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DANTE E I DISPATRIATI
Sublimazione di un destino

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  Capitolo 10.     Affinità di destino tra Dante e i profeti: le invettive   

Invettive contro il papato e il mondo clericale

Una delle invettive più simili a quelle degli antichi profeti, è quella che troviamo nel girone dei simoniaci, condannati nella III bolgia dell’ ottavo cerchio (Inferno Canto XIX), in cui sono conficcati, col capo in giù, i papi simoniaci, come Nicolò III (della famiglia degli Orsini e che fu avido nell’arricchire i suoi parenti), che, a sua volta, predice la stessa futura dannazione ad altri due papi simoniaci: Bonifacio VIII e Clemente V.
Lo sdegno di Dante esplode contro Niccolò e tutti i papi dediti alla simonia, ai quali il poeta chiede ironicamente quale tangente Gesù pretese da Pietro, prima di affidargli le chiavi del regno dei cieli, e sottolineando con ironia sferzante che gli apostoli non pretesero alcun pagamento da parte di Mattia quando prese il posto di Giuda. Inizia il Canto con un riferimento a Simon mago, del quale narrano gli Atti degli apostoli: vedendo che gli apostoli Pietro e Paolo guarivano gli infermi, offrì loro del denaro perché dessero anche a lui questo potere di fare miracoli:

O Simon mago, o miseri seguaci,
che le cose di Dio, che di bontate,
deon essere spose, e voi, rapaci,

per oro e per argento avolterate;
or convien che per voi suoni la tromba,
però che nella terza bolgia state”
(Inferno XIX, 1-6)

 

Un papa tira l’altro

Papa Nicolò aveva ricevuto denaro per favorire una politica contraria a Carlo I d’Angiò. Con un artificio letterario curioso, Dante viene scambiato da Nicolò III con Bonifacio VIII e a lui papa Nicolò III grida:

Ed ei gridò: Sei tu già costì ritto?
Se’ tu già così ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
Per lo qual non temesti torre a inganno
La bella donna, e poi di farne strazio?”
(Inferno Canto XIX, 52-57)

E gli predice che cadranno in quel posto di dannati anche papa Bonifacio, che fa scempio della Chiesa (che Dante chiama bella donna, come sposa di Cristo) e papa Clemente V, con il quale la Chiesa si è asservita agli interessi della monarchia francese di Filippo il Bello.
Nicolo’ III paragona Bonifacio VIII a Giasone, sommo sacerdote degli ebrei che comprò l’incarico da Antioco di Siria 1.
A questo punto lo sdegno di Dante paragona il culto dei papi per il culto del vitello (o toro d’oro) come il loro primo Sommo Pontefice, Aronne, perché adorano cento dei d'oro e argento e aggiunge, prima ancora che si scoprisse che fosse un falso, che “molto male ha prodotto la donazione di Costantino”.

 “Fatto v'avete dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno e voi ne orate cento?”
(Inferno XIX, 112-114)

L’idolatria (soprattutto per il dio Baal dei Cananei) è uno dei temi più ricorrenti di tutti i profeti: per esempio in Osea VIII,4:” Del loro argento e del loro oro si sono fatti degli idoli”.

 

Un papa goloso e collusivo

Un altro personaggio clericale che Dante condanna senza indugio è il papa Martino IV:

“…e quella faccia
Di là da lui, più che l’altre trapunta,

ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia;
dal Torso fu, e purga per digiuno
l’anguille di Bolsena e la vernaccia”
(Purgatorio XXIV 20-24)

Dante, con l’espressione “e purga per digiuno l’anguille di Bolsena e la vernaccia” si riferisce alla morte per indigestione del papa, posto nel Purgatorio tra i golosi.
Questo papa, che si chiamava Simon de Brion, era prelato di Tours (Torso nella lingua di Dante) e divenne papa con il nome di Martino IV dal 1281 al 1285.Il suo predecessore era Nicolò III che Dante trova nella bolgia dei simoniaci.

