39).
E infatti nel De vulgari eloquentia Dante usa una espressione molto significativa: “huius dulcedine gloriae nostrum exilium postergamus” 2.
Un destino sublimato
E anche quando, grazie alla scrittura del suo poema, Dante sogna la fine del suo esilio e spera di poter tornare a Firenze per ricevere l’incoronazione poetica nel Battistero di San Giovanni (Paradiso XXV, 1-9), sia Cacciaguida che Beatrice evocano per lui un altro destino, la cui sublimazione è più grande e più profonda, proprio perché il suo ritorno non avrà luogo: la crudeltà “che fuor mi serra, del bello ovile ov’ io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra”.
Questo nuovo destino lo marchia definitivamente e occorre che egli, dopo il viaggio oltremondano, scopra una identità nuova, una investitura più nobile di quella di ricevere un premio letterario effimero: l’identità di profeta ancor più che di poeta.
E la scoperta di questa nuova identità lo induce a trovare una rappresentazione di similarità con eroi come Enea, che riceve dal padre Anchise la profezia della definitiva sublimazione del suo destino di fuggiasco e di dispatriato con la fondazione di Roma (atto che, agli occhi di Virgilio e dei Romani al tempo di Ottaviano Augusto, costituiva con certezza una consacrazione che più solenne non si poteva immaginare).
Analogamente, anche Dante riproduce questo evento nel dialogo tra Cacciaguida, suo antenato e lui, per rivelargli la più nobile causa di poeta-profeta.
Dante trova altre analogie esemplari di questo processo di sublimazione, con Paolo di Tarso e la sua visione sulla via di Damasco, che gli cambia in modo traumatico, indefettibile e radicale il suo destino.
Tutto questo è una costruzione poetica che a Dante appare in tutta la sua evidenza nel terzo canto, il Paradiso, ma ha inizio già nel secondo canto dell’Inferno, quando Virgilio lo rinfranca, rivelandogli come il suo viaggio sia voluto dal Cielo e come Beatrice stessa abbia inviato lui in suo soccorso.
Esilio e corruzione della Chiesa
La causa ultima del suo stesso esilio non è legata solamente alle sue disavventure politiche personali e alla perdita del ruolo che aveva ottenuto nella sua città, ma a cause molto più ampie che trascendono dalla sua persona e investono la condizione più generale del mondo di allora, soprattutto delle due entità che avevano la responsabilità maggiore della catastrofe morale e sociale dei popoli: la chiesa e l’impero.
La chiesa era governata da un papa, Bonifacio VIII, a cui Dante invia strali di rara ferocia, paragonabili senza alcun dubbio alla violenza con la quale i profeti si scagliavano contro i responsabili religiosi e istituzionali del loro tempo.
Basti ricordare l’esempio di Àlcimo, sommo sacerdote al tempo dei Maccabei. Infatti mentre Giuda Maccabeo lottava contro gli invasori e i golpisti, “Àlcimo-dice la Bibbia-lottava solo per la carica di sommo sacerdozio (1 Maccabei 7, 21 e ss.).
Àlcimo era un uomo perfido ed empio. Aspirando al sommo sacerdozio (oggi diremmo: voleva diventare papa) andò dal re Demetrio per accusare i Maccabei e congiurare contro di loro e il loro movimento di lotta per la libertà. In cambio di questa sua complicità con gli occupanti, ottenne la carica di sommo sacerdote dal re, e nel 161 a.C. fu mandato in Giudea con il generale siriano Bacchide e un esercito. Bacchide poi affidò il paese a Àlcimo, lasciandogli dei soldati per sostenerlo come sommo sacerdote.
Però, quando vide che i Maccabei si erano rinforzati e erano troppo forti per lui, ritornò dal re per sentirsi al sicuro (1Macc 7:5-25; 2Macc 14:3-13,26).
L'anno seguente, dopo la sconfitta e morte di Nicanore, Bacchide e Àlcimo furono mandati nuovamente in Giudea con un esercito.
Pur essendo Sommo Sacerdote, Àlcimo fece demolire il muro del santuario, che separava i Giudei dai Gentili nel tempio e in questo modo il tempio fu praticamente sconsacrato ed ellenizzato. Àlcimo è una stupenda metafora di molte colpe della chiesa e delle gerarchie, soprattutto nella loro accondiscendenza con i regimi autoritari e illegittimi.
