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L’Italia di Dante.
Viaggio nel Paese della Commedia
di Giulio Ferroni
Milano, La nave di Teseo e Società Dante Alighieri, 2019, pp. 1226
Dante e Ferroni, viaggiatori d’Italia. Considerazioni su un libro recente
È ancora fresco il ricordo dei difficili mesi del confino eccezionale entro le mura domestiche; e la recente riapertura non ha potuto del tutto dissolvere la straniante inquietudine, il senso di alienazione e disagio, anche per l’ambiguità delle soluzioni e i pareri discordanti verso un nemico invisibile che non pare tuttora sconfitto. In questo tempo incerto attualissimo appare il tema del percorrere lo spazio, della libera mobilità attraverso i luoghi d’Italia. Così il libro di Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel Paese della Commedia giunge anticipando di pochi mesi il famigerato lockdown; oggi la sua lettura, nell’evocazione di tanta bellezza artistica e naturale, nel comunicare il piacere del viaggiare, si apprezza particolarmente e ci invoglia a ripercorrere e fruire gli spazi ivi evocati, memori dei vicini e strani giorni in cui ciò ci era precluso.
Ma il recente volume esce anche in un momento in cui è vivissimo l’interesse per l’opera dantesca: il 2020 è stato l’anno del primo Dantedì, giornata nazionale dedicata al poeta, mentre si avvicinano ormai le celebrazioni per il settimo centenario della sua morte (1321-2021). Nel segno della grande tradizione dei viaggi in Italia riassunti in scrittura – da Montaigne a Montesquieu, da Goethe a Stendhal, fino a Guido Piovene – l’autore compie un Grand Tour nel “bel paese dove ’l sì suona” sulle tracce dei luoghi nominati nel poema eccelso che è simbolo della letteratura e della cultura italiana, la Divina Commedia: un’opera voluminosa quella di Ferroni, ma di fluida e appassionata scrittura, resoconto o diario, narrato in prima persona, di una serie di viaggi da lui compiuti tra il 2014 e il 2016, le cui tappe sono sempre occasionate e scandite dalla parola dantesca.
I viaggi di Dante, reali e letterari
D’altronde è lo stesso Dante l’autore di uno dei primi “viaggi in Italia”, seppur solo mentale: nel De vulgari eloquentia egli percorre i “boschi e i pascoli” della penisola alla ricerca di quella sfuggente “pantera” che è il perfetto volgare letterario (decentiorem atque illustrem Ytalie venemur loquelam, I xi 1), notando, tra le altre cose, con grande lungimiranza, il variare delle lingue nel tempo e nello spazio. È poi la Commedia anch’essa il racconto in prima persona di un viaggio, quello mistico attraverso i regni ultramondani del viator in cammino dalla selva del peccato verso la redenzione e il ricongiungimento con Dio; pellegrinaggio tutto spirituale che pure non tralascia la notazione degli aspetti più concreti del viaggiare: la fatica, il sonno (“[...] stava com’om che sonnolento vana”, Pg XVIII 87), le difficoltà lungo il cammino, gli imprevisti (la “via [...] rotta” nelle Malebolge, If XXI 114), gli ostacoli naturali (“noi salavam per entro ‘l sasso rotto, / e d’ogne lato ne stringea lo stremo, / e piedi e man volea il suol di sotto, Pg IV 31-33), i mezzi di trasporto (memorabile il volo sulle “spallacce” di Gerione, If XVII, o la discesa nel fondo dell’Inferno nelle mani del gigante Anteo, If XXXI).
È tipico di Dante spiegare luoghi e situazioni dei regni ultraterreni riconducendoli al nostro mondo, alla quotidianità che tutti gli uomini possono comprendere; in ciò si realizza una delle più originali cifre dantesche: poesia che ammette in perfetto connubio lo spirito e la corporalità, e che in fondo ne rimarca la sua autentica anima medievale. Il protagonista della storia (quel Dante il cui nome risuona un’unica volta nel poema, Pg XXX 55) rappresenta allo stesso tempo l’allegorico Everyman e Dante Alighieri, dal vissuto umano unico e irripetibile. Nella storia universale del poema emerge potente quella particolare dell’autore e del mondo coevo: gli eventi politici, l’attualità, i personaggi, gli ideali. E così anche il viaggiare, che ebbe parte importante nella vita del poeta; non solo il doloroso ramingare nel tempo d’esilio, quando provò “sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale” (Pd XVII 58-60) ma anche prima, quando l’impegno politico e ideologico alla causa di Firenze lo portò a partecipare a varie ambascerie e battaglie in più luoghi della Toscana e nei suoi dintorni.
Pertanto, la notazione dei più diversi luoghi d’Italia, conosciuti direttamente o indirettamente, per fama letteraria o per altre vie, ha tanto spazio nell’opera dantesca; tutta la Commedia, infatti, è gremita di citazioni di città, luoghi naturali, siti di battaglie, opere architettoniche e artistiche dell’Italia contemporanea o antica che la straordinaria immaginazione di Dante utilizza per dare concretezza e verosimiglianza all’Oltremondo: di qui parte Ferroni nel suo viaggio dantesco.