 

Un clero prepotente e criminale

Un altro prelato al quale Dante riserva una dura stoccata è Bonifazio, arcivescovo di Ravenna, che “pasturò” con le ricchezze della chiesa intere schiere di cortigiani:

 Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti.
(Purgatorio, Canto XXIV 28-30)

E infine evoca un frate gaudente, frate Alberigo, della famiglia dei Manfredi di Faenza, che offeso dai suoi parenti, li invitò a pranzo, ma al momento della frutta, fece entrare i sicari che li uccisero tutti.

Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo;
i' son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo”
(Inferno XXXIII 118-120)

 

Invettive politiche: Firenze

Sono molto numerose le invettive politiche che Dante rivolge, spesso con grande amarezza e cocente delusione, alle istituzioni politiche dell’Italia e all’Italia stessa nella sua interezza, come nel canto VI dell’Inferno: contro Firenze, in occasione dell’incontro tra Dante e Ciacco, suo concittadino, dopo un incontro orribile con Cerbero, quasi a elaborare una sceneggiatura coerente con quanto sta per pronunciare contro la sua città ingrata e crudele.

E, interpellato da Dante sulle vicende di Firenze, Ciacco preannuncia avvenimenti dolorosi, misfatti e conflitti tra frazioni opposte:

 “Ed egli a me: dopo lunga tencione
Verranno al sangue, e la parte selvaggia
Caccerà l’altra con molta offensione”
(Inferno VI 64-66)

Un’altra battuta durissima contro Firenze la troviamo nel Canto XI del Purgatorio, dove Dante ricorda la sconfitta da parte dei senesi guidati da Salvani:

ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta”
(Purgatorio XI 112-114)

E conclude con un giudizio drastico sul numero dei “giusti” che vi sono in quella città:

Giusti son due, e non vi sono intesi.
Superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cori accesi”
(Inferno VI 73-75)

E quegli unici due (uno dei quali è forse lo stesso Dante) non sono ascoltati (intesi).

 

Invettive politiche: l’Italia

Le principali invettive politiche sono in primo luogo concentrate tutte nei sesti canti: nel VI canto dell’Inferno l’invettiva era contro Firenze, nel VI Canto del Purgatorio contro l’Italia tutta e nel VI Canto del Paradiso contro l’Impero.
Abbiamo già citato nel capitolo V di questo libro, dedicato ai grandi profeti Elia e Geremia, il lamento di Dante a proposito dell’Italia, nel VI Canto del Purgatorio.
Dante fa un paragone tra la miseria in cui è caduta l’Italia: bordello, ossia luogo di corruzione e di caos, in paragone con lo splendore dell’antica Roma, nella quale c’era un potere centrale unico e sollecita l’imperatore Alberto I di non trascurare l’Italia, che Dante definisce, con una bellissima immagine, il “giardin de lo ‘mperio”.
Dante, rivolgendosi all’imperatore, dimostra di avere una visione “laica” del potere politico e condanna l’ingerenza della chiesa e dei papi nelle questioni politiche, motivando la sua posizione con prove evidenti del ruolo negativo e spesso nefasto dei papi e della curia romana nella situazione del “bordello”.
Una curiosità è che tra le famiglie che Dante riporta come esempio delle lotte fratricide fra partiti o frazioni opposte vi sono i Montecchi e i Cappelletti, gli stessi che sono stati oggetto della tragedia “Giulietta e Romeo” di Shakespeare:

«Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filppeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!».
(Purgatorio VI 106-108)

 

Il caso speciale del conte Ugolino

Particolarmente efficace, per il contesto tragico in cui avviene, è l’invettiva contro Pisa, alla quale fa emettere dal conte Ugolino una maledizione degna di un profetismo apocalittico, che Dante condivide in pieno:

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!”
(Inferno XXXIII 79-84)

Il conte Ugolino fu condannato ad una morte crudele insieme ai figli e ai nipoti dall’ Arcivescovo pisano Ruggieri, che Dante ironicamente chiama “maestro e donno”, con un accostamento provocatorio a Gesù che, schermendosi, nel vangelo di Giovanni diceva: “Voi mi chiamate maestro e signore”.
L’indegnità di questo arcivescovo è una della più gravi dell’intera storia della chiesa, anche se la gara fra arcivescovi, cardinali e prelati indegni è impressionante.
Una nota critica di natura politica richiama uno degli atti più frequenti dei tiranni e dei politici privi di scrupoli, compreso l’arcivescovo pisano Ruggieri: manipolare le masse aizzandole contro i nemici con fake news e insinuazioni o accuse infondate e costruite ad arte.
Quelle masse istigate che Dante chiama “cagne magre, studiose e conte”, come se l’arcivescovo fosse alla testa di una muta di cagne magre (ossia di povera gente del popolo), studiose, ossia bramose e aggressive, e conte (esperte, ben guidate dai suoi manipolatori).

