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Il Novecento del teatro. Una storia
di Lorenzo Mango
Roma, Carrocci Editore, 2019, pp. 369
La fotografia del teatro del Novecento potrebbe essere questa: un grande arcipelago formato da isole di diversa grandezza tra loro collegate da ponti ora lunghi ora corti, ora stretti ora larghi. Di fatto quello che manca, a differenze delle esperienza del secoli anteriori, è l’unità di un sistema drammaturgico e attorale. Dominano, di contro, il frammento e l’eterogeneità delle visioni materializzate in progetti concreti oppure rimaste poetiche utopiche. Eppure si riconoscono fili che si annodano, che tessono trame culturali e definiscono percorsi trasversali.
Da questo assunto Lorenzo Mango, nella ricostruzione meticolosa e articolata del volume Il Novecento del teatro. Una storia, intende «tracciare la complessità, con le differenze e gli intrecci che ne definiscono un’identità articolata che si fonda sulla premessa, speriamo dimostrata, della centralità dei nuovi modi di fare, ma ancor prima di pensare il teatro». L’allineamento dei materiali procede secondo il metodo dell’accorpamento tematico – drammaturgia, regia, attore, Nuovo Teatro – affrontato in modo cronologico. Inoltre, allo sviluppo delle fasi storiche corrisponde, per meglio connotare il principio identitario e per circoscrivere il campo di ricerca – la collocazione geografica delle esperienze che imprime all’Europa una posizione centrale non trascurando i fenomeni di migrazioni culturali da e verso gli Stati Uniti d’America.
Alla domanda canonica circa la nascita del teatro novecentesco, Mango considera il celebre debutto di Ubu re di Alfred Jarry del 1896 un episodio simbolico mentre ritrova, da un lato, la spinta propulsiva nel ripensamento della scrittura teatrale provocata dalla crisi del dramma borghese secondo le soluzioni letterarie assunte da Strindberg, Cechov, Ibsen, e dall’altro lato, la nascita della regia moderna (Appia, Craig, Stanislavskj, Reinhardt, Copeau, Mejerchol’d), a sua volta contestualizzata negli stati di appartenenza dei corrispettivi maestri. Analogo criterio è assunto per inquadrare le variegate poetiche di rottura e di innovazione dei linguaggi teatrali con cui le avanguardie storiche infiammano la scena di inizio secolo e che con ricadute diverse incidono, per adesione o per rifiuto, nella drammaturgia, per esempio, di Pirandello, Brecht, Hofmannsthal, Schnitzler, ai quali Mango dedica pagine di esemplare chiarezza pari a quelle in cui affronta la coeva riforma dell’attore chiamato a confrontarsi con nuovi metodi di recitazione.
La Seconda guerra mondiale diventa uno spartiacque storico, perché «la seconda parte del Novecento, scrive Mango, può essere letta come un ricominciare: ripartire daccapo per un verso, per un altro verso ritessere le fila con i decenni esplosivi di inizio secolo» attraverso il rilancio della regia e la visione di un linguaggio teatrale esplorativo, di malessere e di denuncia (Genet, Beckett, Osborne). È questa, grosso modo, la strada che conduce al cosiddetto Nuovo Teatro degli anni Sessanta, attraversato dalla volontà di «interrogarsi sull’identità del linguaggio teatrale» svincolato dalle forme del teatro canonico e ufficiale (Living Theatre, Grotowski, Carmelo Bene, Odin Teatret, ecc.).
Quando finisce il Novecento? Nel corso del secolo si sono rifondati i codici linguistici e la sintassi della scena, si sono dilatati i confini dell’attore e dello spazio scenico oltre il tradizionale palcoscenico. Oggi – osserva acutamente Mango – quel corpo linguistico «è diventato una lingua che il teatro della “fine del Novecento” può parlare nelle maniere più diverse, peculiari e “nuove”». Gli esempi offerti tra i tanti – Rovert Wilson, Federico Tiezzi, Toni Servillo, Mario Martone, Robert Lepage, Eimuntas Nekrošius – concludono questo libro coinvolgente e appassionante come un romanzo in cui il repertorio delle informazioni – accompagnato da ricca e aggiornata bibliografia – sviluppa una rete di riflessioni importanti sotto il profilo storiografico.
di Massimo Bertoldi
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