Anche se non è l’unico caso di indegnità di un Pontefice nella Bibbia, tuttavia è forse quello più vicino al caso di Bonifacio VIII, la cui indegnità, per Dante, era assoluta e in particolare proprio di natura politica, oltre che religiosa, con conseguenze deleterie proprio per il poeta e il suo esilio.
E il suo epitaffio è conciso ma perentorio e tagliente, senza sottintesi, nel XVII Canto del Paradiso, sempre con il suo avo Cacciaguida che lo paragona a Ippolito di Atene 3:
“Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca”
(Paradiso XVII 46-51)
Le profezie dell’esilio nel canto dell’Inferno: Ciacco
Già nella prima Cantica, nell'Inferno, vari personaggi, esprimono a Dante il loro pensiero o il loro giudizio sull’esilio in un quadro di significati frammentati che si ricompongono solo nell’ultimo canto definitivo del Paradiso.
Il primo è Ciacco che nel VI canto dell’Inferno espone a Dante la prima profezia sui fatti politici che preparano l’evento dell’esilio, ma non dice ancora che tra i gravi pesi imposti dai Neri ai Bianchi ci sarà anche l’esilio di Dante, a cui accennerà per primo, in modo piuttosto oscuro, Farinata degli Uberti nel canto X dell’Inferno.
La domanda che Dante gli pone contiene un cenno doloroso alla città perduta e piena di discordie:
“Ma dimmi, se tu sai, a che verranno
Li cittadin de la città partita,
s’alcun v’è giusto, e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita.
Ed egli a me: “Dopo lunga tencione
Verranno al sangue, e la parte selvaggia
Caccerà l’altra con molta offensione”
(Inferno VI 60-66)
Le profezie dell’esilio nel canto dell’Inferno: Farinata degli Uberti
Il secondo è Farinata degli Uberti 4, personaggio al quale Dante fa dire subito che anche lui è stato esiliato dalla stessa patria “a la qual fui troppo molesto”, al punto che gli Uberti non rientrarono più a Firenze.
L'osservazione di Dante sul bando della famiglia Uberti provoca l'annuncio dell'esilio che il poeta dovrà soffrire e che è chiamata da Farinata con l’espressione “tu saprai quanto quell’arte pesa “(ossia anche Dante saprà presto come sia "arte" difficile per un esule rientrare in patria):
“Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia della donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa”
(Inferno X 79-81)
Con Farinata Dante condivide almeno due riflessioni: una sulla manipolazione del concetto di eresia, di cui fu accusato ingiustamente Farinata, perché la polemica antipapale dei ghibellini aveva lo scopo di condannare l’ingerenza “politica” dei papi e non il loro insegnamento; l’altra sulla famiglia, la pena per i propri discendenti esiliati, tanto che uno dei motivi per i quali Dante desiderava tornare nella sua patria era proprio dovuta al sogno di liberare dall’esilio i suoi figli.
Le profezie dell’esilio nel canto dell’Inferno: Brunetto Latini e Vanni Fucci
Il terzo personaggio è Brunetto Latini, che nel XV canto dell’Inferno, con tono affettuoso e dolente, preannuncia, a Dante, suo allievo prediletto, che i concittadini di Firenze ripagheranno con l’espulsione e l’esilio il “ben far”, ossia l’integrità e l’etica che Dante aveva dimostrato nell’assumere cariche pubbliche:
“... quell'ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico ...”
(Inferno XV 61-64)
E definisce i fiorentini “gent’è avara, invidiosa e superba “.
Ma allo stesso tempo gli preannuncia un avvenire radioso: “se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto”. La evidente empatia di Brunetto Latini per Dante non è dovuta solo al fatto di essere felice di averlo avuto come allievo, ma anche per la sua stessa esperienza di esiliato volontario in Francia.
Infine il quarto personaggio è Vanni Fucci, che è per Dante un vero profeta di sventura, al punto che quello che gli annuncia lo fa per farlo soffrire: "E detto l'ho perché doler ti debbia".
Quanto al paragone tra Dante e Odisseo (Ulisse) che egli incontra nel XXII Canto dell’Inferno, vi sono sì delle analogie, ma la differenza consiste nel fatto che Ulisse “sceglie” l’esilio e il non ritorno in patria, mentre Dante “subisce” l’esilio.
