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L’invenzione dei giovani

di Jon Savage

Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 494

Esistono tradizioni di scrittura in grado di fissare forme e modi della trasposizione di concetti e pensieri, fino a trasformarsi in stile che non ci è dato ritrovare nei canoni della lingua italiana: un settore davvero negletto dalla tradizione italiana è quello della storia della cultura.

Questo preambolo pare doveroso per contestualizzare la riedizione de L’invenzione dei giovani di Jon Savage. Erede di una stagione di analisti della cultura che hanno dato lustro sia all’accademia inglese che alla popolarità di categorie e concetti – si pensi a Hobsbawm, a Hill, a Stone, Ranger, ecc. – Savage nasce in un contesto extra-accademico, quale lettore dei movimenti musicali giovanili degli anni Settanta. Dapprima attento analista del Punk britannico nel periodo tatcheriano, Savage ha allargato l’area della sua indagine verso un tema storiografico fondamentale: i “giovani”.

Scopriamo il luogo e il tempo d’origine di questo concetto-categoria sociale: è la modernità industriale. L’autore svolge un excursus che parte dagli anni ’70 del secolo XIX in America, Inghilterra, Francia e Germania, e approda alla metà degli anni Quaranta del secolo successivo, quando la categoria del “Teen Ager” si fissa nella cultura occidentale quale soggetto di consumo, prima che altro. Lungo questo cammino si incontra una vasta fenomenologia dei “giovani”, che talvolta si manifesta nella forma di biografie esemplari: il ragazzino pluriomicida Jesse Pomeroy, condannato all’ergastolo nel 1876 negli Stati Uniti, che descrive il potere distruttivo senza ragione, la capacità di un ragazzino violato di rompere l’ordine delle rappresentazioni sociali. Gli “hooligan” ottocenteschi inglesi, le imprese dei Wandervogel tedeschi. Si risale lungo il Novecento con le sorprendenti rivelazioni di un percorso davvero molto familiare, quel mix di sete di consumo e di vitalismo a buon mercato; di impulso distruttivo, diversamente mischiato a volontà di cambiamento; di disorientamento collettivo epocale in una fase di cambiamenti globali, planetari; di astiosa attrazione e repulsione verso le diversità prima ignote: culturali, di stile, di apparenza. Su tutto, il potere fascinatorio di una musica travolgente, nuova, fortemente sensuale; la trasgressione e la sessualità che si impongono in modo irriverente, la sfida al buon costume e l’attrazione verso le sostanze psicoattive, o l’alcol; lo stordimento cercato, l’attrazione nichilista. Troveremo in queste pagine non Sid Vicious, o Kurt Cobain, ma ragazze e ragazzi degli anni Venti, negli USA del ragtime, che si fanno di morfina; o che annegano nel jazz, a Berlino, nei primi anni Trenta, il disgusto per l’irrigimentazione di massa nelle Hitlerjugend. O ancora le “khaki-whaky” del periodo bellico americano, 14enni che si ammalano di scolo e sifilide per l’estrema promiscuità casuale con i militari, non a scopo di lucro.

L’Italia in queste pagine rimane sullo sfondo ed è un peccato. Certo sarebbe stato interessante segnalare almeno in bibliografia i lavori di taglio accademico che proliferano nella nostra produzione pubblicistica. Si pensi al ruolo svolto dall’ONB e dalla GIL del fascismo per “fissare” una immagine di giovinezza, carica di valenze estetico-politiche, non molto diverse dai modelli delle civiltà industriale avanzate. O quanto l’approdo all’antifascismo sia stato, e molto, un fatto “generazionale”; e forse anche qui gli stili, la musica, ci direbbero molte cose. C’è un problema serio, per pubblicare in Italia qualcosa di questo tipo, però: ed è la debolezza di una tradizione di scrittura di storia culturale in grado di coniugare rigore e freschezza, comunicabilità e precisione storica. Scriviamo molto, in Italia, di storia; ma spesso la scrittura è accademica, rigorosa: ma illeggibile per un pubblico di non specialisti.

                                                 di Andrea Felis

 

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