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Mirella Schino

L’età dei maestri.
Appia, Craig, Stanislavskij, Mejerchol’d, Copeau, Artaud e gli altri

Roma, Viella, 2017, pp. 330

Ne La nascita della regia teatrale del 2003 Mirella Schino aveva analizzato teorie, metodi e poetiche dei padri fondatori del teatro del Novecento. Ora gli stessi ritornano ne L’età dei maestri, ma cambia l’impostazione analitica assunta dalla studiosa che unisce questi protagonisti in una fitta trama di reti e connessioni culturali e li rende simili ai personaggi di un romanzo storico. Il racconto affascina, si appoggia ad una scrittura fluida e assai gradevole, capace di coinvolgere qualsiasi lettore in un percorso in cui si incrociano “il rapporto con la Storia, le biografie, le passioni, le strutture sociali e gli spettacoli in quanto nodi di relazioni – tra attore e attore, tra attori e maestri, tra spettacolo e pubblico”.

Emergono come rivoli carsici i legami tra le ricerche teatrali assai diverse come concezioni e linguaggi in ambito registico tra Appia, Craig, Stanislavskij, Mejerchol’d, Reinhardt e Fuchs, oppure le contaminazioni tra teatri indipendenti e istituzionali. E la stessa dialettica informa di sé il rapporto tra attori di tradizione e nuovi attori.

La Schino segue come un’ombra questi registi, fino a coglierne le ansie e le emozioni, quando trasferirono i loro assunti teorici sul palcoscenico come si legge nella magistrali ricostruzioni di tre spettacoli epocali: Il gabbiano di Anton Cechov in scena nel 1898 al Teatro d’Arte di Mosca per la regia di Stanislavskij e Vladimir Nemirovich-Danchenko; Dom Juan di Mejerchol’d al teatro Akesandrinskij nel 1910; lo shakesperiano Hamlet allestito ancora al Teatro d’Arte nel 1912 da Gordon Craig.

In che misura le riforme e le rivoluzioni teatrali si siano enucleate da un rapporto di continuità e rottura con il passato lo si evince dalla ricerca dei nuovi linguaggi del corpo e del gesto dell’attore. Nei molteplici codici espressivi, compresi quelli delle avanguardie, interagirono le lezioni del Grandi Attori italiani come Ermete Zacconi, Eleonora Duse, Tommaso Salvini.

Questa grande stagione di cambiamenti fu vissuta anche come esperienza di vita, ricerca di nuovi rapporti umani coniugati nei progetti artistici. Si cercò di “costruire spettacoli che non rispecchiassero la realtà, ma la ricreassero, satura, potente, più potente, più intensa della vita quotidiana”. Il teatro diventata arte del “vivente”, risposta i bisogni primari delle miserie della vita quotidiana, non semplice intrattenimento.

Così nel fondamentale capitolo L’età d’oro la Schino studia il teatro al tempo della Rivoluzione russa, dove l’urgenza di cibo e di legna è la stessa del spettacolo. Victor Šklovskij raccontò che “la Russia recita, recita tutta, avviene un processo di generale trasformazione di tessuti vivi in tessuti teatrali”. Questa “teatromania” parafrasava la tensione verso una vita nuova, migliore.

E una situazione non dissimile caratterizzò il teatro della Repubblica di Weimar. È la stagione della sperimentazione, dell’eccesso creativo, della proiezione cosmopolita, alimentata da Brecht e gli scrittori espressionistici, Jessner e Piscator, i teatro agitprop e i fumosi cabaret.

“Nell’Europa del primo dopoguerra – sostiene la Schino – la Germania e la Russia avevano un posto speciale, erano le due nazioni dove bisognava assolutamente andare per vedere e capire cosa dovesse essere il teatro dell’avvenire, cosa fosse il nuovo teatro”.

Poi i regimi totalitari fecero tabula rasa di una delle stagioni più ricche di creatività della storia del teatro. Recisero la pianta ma non strapparono le radici del nuovo teatro: nella Germania post 1945, per esempio, la ricostruzione riguardò in primis proprio gli edifici teatrali.

                                                 di Massimo Bertoldi

 

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