Le profezie dell’esilio nel canto del Purgatorio: in exitu Israel de Aegipto
Le profezie dell’esilio continuano, in modo più benevolo, nel Purgatorio ed è proprio nel Canto del Purgatorio che Dante inizia a interpretare teologicamente in modo esplicito il suo esilio alla luce dell’esodo, come già scritto nei paragrafi precedenti, citando il salmo In exitu Israel de Aegipto.
Ma è significativo quello che contiene il secondo verso del salmo: “Domus Jacob de populo barbaro». Il versetto prelude al tema dell’esilio e alla sua sublimazione definitiva, che avverrà nel Canto del Paradiso, preannunciata già nel Canto del Purgatorio:
“Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive”.
(Purgatorio XXXII, 100-105)
Ossia, un esodo e un esilio che diventano un passaggio (come la Pesah ebraica, che è per i cristiani la Pasqua) dalla barbarie alla civiltà, dalla selva alla città (silvano è inteso nel senso di barbaro e incivile) alla città.
Le profezie dell’esilio nel canto del Purgatorio: Malaspina e Oderisi
Nel Purgatorio, nel capitolo VIII, predicono a Dante l'esilio Corrado Malaspina ed Oderisi da Gubbio.
Corrado annuncia come non trascorreranno sette primavere che il poeta avrà modo di confermare, con l'esperienza personale della sua generosità, la buona opinione che già ha della famiglia Malaspina.
“... cotesta cortese oppinïone
ti fia chiavata (inchiodata) in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d'altrui sermone” 5
(Purgatorio VIII 136-138)
Dante sarà accolto come ospite proprio alla corte lunigianese dei Malaspina nei primi anni dell’esilio, prima ancora che a Verona e a Ravenna.
Nella cornice dei superbi, Oderisi da Gubbio, che si era dovuto umiliare a chiedere l’elemosina per riscattare un amico che era in carcere, annuncia che anche Dante proverà che cosa significa doversi umiliare a chiedere l'elemosina e a chiedere il “pane” altrui.
Una nota particolarmente significativa per il nostro esule è proprio uno dei versetti più noti (e struggenti) della Divina Commedia, con i quali inizia proprio il capitolo VIII:
“Era già l’ora che volge il disio
Ai naviganti e intenerisce il core
Lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more”
(Purgatorio VIII 1-6)
È il tema del “nostos” del poeta Kavafis: viaggio equivale a nostalgia.
Identificazioni morali con altri esiliati illustri: Pier delle Vigne
Oltre alle profezie sull’esilio, Dante adotta anche un espediente retorico: si configura nel destino amaro con personalità nelle quali vi è stata una elaborazione del trauma dell’esilio in modo analogo al suo e con esse si paragona.
Una prima figura che ripropone a Dante una lettura teologica dell’esilio è quella di Romeo di Villanova (parola che già da sola designa un destino preciso, quello del pellegrino), incontrato nel cielo di Mercurio.
Aveva anche lui, come Dante, un delicato incarico politico: era ministro del Conte di Provenza Raimondo Berlinghiere e, avendo dimostrato grande competenza, suscitò invidie e calunnie, che indussero il Conte a mandarlo in esilio, ma affronta questa disgrazia con coraggio e onore, pur umiliandosi a domandare la carità:
"indi partissi povero e vetusto;
e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe"
(Paradiso, VI, 139-142).
Altro personaggio molto famoso e ammirato da Dante nella Divina Commedia è Pier delle Vigne, che “tenea ambo le chiavi del cor di Federigo”, anche lui caduto poi in disgrazia per l’invidia degli altri membri della corte, portandolo al suicidio e per questo è nel girone dei suicidi, narrato nel XIII canto dell’Inferno.
In modo dolente egli esprime il suo trauma di innocente:
“Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi”
(Inferno XIII 58-61)
E aggiungeva quanto egli fosse stato corretto e moralmente integro, percepito in questo come esempio della vicenda analoga di Dante, anch’egli accusato ingiustamente di “baratteria”, che era una delle accuse più infamanti:
“Fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e' polsi”
(Inferno XIII 62-63)
E si tolse la vita:
“L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto”
(Inferno XIII 70-72)
A lui Dante dà questo omaggio di perenne memoria che, grazie alla Divina Commedia, tutti possiamo ancora conoscere dopo tanti secoli.
