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SPETTACOLI E MOSTRE

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In nome del padre

Uno spettacolo di e con Mario Perrotta

 

Consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
Collaborazione alla regia Paola Roscioli
Aiuto regia Donatella Allegro
Costumi Sabrina Beretta
Musiche Beppe Bonomo, Mario Perrotta
Allestimento tecnico Emanuele Roma, Giacomo Gibertoni
Progetto grafico Fabio Gamberini

Produzione Teatro Stabile di Bolzano

 

Con lo spettacolo In nome del padre Mario Perrotta propone il primo capitolo della trilogia dedicata all’analisi della famiglia contemporanea. Sostenuto dalla preziosa consulenza dell’autorevole psicoanalista Massimo Racalcati, l’attore e regista pugliese opera una selezione tra le variegate figure dei padri d’oggi, quale inequivocabile segno del tramonto irreversibile del ruolo e dell’immagine di tradizione storica, e individua a titolo esemplificativo tre tipologie che nella finzione del monologo vivono nello stesso condominio. Al primo piano abita il giornalista siciliano Sciacca alle prese con la stesura di un articolo dedicato agli adolescenti che, come suo figlio Virgilio, vivono in una sorta di autoisolamento misterioso e rinunciatario. Il secondo piano è occupato da un capofficina veneto tanto sicuro e autoritario nell’organizzare il lavoro dei suoi dieci operai quanto frustrato nei rapporti con il figlio Alessandro per il fatto di sentirsi sempre giudicato e svilito a causa della mancanza di cultura e per l’incapacità di esprimersi in italiano corretto. Al terzo piano vive il commerciante napoletano Giuseppe, desideroso di soldi donne e bicchieri di vino, che ha instaurato con la figlia Giada un rapporto morboso e al limite dell’incesto, da “amicone” vorrebbe essere.

Unisce questi padri il disorientamento di fronte al silenzio e alla solitudine dei figli adolescenti, che non riescono a capire perché non vedono oltre la parete della loro stanza-rifugio e, perciò, non decodificano le loro emozioni e aspettative. Nello smarrimento è prevedibile cercare rimedi che assomigliano al canto di un cigno mortificato, come succede, per esempio, al capofficina che è andato dallo psicoanalista consigliatogli da Giuseppe, o a Sciacca che avvia un percorso con la moglie di rispetto e di comprensione verso lo spleen del figlio omosessuale. E avanti di questo passo, in un labirinto mentale avvolto nel buio e dal quale pare difficile trovare la via d’uscita.

Per meglio connotare questo intenso monologo di padri senza l’interlocuzione dei figli, Perrotta posiziona sul palcoscenico tre sagome di ferro da lui stesso realizzate: sono emblematici manichini di una condizione umana oppure simbolici segni scheletrici di un non-discorso.

Il questo monologo-assolo carico di squisita tensione emotiva lo stile di recitazione di Perrotta si basa su un andamento musicale tutto giocato sull’alternanza di effetti comici, drammatici e grotteschi, che rendono questi tre personaggi esseri umani e palpabili, ora tremendamente ridicoli e ora patetici nella loro disperata ricerca di essere riconosciuti dai figli. Perrotta scatta come una molla da un padre all’altro, indossando una giacca diversa e cambiando registro gestuale e dizionario della connotazione linguistica. Il ritmo narrativo, veloce e a tratti serrato, diventa un gioco funambolico della parola concreta e incisiva. La voce sprigiona quell’intensità e quella delicatezza affettiva verso questi piccoli antieroi d’oggi che rendono lo spettacolo coinvolgente, appassionante e, soprattutto, di pregevole fattura artistica.

Alla fine de In nome del padre si intravvede un piccolo (grande) spiraglio di luce: Virgilio uscirà dalla sua stanza e abbraccerà il padre fino all’alba, Alessandro ritroverà il contatto paterno grazie alla passione condivisa della chitarra, anche Giada delle ossessioni che la hanno bersagliata. Sono segnali che sottendono un diverso modo dell’essere padri: non portatori di potere e disciplina ma artefici di una narrazione autobiografica con le proprie debolezze e difficoltà esistenziali del passato e del presente, sulla quale sviluppare un fertile terreno di dialogo con i figli, costruttivo per entrambi.

 

                                                  di Massimo Bertoldi

 

 

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