Il viaggio di Ferroni, tra dantistica e odeporica
Giulio Ferroni, professore emerito della Sapienza di Roma, ormai libero dagli impegni accademici, realizza un suo antico desiderio: viaggiare attraverso i luoghi danteschi, dove l’eco della poesia – voce assoluta ma al contempo recante il segno della sua età – si congiunge al vario sovrapporsi delle epoche passate, determinandone la presenza odierna in una continuità, quando equilibrata e armonica, quando lacerata e contrastata; “nel nome di Dante la cultura e la lingua italiana segnano il loro incardinarsi nei luoghi d’Italia, si pongono come un dato vitale che ha animato nel tempo l’ambiente e il paesaggio d’Italia, le sue bellezze naturali e gli infiniti splendori dell’arte, dell’architettura, dell’urbanistica, del vario e contraddittorio fare umano” (p. 18).
Percorrere gli spazi del nostro paese sulla scorta della parola dantesca è anche “affermare la reale riconoscibilità dell’Italia”: molti secoli prima che esistesse una nazione italiana, Dante già attribuiva una determinata identità storica, linguistica e geografica all’ “umile” patria virgiliana; e oggi è tanto più importante ricordarlo, contro tutte le divisioni, le ambiguità e i contrasti della politica e della cultura odierne (così che riecheggiano sempre attuali i famosi versi della “serva Italia, di dolore ostello”, Pg VI 76 e segg.). Ferroni ci racconta un’Italia proteiforme, dove la disarmante bellezza della natura e dell’arte convive con le brutture e l’artificialità della società del consumo, dove la civiltà e l’ingegno degli uomini passati e presenti lottano contro gli egoismi moderni, il ricordo persistente degli orrori della guerra, la violenza e la volgarità.
Emblema di questa ossimorica condizione appare una città come Napoli, luogo del riposo di Virgilio e di Leopardi, “grande capitale caduta e fatiscente” nella quale si alternano “bellezza e violenza, intelligenza e ignoranza, decoro e degrado, impegno razionale e volgarità camorrista”, ma in cui persiste l’ “eco di voci e di luci antiche, di sole e di mare d’altri tempi, di magie segrete, di esistenze, popoli, linguaggi che sembrano traspirare dal fondo della terra, dalle stesse minacciose esalazioni vulcaniche” (p. 26); a Roma, invece, “nel cuore della Cristianità, nella fucina del sacro, in uno dei luoghi che più miracolosamente hanno saputo coniugare il sacro con il bello”, i siti di richiamo turistico come i Musei Vaticani sono contaminati dalla “mediocre e povera sciatteria che contorna la bellezza”, la varia e banale paccottiglia delle bancarelle di souvenir per vacanzieri distratti, che fruiscono di quella bellezza in maniera superficiale. Vi è infatti una sottile critica a quel “turismo standardizzato e plastificato” che deturpa l’autenticità del luogo, trasformandolo in platinato spettacolo per il consumo delle folle; come Venezia, divenuta “simulacro di se stessa” o Alberobello che “ha totalmente perduto la propria ragione interna, è come svuotato e riempito di altro, lustrato in funzione dello sguardo estraneo” (p. 284).
Per converso, ci sono invece luoghi che sembrano sfuggire alla caotica modernità, protetti dal silenzio e preservati nella loro autentica identità: come l’alpina Ostana, dove ogni cosa reca “il segno di una concretezza di vita, di una disposizione umana che non si è ancora piegata alla virtualizzazione dell’esperienza” (p. 958), o Sovana, in Maremma, “segreto resto di Medioevo approdato nel nostro tempo”. Vi sono poi nell’opera di Ferroni le tante ecfrastiche descrizioni dei capolavori dell’arte e dell’architettura, di cui il nostro paese è così ricco; la magnificenza delle case di Dio, la perfetta maestria delle forme di dipinti e sculture sono raccontate con la passione del viaggiatore che vive fino in fondo l’esperienza della visita, fruisce dell’opera profondamente, penetrandone l’essenza. In ciò è decisivo il filtro della cultura, conoscitrice della storia dei luoghi e sensibile al richiamo degli echi letterari, non solo danteschi. Così a Lucca, di fronte al sepolcro di Ilaria del Carretto, Ferroni definisce l’opera di Jacopo della Quercia “immagine di solitudine, di impossibile persistenza della bellezza nella morte, come in un sussulto di fragilità del marmo”, ricordando le parole di Pasolini e Quasimodo che, come lui, rimasero affascinati dalla commovente avvenenza di quel perfetto viso marmoreo. Infine, l’autore si rivela anche osservatore attento ai più quotidiani dettagli – le persone incontrate, i luoghi di soggiorno, i cibi tipici – che restituiscono grande concretezza al racconto di viaggio; nonché l’attenzione all’attualità talvolta conduce a più larghe riflessioni sui tempi correnti: colpisce l’immagine della sfera di Arnaldo Pomodoro, nel cortile della Pigna in Vaticano, come “emblema del nostro mondo corroso” che “non può del tutto nascondersi nella lucida apparenza dei suoi artificiali simulacri”.
Dalla lettura del libro di Ferroni riscopriamo così la bellezza del viaggio culturale: visitare i luoghi d’Italia riscoprendone la loro autentica sostanza, la ricchezza dei significati che essi custodiscono e moltiplicano nel corso del tempo, creati dal passaggio di uomini e donne, dagli imprevedibili andamenti della storia. Parlare di viaggio oggi, nelle incertezze e paure del tempo presente, per di più ci fa riflettere sulla libertà del movimento, che fin ora potevamo dare per scontata; nel pensare a Dante, alla sua finta libertà che lo costrinse ad andare per il mondo, noi moderni per converso abbiamo vissuto la costrizione di una sorta di libertà condizionale: un esilio invertito di senso.
di Letizia Aggravi
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