| foto di Laila Pozzo
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La moglie
di e con Cinzia Spanò
regia di Rosario Tedesco
luci di Giuliano Almerighi
produzione Teatro dell’Elfo
Atto conclusivo della bella rassegna “In scena” realizzata dall’associazione Cristallo in collaborazione con il Teatro Stabile di Bolzano, La moglie di e con Cinzia Spanò è uno spettacolo assai coinvolgente e di raffinata bellezza che coniuga l’abile montaggio narrativo del testo con l’estro espressivo della talentuosa attrice milanese che annovera importanti partecipazioni a spettacoli curati da qualificati registi italiani tra i quali spiccano i nomi di Antonio Latella, Massimo Castri, Massimo Navone, Beppe Navello e Carmelo Rifici.
Il monologo in questione – seconda prova di scrittura della Spanò dopo il sorprendente Marilyn Mon Amour del 2011, è un testo intenso e lineare: immortala la figura storica di Laura Capon, moglie del celebre fisico Enrico Fermi. La loro relazione diventa metaforica vicenda di solitudini, di intime presenze-assenze, di muri invisibili poi drammaticamente abbattuti.
Il palcoscenico del Teatro Cristallo di Bolzano presenta una scenografia scarna con il fondale chiuso sullo sfondo, tre sedie in scena illuminate da un gioco di luci delicate e cangianti. L’attenta e chirurgica regia di Rosario Tedesco accorda all’esibizione dell’attrice tempi e ritmi appropriati alla parola nei suoi silenzi, nel suo librarsi con rabbia e furore, con dolcezza e semplicità, soprattutto nella concatenazioni di fotografie invecchiate e rivisitate dai flash back che restituiscono frammenti esistenziali, dall’innamoramento ai tempi dell’università, all’assegnazione del premio Nobel, al trasferimenti dei coniugi Fermi negli Stati Uniti (Enrico è discriminato dal regime fascista perché «ammogliato a un’israelita»). Tuttavia l’illusoria felicità di Los Alamos – cittadina anonima in mezzo al deserto e non segnata sulle carte geografiche in cui ha sede il centro di ricerca dove si svolge nella massima segretezza anche verso i famigliari il cosiddetto “progetto Manhattan” per la realizzazione delle bombe atomiche poi sganciate su Hiroshima e Nagasaki – si trasforma in un terribile incubo, in una soffocante prigione dorata per la vita e gli affetti. Lentamente la moglie scopre la verità e questo le provoca una reazione di progressivo straniamento dalla vita fino a slittare in una particolare condizione psichica simile a quella vissuta dalla mitologica Psiche, figura più volte citata nel testo della Spanò prima rapita e poi costretta a relazionarsi solo nottetempo con un amante di cui troppo poco conosce.
La Spanò disegna con incredibile umanità il percorso esistenziale di questa donna prima vinta dall’illusione poi alterata dal tormento e restituisce sulla scena, attraverso un minuzioso registro espressivo nelle sfumature della voce e nel repertorio gestuale, le pieghe interiori di un’anima dolente, beffata dalla storia. Il vorticoso movimento degli affetti, che accompagna il crescendo delle tensioni verso il dramma finale, produce una sorta di drammaturgia del guardare: prima gli occhi dell’attrice sono spiritati, poi via via tristi, smarriti, sconvolti. Così la forza del teatro di parola accompagna i passi della liturgia di una silenziosa e inquietante danza di morte datata 1942.
di Massimo Bertoldi
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