Identificazioni morali con altri esiliati illustri: Boezio e Camillo
Molto nobile è infine una personalità più antica come Boezio, anche lui ingiustamente considerato un traditore del suo signore, Teodorico. Nel Paradiso di Dante, Boezio è uno degli spiriti sapienti del IV Cielo del Sole (Paradiso X, 124-126), che formano la prima corona di dodici spiriti in cui è presente anche san Tommaso d'Aquino:
"l'anima santa che 'l mondo fallace
fa manifesto a chi lei ben ode:
Lo corpo ond'ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
e da essilio venne a questa pace"
(Paradiso, X 124-129)
Dante lo cita e onora anche nel Convivio, dove scrive che è lecito a un autore parlare di sé stesso per difendersi da accuse ingiuste e fa proprio l'esempio di Boezio: "E questa necessitate mosse Boezio di sé medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto" (I, ii, 13).
E poco dopo Dante, identificandosi con Boezio, parla del proprio esilio, nel quale ha sofferto "pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate. Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori dal suo dolce seno [...], per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi medicando, sono andato" (I, iii, 3-4).
Nella Commedia la parola essilio appare soltanto sei volte, una tra queste è riservata proprio a Boezio: egli si trova tra i sapienti del cielo del Sole ed è presentato come un santo e un martire.
Nel Convivio Dante aggiunge un altro personaggio con il quale si identifica: Camillo, che interrompe l’esilio per aiutare Roma: “Chi dirà di Cammillo, bandeggiato e cacciato in essilio, essere venuto a liberare Roma contra li suoi nimici, e dopo la sua liberazione spontaneamente essere ritornato in essilio per non offendere la senatoria autoritade (Cv IV, v, 15).
Anche la vicenda di Camillo adombra quella di Dante e l’ingiustizia patita da Firenze.
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1È una delle frasi più belle tratte da IL PICCOLO PRINCIPE di Antoine de Saint-Exupéry, tratto dal dialogo tra il piccolo principe e la volpe. In quel dialogo cvi è una espressione che evoca la celebre frase che Dante mette in bocca a Ulisse nel verso 119 del XXVI Canto dell’Inferno: “fatti non foste per vivere come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza”, quando la volpe dice al piccolo principe: “gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte”. Se ai mercanti sostituiamo i social e i loro mercanti scaltri e machiavellici che vendono i nostri dati per trasformarci in “merce” (inconsapevole e ignorante), la sentenza della volpe è di una attualità fulminante. La manipolazione delle masse anche nelle elezioni grazie a casi come quello di Cambridge Analytica dà ragione a chi (già ai tempi di Dante) ritiene che la democrazia (comunale o attuale è lo stesso) sia diventata “l’adorazione di sciacalli da parte di somari”.
2Capitolo I, XVII, 6: in virtù della dolcezza di questa gloria non diamo più alcuna considerazione al nostro esilio. Il verbo postergare (dal latino post tergum: dietro le spalle) deriva dal latino medievale che significa: gettarsi una cosa dietro le spalle, non tenerla in considerazione, non darle alcuna importanza e addirittura disprezzare.
3Ippolito d’Atene: è un'altra analogia che Dante usa per paragonare il suo esilio a quello di altri nobili personalità. In questo caso lo paragona alla cacciata di Ippolito da Atene, la cui vicenda è narrata dalla omonima tragedia di Euripide. Ippolito, figlio di Teseo, re di Atene, è un giovane che si dedica esclusivamente alla caccia e al culto di Artemide, trascurando completamente tutto ciò che riguarda la vita comunitaria e la sessualità, andando anzi orgoglioso della propria verginità. Per tale motivo Afrodite decide di punirlo suscitando in Fedra (seconda moglie di Teseo e quindi matrigna di Ippolito) una insana passione per il giovane. Respinta, Fedra si uccide e lascia un biglietto nel quale accusa Ippolito di averla violentata. Quando Teseo, tornato da fuori città, scopre il cadavere della moglie e il biglietto, bandisce Ippolito da Atene, che nell’uscire dalla città ha un incidente e muore in braccio al padre che nel frattempo aveva scoperto la verità. Questo paragone tra l’innocente Ippolito e Dante implica che nemmeno il poeta sia colpevole.
4Farinata è appellativo di Manente degli Uberti, di antica famiglia fiorentina di parte ghibellina, che Ciacco cita fra gli uomini degni del tempo passato (Inf. VI, 79), i Fiorentini "ch'a ben far puoser li 'ngegni”. Farinata visse a Firenze nei primi decenni del XIII secolo, mentre la città era tormentata da continue discordie.
5Ossia con maggiori argomentazioni di quelle dell'opinione comune (Purgatorio VIII, 136-138).