 

La relazione asimmetrica tra clero e popolo cristiano

Dante attira l’attenzione su un particolare, che caratterizza purtroppo lungo tutti i secoli la relazione asimmetrica tra gli uomini di chiesa (preti, frati, vescovi e papi) e il popolo credente: la gente dà loro fiducia e crede nella loro buona fede, purtroppo con un esito quasi sempre ingannevole e manipolatorio.

Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto…
(Inferno XXXIII 13-18)

E la descrizione della scena straziante dei figli e dei nipoti che, morsi dalla fame, si offrono al padre come cibo, raggiunge un vertice inenarrabile di dove può arrivare la crudeltà e la nequizia degli uomini di potere: spesso molte masse devote, ingenuamente e con frequenza storica quasi incredibile, si inchinano davanti a loro adoranti. Basti pensare a Hitler, ma con lui alle migliaia di dittatori e di leaders nefasti, sia del passato che del presente, con i loro fanatici consacrati alla causa, le loro macchine di propaganda che truffano il popolo, i loro sermoni, messaggi, tweets e hashtags, con il loro cinismo.

 

Battute sferzanti contro altre città

Dante non risparmia battute e ironie sferzanti anche per altre città della penisola, come Genova e i genovesi, ai quali, lontani da ogni buon costume e pieni di vizi, augura di essere tolti di mezzo e di sparire:

Ahi Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
(Inferno XXXIII 151-153)

E porta un esempio di crudeltà e di avidità perfino sul conto della famiglia genovese dei Doria, che fu signora di Genova per molti secoli, ma che secondo Dante iniziò la sua fortuna in modo criminale, tanto per fare anche di Genova un teatro di misfatti tipici dell’antropologia italica: tradimenti, avidità (la “roba” di verghiana memoria) e potere, senza guardare in faccia a nessuno e senza rispettare alcun principio morale e civico.

 

Contro Siena e Bologna

Dante ha cenni polemici anche per Siena: nel canto XXIX dell’Inferno, nella bolgia dei falsificatori dei prodotti con l’uso della chimica (che oggi sono in numero incalcolabile, soprattutto per cibi, vini, bevande e perfino droghe e mille altri prodotti taroccati).
E per Bologna, che, nel canto XXIII dell’Inferno (bolgia degli ipocriti), è impersonata dai “frati godenti” (chiamati anche capponi di Cristo), ordine religioso creato a Bologna e del quale furono membri due persone come Catalano e Loderingo, chiamati a esercitare il ruolo di podestà a Firenze, ma che invece di essere imparziali tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, come avrebbero dovuto, favorirono i guelfi, cedendo alle istigazioni di papa Clemente IV (prelato di origine francese). Nella stessa bolgia vi sono anche i Sommi Sacerdoti Anna e Caifa, che, con la loro ipocrisia, condannarono Gesù.
Interessante per la sua modernità e attualità il cenno alla mediocrità della classe politica in generale, quando scrive:

Ché città d’Italia tutte piene
Son di tiranni, e un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene”
(Purgatorio VI, 124-126)

 

Di nuovo contro Firenze

E poi dal versetto 127 al 151 del VI Canto del Purgatorio, vi è una nuova invettiva o rampogna contro Firenze, con un elogio tutto in chiave sardonica:

 “Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
Di questa digression che non ti tocca
Mercé del popol tuo che si argomenta

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, tu con senno!”
(Purgatorio VI 127-129 e 136-138)

 

Anche l’imperatore non sfugge alle sue critiche

Nello stesso canto VI del Purgatorio, Dante dedica una dura arringa all’imperatore Alberto.

