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Luigi Manconi
Federica Resta
Non sono razzista, ma
La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura
Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 160
Un instant book raramente riesce ad apparire “fuori tempo”, proprio in virtù della sua natura: essere cioè un prodotto editoriale cotto e servito, nel caldo degli aspetti tematici trattati. Eppure, leggendo il recente libro a quattro mani di Luigi Manconi, sociologo e già senatore, e Federica Resta, giurista ed avvocato, sembra di essere catapultati indietro nel tempo, con formule critiche e stilemi analitici di un’altra epoca. Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura, è il titolo del testo prodotto da Manconi e Resta, ed esce ad un quarto di secolo di distanza da I razzismi reali, scritto al tempo dallo stesso Manconi con la fine analista e sociologa Laura Balbo, da alcuni anni lontana dai riflettori.
Eppure, mentre il libro di 25 anni fa appare curiosamente “fresco”, il recente titolo di Manconi, ancorché frutto di una riflessione nata a caldo, nel fuoco vivo del contenzioso politico-culturale degli ultimi mesi addirittura, appare segnato da una chiave interpretativa legata ad una fotografia sbiadita del fenomeno fatto oggetto della veloce riflessione. Le pagine dedicate alla distinzione fra atteggiamento xenofobo e fenomenologie razziste rimangono le più interessanti, mentre viene riconosciuta una natura più sfuggente di quel sentimento diffuso, “popolare”, di paura e di difficoltà/incapacità di solidarietà: questa altrove viene invece indicata come soluzione, magari sotto il nome di “compassione”. Rievocando un Levinas ormai forse un po’ frusto, ci si richiama alla categoria etica (“la postura morale degli europei”) del “correre il rischio del bene”, antidoto all’indifferenza che celerebbe il primo passo verso la disumanizzazione dell’Altro.
Il testo ha un esito curiosamente impolitico: pur essendo il frutto della riflessione di un già senatore – ed esperto analista socio-politico – e di una giurista, evidentemente ben dentro la normativa italiana sui Centri di Permanenza per i migranti, sembra più fare appello alla coscienza e al “rischio del bene”, che ad una impegno ed una assunzione di responsabilità più marcatamente politica, nel senso arendtiano del termine. E cioè, ad una assunzione di creatività operativa, di testimonianza attiva, nei modi e nelle forme che la vita civile ci consente, un “fare” – e non una “postura”. Il “prendere parte” sembra lontano. Lo sguardo è sull’aspetto morale della discriminazione, con la conseguente riprovazione. E qui si spiega il lungo pezzo dedicato a Calderoli, ed alla sua delirante definizione dell’ex ministro Kyienge come “orango”, definizione fornita in un contesto politico pubblico, e nel periodo del suo ruolo di vicepresidente del Senato: sarebbe l’esempio della banalizzazione “strapaesana” della xenofobia, “la bonomia” autoassolutoria del linguaggio politico.
Ma torniamo all’inizio: nelle scorse settimane a Macerata, dove il 3 febbraio Luca Traini – ex militante leghista poi passato all’estrema destra – ha ferito sei stranieri a colpi di pistola, il partito guidato da Salvini è passato dallo 0,6 del 2013 al 21 per cento del 2018. E il partito dei 5stelle, che ha espresso esplicitamente dissenso politico, nella precedente legislatura, verso il dibattito sullo “Ius soli” dei ragazzi figli di migranti, ha conquistato a livello nazionale il 32% dei consensi, e la Lega di Salvini il 18% (anche al sud, fenomeno ormai nazionale). Tra gli eletti della Lega, un senatore di colore: basterà la riprovazione, nei prossimi anni? PS: nel testo, a Salvini vengono dedicate due battute di passaggio; a Beppe Grillo due sole citazioni, in nota.
di Andrea Felis
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