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Teatro
di Jon Fosse
a cura di Vanda Monaco Westerståhl
Imola (Bo), Cue Press, 2023, pp. 141)
«Per le sue opere teatrali e la prosa narrativa che danno voce all’indicibile»: con queste scarne ma significative parole l’Accademia Svedese motiva l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura a Jon Fosse, drammaturgo poeta e romanziere norvegese che staziona da anni nei piani alti del teatro contemporaneo. La sua scrittura si presenta scarna, estremamente minimale; domina il non-detto sotteso a un linguaggio freddo e asettico, che costruisce atmosfere turbate, a momenti di claustrofobia e situazioni ossessive. I personaggi, privi di nome e caratterizzazione, si muovono in un mondo sospeso. Quando si parlano non si capiscono o forse non si ascoltano. Dominano i silenzi e i vuoti. La loro vita si consuma nello squallore di un presente eterno, senza possibilità di riscatto o scosse emotive.
«Il teatro di Jon Fosse scardina le tradizionali forme e strutture drammaturgiche, frantuma le abilità attoriche e le certezze intellettuali dei registi, ci fa nuovamente posare i piedi per terra. Nel suo teatro, in poche parole, cade l’illusione di potersi cullare e adagiare nella placida società del benessere», così scrive Vanda Monaco Westerståhl nell’introduzione alle prime commedie di Fosse da lei tradotte e recentemente pubblicate nel volume Teatro dalla imolese Cue Press, che annovera nel suo catalogo altre importanti opere dell’autore norvegese.
E non ci separeremo mai (1992) declina il rito dell’attesa, come vissuto da una generica Lei, in una dimensione di solitudine oscillante tra rinuncia e speranze, indifferenza e passione. Quando entra in scena Lui si anima un non-dialogo, le parole non sono interattive, sigillano due mondi separati. Il discorso della donna sembra un lungo monologo mentale, anche quando l’uomo si presenta con una Ragazza. La situazione rimane ambigua, manca la tensione e la presenza dell’intrusa non muove il dramma dell’isolamento esistenziale e sentimentale.
Anche in Qualcuno arriverà (1994) l’elemento di disturbo è dato da una presenza esterna alle dinamiche relazionali di una coppia che ha deciso di vivere in una casa-rifugio lontana dalla società, una vecchia e fatiscente dimora ubicata «sulla pianura in cima a una collina con vista sul mare». La donna avverte il fiato di un fantasma, che si materializza nell’inattesa visita dell’Uomo. La presenza di tale figura, ossia di colui che ha venduto loro la casa dove visse e morì la nonna, sviluppa sette scene di tagliente intrusione nella vita della coppia incapace di trovare una soluzione. Tuttavia il compagno prova una reazione, si dimostra geloso e accusa la donna di tradimento. La scoperta del degrado dei locali interni guida rapidamente alla consapevolezza della nuda realtà, alla perdita delle illusioni e dei sogni romantici. «Soli insieme / soli l’uno nell’altro», diranno alla fine i due sconfitti amanti seduti sulla panchina del giardino.
Il conclusivo testo di questa importante antologia di Cue Press è Il nome (1995). La commedia divisa in tre scene è incentrata sul ritorno in famiglia la figlia Beate, incinta, accompagnata dal suo ragazzo che se ne sta sempre seduto sul divano a leggere un libro. Ad accoglierla ci sono la madre, mezza pazza, e il padre, uomo taciturno e indifferente, che non esternano la minima emozione. Si aprono tensioni silenziose e soffocate dall’atteggiamento di sconcertante tranquillità palesata dai protagonisti. Questa situazione immobile e paludosa è mossa dall’arrivo improvviso di Bjarne, un vecchio amico della ragazza con trascorsi amorosi. Bjarne affonda il colpo, abbraccia e bacia la ragazza davanti agli occhi del suo attuale ragazzo e futuro padre, il quale in silenzio prende il suo fagotto, abbandona la casa e se ne va con la sua vecchia macchina. È l’apoteosi dello squallore e soprattutto della solitudine: anche Bjarne torna a casa e la ragazza rimane sola a guardare alla finestra, senza futuro.
È lo stesso Fosse a dire che i suoi personaggi teatrali sono «voci» e non «corpi» e aggiunge: «Non uso mai direttamente esperienze personali, se lo facessi la mia scrittura ne soffrirebbe. […]. Quando scrivo mi pongo in ascolto, della realtà forse, o forse di qualcos’altro – a man mano che avanza il testo, procede sempre più verso ciò che ho già scritto – e quello che scrivo è esattamente ciò che è giunto a me dall’essermi posto in ascolto».
di Masssimo Bertoldi
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