La peste a Firenze nel 1523
Nel maggio 1523 a Firenze la peste raggiunge il suo picco. Tra i cittadini più facoltosi rifugiati nelle dimore extraurbane c’è anche Filippo Strozzi, letterato e uomo politico appartenente ad un casato tra i più potenti della città, al quale Niccolò Machiavelli scrive l’Epistola della peste. Si tratta del resoconto di quanto visto per le strade e le piazze cittadine nel giorno di Calendimaggio, ossia la festa del ritorno della primavera, per tradizione momento di intrattenimenti ludici, dai balli alle giostre, ma ora cancellati dal calendario delle manifestazioni popolari.
Dopo la morte di Machiavelli succede che lo stesso Strozzi si attribuisce la paternità del testi, apportando minimi ma efficaci cambiamenti, tanto da provocare una sorta di dibattito in ambito storiografico circa il riconoscimento del vero autore. Soccorre in merito l’attento e rigoroso lavoro filologico di Pasquale Stoppelli che restituisce la lettera alla penna di Machiavelli ripubblicando l’Epistola (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2019, pp. 79) in una pregevole edizione corredata da un esaustivo apparato di note di fondamentale importanza per capire il testo.
Ispirandosi alla descrizione della peste fiorentina del 1348 come raccontata nell’introduzione alla prima giornata del Decameron, Machiavelli segue la strada del realismo narrativo, connotato da effetti ora tragici ora comici, talvolta non estranei al grottesco. Il quadro è tra il catastrofico e il desolante: la sospensione delle attività produttive ha trasformato i «ragionamenti, che comunemente si tengono in piazze honorevoli et in mercato», in bollettini aggiornati su «chi dice il tale è morto, quell’altro è malato, chi fuggito, chi in casa confitto (costretto), chi allo spedale».
Lungo il percorso urbano nel cuore di Firenze, Machiavelli vede e descrive con piglio boccaccesco alcune scene proprie del tempo della peste. In Piazza della Signoria nota un frenetico movimento di croci, bare, becchini ovunque che nella vicina Santa Croce improvvisano un ballo in tondo cantando Ben venga il morbo e ironizzando sulla celebre ballata Ben venga maggio.
Lo scrittore entra in chiesa, consola una donna addolorata per la morte del marito con «carnale affectione». Fugge invece allibito e turbato dalla chiesa di Santo Spirito perché frati alla fame bestemmiano e maledicono Dio, mentre in quella di Santa Trinita vive un’atmosfera particolare, silenziosa. Incontra un uomo «ben qualificato» incantato a contemplare una donna inginocchiata e assorta in preghiera, di cui è tanto innamorato tanto da sfidare le regole delle distanze imposte dalla peste.
Altre manifestazioni del tutto imprudenti sono notate in Santa Maria Novella, dove i presenti pensano più «allo amorevole gioco che alle celesti cogitationi (meditazioni)», al quale non si sottrae lo stesso Machiavelli dopo aver conosciuto e consolato «una bella giovane in habito vedovile», con la quale esce dalla chiesa non prima di aver subito l’effetto del colpo di fulmine («le parole, la voce, il modo et la cura che mi parve che della salute mia temesse, mi trafissero il core, sì che nel foco entrato per lei saria»). Il narratore accompagna la donna a casa. Avrebbe voluto visitare anche la chiesa di San Lorenzo. Invece ritorna a casa, pregustando quanto sarebbe successo l’indomani quando avrebbe rivisto questa «leggiadra donna». Ma a questo punto l’Epistola della peste si ferma.
Massimo Bertoldi