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Criminali del campo di concentramento di Bolzano
Deposizioni, disegni, foto e documenti inediti
di Costantino Di Sante
Bolzano, Raetia, 2019, pp. 319.
Per quanto la constatazione rischi di apparire banale, non ci si smetterà mai di stupire del fenomeno curioso in virtù del quale man mano il tempo storico si allontana dagli eventi che il pensiero e la ricerca scientifica, cercano di misurare, di comprendere; tanto più emergono da un passato sempre più lontano lacerti, frammenti, residui che si pensavano smarriti per sempre, sabbia nel vento.
Così puntualmente è accaduto con l’importante lavoro storico di Costantino Di Sante, ricercatore, collaboratore di alcune università e direttore dell’Istituto storico di Ascoli Piceno. Da una realtà così apparentemente lontana dal contesto sudtirolese, giunge un contributo di essenziale importanza per cercare di fare nuova luce sul Durchgangslager Bozen, l’ultimo campo di deportazione – ancorché ufficialmente “di transito” – allestito in territorio italiano dal Terzo Reich ad essere smantellato nel maggio del 1945; e uno dei pochi campi in cui non solo è stato possibile identificare le vittime – con il pionieristico lavoro di ricerca di Dario Venegoni, di ormai dieci anni fa – ma anche i carnefici: fino a farne riconoscere e incarcerare il più spietato di tutti, a più di 50 anni di distanza, Michael Seifert detto “Mischa”, portato dal Canada in Italia, condannato e detenuto per due anni, fino alla sua scomparsa nel 2010.
L’ultimo criminale nazista, in un nuovo millennio che pare avere perso spesso la memoria. Con il libro Criminali del campo di concentramento di Bolzano, lo storico piceno si giova di una scoperta davvero sensazionale, un fondo di archivio statunitense inesplorato, che rivela una miniera di informazioni, in precedenza solo accennabili marginalmente ed ora magistralmente sotto gli occhi dell’intera opinione pubblica, e non solo locale. Fotografie, disegni, documenti e testimonianza credute perdute, ed ora riemerse, nuove, taglienti.
Ed ecco quindi la ricostruzione, puntuale, della vita ordinaria di ordinari carnefici, restituita nella pochezza o “banalità” – ci perdoni Hannah Arendt – della loro quotidiana dose di violenza, misfatti, delitti. Banali, va rimarcato, le persone, certo non le immonde azioni commesse: ordinarie, sotto tutti gli aspetti, anche i soggetti più infami, come nel caso del “semidio del Campo” Haage, un travet del terrore, un ometto supponente nella sua divisa con la testa di morto, stirata e spesso aperta, uno stile déshabillé postprandiale: che, sposato a casa, si intrattiene con almeno una o due segretarie del Campo, e infine mette incinta una disgraziata, la Lächert, una ragazzotta spostata di 24 anni, violenta con gli inermi, complice dei delitti, sopravvissuta ad una vita davvero miserabile, e morta come spia della CIA nella Germania del Dopoguerra.
Ma la parte davvero più straordinaria, se così si può dire, dei ritrovamenti, è rappresentata dalla “Bierzeitung”, una rivistina semigoliardica interna al Campo, in cui si scopre come i nazisti, gli assassini, ridevano. Si divertivano. Scherzavano, con un discreto sense of humor. E con una indubbia bravura grafica, a dispetto di chi ha sempre esorcizzato il fenomeno isolando l’esperienza concentrazionaria nazifascista come una “anomalia”, da Croce in poi. Niente affatto: vi sono disegnatori, anche bravi, e dotati di ironia, umorismo. Anche su se stessi, con buona pace per chi ritiene che basti essere dei “comici” per salvarsi l’anima, per essere “spiriti liberi”, dotati di capacità di ridere di sé. Lo erano anche loro, e si lavavano le mani, dopo il lavoro fatto: obbedendo e rispondendo ad un ordine, e dandone altri, senza interruzione. Una catena di montaggio, di morte e sopraffazione: con tempo libero e divertimento; anche piccante, libero, disinvolto. Chissà se ci dice qualcosa, dell’oggi. Un libro obbligatorio.
di Andrea Felis
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