 “O Alberto tedesco ch’abbandoni
Costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,

giusti giudicio da le stelle caggia
sopra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
sì che ‘l tuo successore temenza n’aggia!

Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de l’imperio sia diserto”.
(Purgatorio VI 97-105)

C’è una affinità tra questa evocazione all’imperatore e le profezie di Isaia, di Daniele e di altri profeti a riguardo di Ciro e di altri imperatori persiani.
Isaia nei Capitoli 13-23, predice la caduta di Babilonia e l’avvento di Ciro, che salvò gli ebrei dall’esilio. La figura di Ciro catalizza le speranze degli esiliati e diventa il docile strumento della volontà di Yahweh. Dante evoca l’imperatore con la stessa speranza.
Anche lo storico Giuseppe Flavio indicò che le profezie di Isaia relative a Ciro furono scritte nell' VIII secolo a.C. e scrisse che Ciro ne era al corrente:
“Ciro seppe queste cose leggendo il libro profetico lasciato da Isaia duecento e dieci anni prima…e si meravigliò del potere divino e fu preso dal forte desiderio e dall’ambizione di fare ciò ch’era stato scritto; e, avendo convocato gli Ebrei più illustri di Babilonia disse loro che li lasciava tornare al loro paese nativo, e riedificare sia la città di Gerusalemme che il tempio di Dio, poiché Dio, egli disse, sarebbe stato il loro alleato ed egli stesso avrebbe scritto ai suoi governatori e satrapi che erano nelle vicinanze del loro paese affinché dessero loro contribuzioni di oro e argento per edificare il tempio e, inoltre, animali per i sacrifici” 2.

 

Contro i privilegi dei vip e le cene eleganti

Dante dedica al profeta Daniele anche un breve passo, nel quale sottolinea che il giovane profeta, pur essendo un esiliato privilegiato, perché posto a servizio del re, rifiutava di dedicarsi ai banchetti, ai ricevimenti e ai rinfreschi dei salotti famosi e nelle fiere della vanità, come fanno abitualmente i potenti e i vip per farsi notare e dimostrare che loro sono loro e gli altri niente, e preferiva comportarsi in modo sobrio, per solidarietà con gli altri esiliati molto meno privilegiati di lui, che vivevano nei campi di concentramento come Chebar o erano costretti ai lavori forzati, denutriti, sfruttati e schiavizzati.
Perciò egli rifiutò insieme agli altri suo giovani compagni i cibi prelibati della mensa regale e si nutrivano di acqua e legumi: in cambio Dio concesse a Daniele la capacità di interpretare i sogni (Dan. I, 1-20) e fare previsioni anche molto difficili, come quelle del nostro attuale coronavirus.
Infatti, Dante, in apprezzamento di questa sua sobrietà, lo paragona addirittura alla Vergine Maria (oppure, con una stilettata di sapore squisitamente più politico che religioso, alle romane antiche, che erano contente di bere acqua e non di offrire champagne ai loro amici vip. E nel Canto XXII del Purgatorio scrive:

E le Romane antiche, per lor bere,
contente furon d’acqua; e Daniello
dispregiò cibo e acquistò savere”
(Purgatorio XXII, 145-147)

Una lezione di integrità morale e di sobrietà che la “casta” non ha, dedicandosi a spese pazze e incongrue con i soldi del popolo.

 

