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Silvia Ferreri
La madre di Eva
Castel di Sangro (AQ), Neo Edizioni, 2017, pp. 200.
Tra i dodici libri in gara per il Premio Strega 2018, La madre di Eva è un romanzo lucidissimo e lancinante che, attraverso il complesso tema della disforia di genere, interroga e si interroga senza retorica, senza schieramenti, senza falsi moralismi sulla potenza inclusiva della maternità, e sulla continua ridefinizione interiore che il ruolo genitoriale comporta in relazione all’assoluta affermazione di soggettività dei propri figli.
Fuori da una sala operatoria, sola, una madre attende l’esito della lunga operazione chirurgica che sancirà la riassegnazione sessuale della figlia, Eva. Uno “s-membramento” che fa da sostrato al rimembrare, il ricostruire faticoso e doloroso dei tasselli di vita che hanno condotto sin lì: l’infanzia e poi l’adolescenza di Eva, la discrepanza feroce tra l’oggettività della propria realtà corporea femminile e il vissuto esperienziale psicologico, quella consapevolezza di sé che, per Eva, è da sempre maschile.
Nel flusso del pensiero che si delinea pagina dopo pagina, Ferreri incide – attraverso una scrittura scevra di orpelli, essenziale e spesso dura, adamantina – riflessioni che nascono da un crudo sentire, acrobazie su un filo di parole sospese sul vuoto dell’incomprensibile, tese su quel legame assoluto e primigenio il cui segreto sfugge alle definizioni, all’incasellamento, ai quadri statistici: la madre di Eva, pur nella definitezza del suo letterario delinearsi, diventa quasi archetipica, matrice dell’essere al mondo, metaforico grembo che accoglie anche il tormento di una sessuazione lacerante – e socialmente stigmatizzata – e si fa, nell’accoglienza, principio di rinnovata generazione.
La madre di Eva è dunque anche una riflessione in senso ontologico sulla generazione e sulla rigenerazione, o meglio, sulle molte ri-generazioni verso cui la dialettica tra il nostro profondo sé e il nostro sé socialmente dato ci sospinge più o meno incessantemente. Ri-generazione di una figlia che si traduce ora in figlio attraverso una nuova nascita cruenta, strumentale, una maternità chirurgica che, una volta partoritolo, lo rigetterà al suo destino senza ulteriore cura; e ri-generazione di una madre che si ritrova a fare i conti non solo col passato, col suo carico di scelte giuste e sbagliate – su cui, comunque, l’autrice sospende neutralmente il giudizio –, ma anche con un vuoto rappresentativo riguardo al futuro: come sarà, che aspetto avrà, poi, questa nuova figlia-ora figlio, con cui trovare una nuova simmetria familiare e nuovi contorni sociali?
Entrano in questo gioco di ridefinizione il sentimento di essere stata la colpevole portatrice di una ontogenesi sbagliata, imperfetta, e il ripetuto confondersi, smarrirsi rispetto al proprio progetto genitoriale, rispetto al complesso sistema delle aspettative sociali, rispetto a una prefigurazione già data, già nota, consolante nella sua quasi-prevedibilità. E, invece, quello con cui fare i conti non è solo la presa in carico della diversità, ma dell’assoluta alterità del sentito, del percepito. È il cercare, disperatamente, di mettersi in una pelle aliena, quella di Eva e della sua radicale scelta, del suo grande salto nel vuoto. Un salto che nessun genitore potrebbe stare a guardare senza provare sgomento, ma anche senza compartirne il dolore. Davanti a un figlio che soffre non si può fare un passo indietro. È così che la madre di Eva sceglie. Sceglie di accettare la realtà e di farsi cura e contenimento dell’angoscia, accompagnamento nell’elaborazione del lutto per quella prima corporeità tanto detestata, per quel femminile prima rigettato e ora sepolto. E sceglie di essere di nuovo matrice attraverso la ri-nominazione del vissuto, pronunciando per prima, dopo l’operazione, la parola che evoca un differente venire alla luce. Un nome – Alessandro – da cui partire per rinnovare il legame d’amore attraverso una maternità e una filiazione inedite.
di Alessandra Limetti
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