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Tra Fumoso e Ruzante
Villani in scena
di Anna Scannapieco
Bari, edizioni di pagina, 2024, pp. 128
Tra i commediografi rinascimentali dediti alla rappresentazione del mondo contadino spiccano i nomi del padovano Angelo Beolco detto il Ruzante – autore restituito alla memoria grazie all’edizione critica del suo Teatro curata da Ludovico Zorzi nel 1967 che ha favorito una certa fortuna sui palcoscenici a partire dagli allestimenti realizzati da Gianfranco De Bosio – e il misterioso Fumoso, ovvero Salvestro cartaio, esponente di primo piano della Congrega dei Rozzi di Siena, al quale Anna Scannapieco ha dedicato grande attenzione, prima curando con grande rigore metodologico e filologico la pubblicazione delle sue commedie presso edizioni di pagina e ora, sempre per lo stesso editore, proponendo uno studio minuzioso dedicato ai due scrittori.
Cosa lega, dunque, Fumoso a Ruzante, considerate la distanza e la diversità geoculturale dei loro contesti operativi, Siena a Padova, e lo scarto cronologico che stabilisce l’intercorrere di due anni tra la morte del drammaturgo veneto e l’ingresso del toscano nella Congrega con la rappresentazione di Panechia nel luglio 1544?
Nello specifico Fumoso, adottando una lingua teatrale aderente al senese quotidiano, “flessibile” e aperta al gioco delle contaminazioni, si dimostra in linea con il procedimento ruzantiano, sempre in bilico fra «reinvenzione di un vernacolo reale e deformazione teatrale».
Così nelle commedie rusticali del Fumoso abbondano citazioni di carestie e violenze delle truppe spagnole accampate nel territorio senese, gli scontri mai sopiti tra le varie fazioni cittadine. La narrazione del villano è comica, grottesca, anche provocatoria; diventa visione della «travagliata vita politica di una moritura res publica», spiega e illustra la Scannapieco nell’analisi, tra l’altro, della pastorale Panechio del 1544 e della commedia Il travaglio del 1546, «opera ridicula e piacevole», caratterizzata, a partire dal titolo e poi riscontrabile nei vari personaggi, da evidenti allusioni legate al degrado e alle coeve inquietudini senesi.
I testi di Fumoso, assai poco accademici e lontani dal linguaggio erudito di scuola fiorentina, piuttosto ancorati al serbatoio linguistico senese, rivelano una chiara adesione ai meccanismi della produzione scenica; rivelano soprattutto un impasto linguistico attento alla sensibilità socioculturale e alle attese del potenziale spettatore, ossia il cittadino che assiste alla rappresentazione da una prospettiva “diversa” della realtà angolata dal punto di vista narrativo del villano.
Perciò la produzione teatrale di Fumoso è fluida e dinamica, mutevole e in un certo senso libera e sperimentale, come quella del Ruzante evidenziata, a titolo esemplificativo, nella Moschetta che presenta un’evidente disarmonia tra i primi tre atti e gli ultimi due, frutto della trasformazione dell’originale egloga in commedia regolare in cinque atti. L’operazione drammaturgica, sottolinea la Scannapieco, costituisce «una vera e propria reinvenzione del testo ruzantiano di tale “fascino”, peraltro, da aver condizionato la successiva ricezione della commedia».
Tra Fumoso e Ruzante è un libro importante, erudito e di pregevole rigore scientifico che, da un lato, arricchisce le nostre conoscenze storico-letterarie dei Villani in scena, restituendone la giusta importanza all’interno del teatro rinascimentale, dall’altro lato, conferma lo spessore creativo di Ruzante, già riconosciuto a livello storiografico e sostenuto da non trascurabili allestimenti di sue opere sui palcoscenici italiani, e dall’altro lato, rivela l’estro drammaturgico di Fumoso che ancora attende adeguata considerazione teatrale.
di Massimo Bertoldi
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