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«Arte»
di Yasmina Reza
traduzione di Federica e Lorenza Di Lella
Torino, Adelphi, 2018, pp. 101.
Yasmina Reza, scrittrice franco-iraniana, staziona da diversi anni nei piani alti del teatro internazionale. L’uomo del destino (1995), Il dio del massacro (2007) da cui Roman Polanski ha tratto il celebre film Carnage (2013), Babilonia (2016), sono titoli tradotti e recitati in tutte le lingue. Lo steso vale per la commedia «Arte» che, fresca di stesura, debutto nel 1994 alla Comédie des Champs Elysées di Parigi. In Italia il testo è stato pubblicato da Einaudi nel 2006 e ora è riproposto da Adelphi con la nuova traduzione di Federica e Lorenza Di Lella.
«Arte» è un capolavoro di semplicità nell’affrontare questione complesse. Da un’atmosfera borghese e mondana affiorano come un fiume carsico problematiche legate alla carriera, al senso dell’amicizia, soprattutto all’arte contemporanea e alla sua decodificazione semantica e linguistica.
Protagonisti sono tre amici parigini di lunga data. Serge ha comperato a caro prezzo un quadro di tendenza, “un Antrios”. Nello specifico si tratta di “una tela di circa un metro e venti, dipinta di bianco. Il fondo è bianco. E strizzando gli occhi di possono intravedere delle sottili filettature diagonali, bianche”. La reazione di Marc si rivela di rabbiosa indignazione: “Serge, non puoi aver pagato questo quadro duecentomila franchi!”. Mentre Yvan, sorta di anello di congiunzione tra le due antitetiche posizioni, sostiene la tesi del legittimo gusto personale.
Questi tre atteggiamenti rappresentano le corrispettive modalità ricettive dell’opera d’arte oggi. Sollevano, di riflesso, nodose questioni circa il rapporto tra gusto e arte, la possibilità o meno di affidarsi ad un criterio affidabile e capace di giudicare il reale valore dell’arte anche in rapporto al suo valore commerciale.
Ma la commedia della Reza non si concentra solo su questo dibattito. Le visioni dei tre amici diventano metafora del loro stesso rapporto, declinano lo specchio del loro vissuto calato sopra un tappeto intrecciato dai fili di dialoghi essenziali, minimalisti e graffianti, fluttuanti tra il sarcasmo e il tagliente, il comico e il drammatico. Si anima una vorticosa girandola di rivalità celate e poi esplose, di inquietanti non detti, di antichi risentimenti prossimi a trasformare il salotto di Marc in cui si cala la vicenda in un ring per uno scontro al massacro. “È per l’Antrios, per l’acquisto dell’Antrios? No…il male viene da più lontano”, dice uno di loro.
Se il bianco della tela rimane sempre uniforme, i colori e le sfumature dell’amicizia sono invece infiniti e si celano dietro la superficie della maschera- quadro bianco propria dell’uomo contemporaneo. Alla fine quell’”Antrios” tanto dibattuto, poi sfregiato e successivamente riportato al suo originario colore, rimane simbolicamente bianco, per essere guardato con occhi diversi che in esso proiettano il proprio immaginario. Magari “rappresenta un uomo che attraversa uno spazio e scompare”. O forse no.
di Massimo Bertoldi
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