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L’esperienza del teatro
Tessere cinquecentesche
di Marzia Pieri
Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2023, pp. 282
Il recupero filologico del teatro classico da parte dei dotti umanisti del Quattrocento e i successivi e sperimentali allestimenti di commedie latine, se in ambito storiografico costituiscono passaggi cruciali per l’invenzione del teatro moderno in età rinascimentale; viceversa, se analizzati nei loro contesti socio-culturali di produzione e fruizione, dimostrano un tortuoso processo di assimilazione. Incide il cambiamento in atto nella ricezione dello spettacolo: dall’eredità medievale-comunale propria della multiforme festività popolare, sacra e profana, si passa in modo niente affatto lineare alla definizione di un nuovo patto con il pubblico attraverso il rito della visione silenziosa nel chiuso della sala o in un ambiente opportunamente circoscritto.
L’obiettivo di Maria Pieri, trasversale alla ricostruzione storica delle molteplici forme della cultura dello spettacolo, è la puntuale ricostruzione di come si definisca nella prima parte del XVI secolo «questa nuova esperienza fisica, emotiva, intellettuale, con il disciplinamento sociale e le interiorizzazioni comportamentali che ne derivano», attraverso l’analisi de L’esperienza del teatro come si riscontra in importanti e nodali centri di cultura rinascimentale che, pertanto, diventano Tessere cinquecentesche simili a pezzi variopinti di un puzzle assai particolare.
Come in uno spettacolo teatrale in questo libro entrano ed escono di scena personaggi maggiori e minori calati in un’ambientazione scenografica mutevole, dal chiuso delle dimore signorili alle piazze popolari, alternando registri e codici espressivi, adottando soluzioni ora innovative ora conservative, inventando esperimenti riusciti e anche falliti: il tutto concorre a definire questo periodo una vera e propria fucina di idee destinate a emigrare nelle fantasie creative dei secoli successivi.
A Siena il teatro assorbe le voci della città: «recitare e fare musica – spiega la Pieri – sono un naturale prolungamento della vita civile in pubblico e in privato e presso tutti i ceti». Attraverso l’attività della Congrega dei Rozzi e degli Intronati si consolida una drammaturgia ricca di citazioni novellistiche, egloghistiche e cavalleresche a supporto di performances danzanti e pantomimiche simili a un teatro di varietà. È «una città in scena» nelle sue variegate coloriture popolari e aristocratiche.
Questo perché manca una corte egemone che invece opera nella vicina Firenze dove domina il moto «parlare e recitare». Anche se ferve la riscoperta del teatro classico, rimangono in auge giostre, trionfi, carnevali, sacre rappresentazioni che diventano strumento e cassa di risonanza del potere declinato anche nel linguaggio aulico proprio degli spettacoli allestiti nel chiuso dei sontuosi palazzi medicei. Perciò le commedie sono scritte su misura dei destinatari cortigiani che bene decodificano il fitto sottotesto, ritrovando in esso il tessuto dei rimandi cittadini. Non altrettanto succede ad un pubblico non fiorentino al cospetto della stessa commedia. Per esempio, Francesco Guicciardini chiede a Niccolò Machiavelli di riscrivere il prologo della Mandragola in vista di una rappresentazione a Faenza nel 1525 per il «poco ingegno degli auditori».
L’analisi del complesso rapporto tra la cultura di corte e l’adozione della commedia prima di derivazione plautina poi regolare, si concentra su Ferrara, Mantova, Milano e Urbino. Generalmente la verbosità della recitazione e la complessità della trama annoiano il pubblicò tanto che le cronache danno maggiore risalto alle buffonerie e alla vivacità degli intermezzi.
Il discorso non cambia a Venezia: da un lato l’umanesimo latino è relegato alla cerchia autoreferenziale degli eruditi; dall’atro lato lo spettacolo pubblico è ostentazione «di fasto e di prestigio in occasione di scambi di influenze con gruppi forestieri di mercanti e diplomatici presenti in città», sottolinea la Pieri che ricorda la presenza di prestigiosi attori da Zuan Polo a Zuan Cimador, da Ruzante a Francesco de’ Nobili detto Cherea, e di abili commediografi-stampatori quali Girolamo Ruccelli e Ludovico Dolce.
Pure a Roma – calamita per lo studio dell’antichità, perciò, assai visitata dagli umanisti – le recite in latino rimangono un fenomeno di nicchia, mentre riscontrano successo le commedie moderne in cui la città capitolina è in scena come nel testo di Retzato de la Locana Andaluza di Francesco Delicado oppure nella Propalladia di Torres Naharro.
Il viaggio nello spettacolo rinascimentale termina a Napoli, città plurilingue per la presenza del castigliano e del catalano che ritardano «la formazione di un teatro parlato e cantato, mentre il volgare non ancora illustre è relegato nell’ambito dei componimenti per musica d’occasione». La drammaturgia partenopea attinge, infatti, a egloghe, farse, novelle, scherzi, beffe, sbronze, siparietti comici. Indicativo in merito è Antonius firmato dalla raffinata penna di Giovanni Pontano.
“Diventare spettatore”, titolo dell’ultimo capitolo di questo libro intrigante e coinvolgente, costituisce il processo intorno al quale si consumano le esperienze umanistiche e rinascimentali che via via producono una netta separazione di ruoli tra l’attore e lo spettatore, notoriamente indisciplinato e rumoroso, pertanto non ancora educato alla concentrazione silenziosa. Si tratta di un processo lento e tormentato, indirizzato alla codificazione della fruizione moderna, sei-settecentesca che – conclude la Pieri – «sarà teatralmente cosmopolita e globalizzata intorno a un mercato dello spettacolo affollato, vivacissimo ed economicamente assai rilevante; al suo interno sarà il gusto degli spettatori a piegare il gusto delle poetiche con vantaggio per tutti».
di Massimo Bertoldi
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