Due fatti emblematici: il sesso dei potenti e la macchina del fango

La fama di Daniele è legata soprattutto a due fatti, anch’essi tipici di un modo di concepire la giustizia e la politica in modo diverso dallo stile usuale del potere: uno, è quello del processo ai due “vecchioni” (due politici) 3 che insidiavano Susanna mentre faceva il bagno per fare sesso e abusare di lei.
Ma da eccellente detective li fece interrogare separatamente, smascherando così la falsità delle loro insinuazioni su Susanna, che secondo loro “se l’era cercata” (come dicono spesso i giornali conservatori e di destra, anche davanti all’evidenza).
I due cercavano di sfruttare la loro posizione politica, per uscirne impuniti, ma Daniele ha il coraggio di contestare la loro versione dei fatti e di portarli in tribunale: è quello che cercano di fare i giudici onesti in Italia, ma purtroppo sempre più spesso in modo vano, perché la classe politica e i suoi supporter elaborano strategie di prescrizione sicura o di impunità parlamentare garantita.
È il metodo tipico dei politici che, quando sono colti in fallo, fanno sempre credere di essere innocenti, di credere nella giustizia, fanno la faccia di bronzo e ritorcono su chi li accusa le infamie più incredibili, magari con l’aiuto dei giornalisti o dei TG a pagamento o della cosiddetta “macchina del fango”, nella quale sono specializzati proprio alcuni giornalisti attuali e di sempre.
Ed è a causa di questa macchina del fango che Daniele fu gettato nella fossa dei leoni per essere divorato, ma i leoni non lo fecero.
E il re, davanti a questa clamorosa prova di innocenza, fece gettare nella fossa dei leoni quelli che lo avevano accusato ingiustamente: naturalmente i leoni questa volta non si sono fatti pregare e fecero quello che molti di noi sognano che accada proprio a molti nostri volti noti, produttori delle fake news e delle macchine di informazione (comprata) e di propaganda sporca e velenosa.

 

Un’antipolitica dentro il sistema

L’antipolitica dei profeti trova in Daniele una specie di paradosso. Apparteneva ad una famiglia bene della aristocrazia giudaica: un rampollo della casta.
Con l’occupazione dei babilonesi, con Nabucodonosor, gli ebrei furono deportati in massa a Babilonia, ma, a differenza dei nazisti, alcuni di loro, particolarmente istruiti e di nobili origini, furono inseriti alla corte del re più come ospiti che come prigionieri: “dovevano essere ragazzi senza difetti fisici, di bell'aspetto, dotati di ogni saggezza, istruiti e intelligenti” (Daniele 1,4).
Daniele, insieme ad altri tre suoi coetanei e amici, fu messo in tirocinio (una specie di dottorato) con molti altri giovani, alla corte di Nabucodonosor, sotto la guida di Aspenaz, regius professor 4 e tutor, capo dei suoi eunuchi, che era incaricato di insegnare a loro il cerimoniale di palazzo e la scrittura e la lingua dei Caldei. In termini attuali, Daniele divenne un vip, un membro della casta.
Ma rari sono i casi di persone che abbiano un ruolo così vicino al potere centrale e non siano diventati arroganti, sprezzanti e chiusi nei loro privilegi, come da secoli dimostrano, a puro titolo di esempio, le cordate di potere e le società segrete, create nelle grandi Università esclusive , clubs e mille altri casi di eccessi di narcisismo esasperato e di cospirazioni globali che mirano a dominare un paese o addirittura il mondo.
Il fatto di entrare a far parte del “cerchio magico” della corte non inquinò l’integrità morale di Daniele e dei suoi colleghi.
Questo profeta è stato ricordato con grande simpatia non solo da Dante, ma anche da un altro grande poeta e scrittore della letteratura italiana, Alessandro Manzoni, che a proposito delle profezie sulle “settanta settimane”, nella poesia La Resurrezione scrive:

“Quando, assorto in suo pensiero,
lesse i giorni numerati
e degli anni ancor non nati
Daniel si ricordò”

 

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1In una controversia in corso tra altri candidato, Jason si offrì di pagare Antioco al fine di essere confermato come il nuovo Sommo Sacerdote di Gerusalemme. Antioco accettato l'offerta. Nel capitolo secondo ho già accennato ad un altro caso simile: il caso di Àlcimo, che cerca anche lui di comprare la carica di sommo sacerdote al tempo dei Maccabei durante la loro lotta partigiana contro l’invasore Demetrio (1 Maccabei 7, 21 e ss.).

2Antichità giudaiche, Libro XI, Cap. 1.

3Costoro erano stati eletti giudici (oggi diremmo “consiglieri o assessori regionali oppure anche deputati”) dalla comunità ebraica esule a Babilonia

4Un Regius Professor è di nomina reale: una caratteristica unica del mondo accademico nel Regno Unito.

 

 

 

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