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Max Reinhardt
di Sonia Bellavia
Roma, Carocci, 2021, pp. 127
Tra i tanti encomi provenienti dal mondo dello spettacolo all’indomani della morte a New York di Max Reinhardt (31 ottobre 1943) spicca quello di Ernest Lothar. Lo scrittore e regista teatrale lo celebra come colui che aveva «scoperto la scena come il continente dell’illusione, classici come contemporanei, l’attore come nunzio della personalità, lo spettatore – attraverso l’illusione e la personalità – come un trasformato».
La citazione è assunta dalla luminosa ed esaustiva monografia compilata da Sonia Bellavia, Max Reinhardt, che ricostruisce a tutto tonto il percorso creativo, e non solo, di questo geniale personaggio considerato tra i primi fondatori della regia del teatro europeo di inizio Novecento.
Nel 1930 Reinhardt dichiarò: «Sono una vecchia guardia di confine, sull’incerta frontiera tra realtà e sogno». Ed è tra questi due poli che si costruisce la luminosa carriera di questo regista educato come giovane spettatore al Burgtheater di Vienna dove all’esibizione del grande attore corrispondevano la fantasia e il sogno, di eredità barocca, nel codice espressivo del linguaggio scenico.
Sulla base di questa poetica drammaturgica il giovane Reinhardt, impegnato anche come attore, prima impostò la sua reazione al Naturalismo poi modellò una serie di allestimenti di fondamentale importanza e di straordinaria bellezza che prima abbagliarono pubblico e critica e poi furono considerati stucchevoli, come lo shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate, perché nella ricezione delle proposte dell’eclettico e geniale Reinhardt interagiscono le rapide trasformazioni in seno ai coevi linguaggi teatrali, come andavano ad affermarsi nelle due città cardine sullo sfondo degli esiti della Prima guerra mondiale: la moderna Berlino dove Reinhardt esibì le sue doti imprenditoriali acquistando molti teatri tra il cui prestigioso Deutsches Theater e la frivola e conservatrice Vienna.
Si susseguirono altri passaggi nodali, colti con attenzione dalla Bellavia, come la fondazione del Festival di Salisburgo inaugurato nel 1920 dal dramma Jedermann dell’amico Hugo von Hofmannsthal e interpretato, a più riprese, da un suo fedele attore, il triestino Alexander Moissi. Fu un altro spettacolo epocale.
Intanto si era concretizzato il ritorno di Reinhardt a Vienna, anche animato dal sogno di dirigere il Burgtheater, il tempio del teatro austriaco. Non ci riuscì, acquistò e ammodernò lo Josephstadttheater («uno dei teatri più belli del mondo», avrebbe detto Robert Musil), che inaugurò con una memorabile edizione in lingua tedesca del goldoniano Servitore di due padroni nel 1922.
Segue un ritorno a Berlino ma la città gli riserva poca soddisfazione, pur possedendo otto teatri che, però, il regista consegnerà a Rudolf Beer e a Karl Heinz Martin nel 1932 in coincidenza con l’imminente cancellierato di Adolf Hitler e prossimo a emanare le leggi razziali. Di fatto, Reinhardt, all’anagrafe Goldmann, apparteneva alla borghesia ebraica viennese. Perciò si trasferì nel castello di Leopoldskron, sontuosa dimora nei pressi dell’amata Salisburgo successivamente espropriata dai nazisti, per poi decidere di vivere a New York, non prima di aver lasciato un segno indelebile anche in Italia con la messinscena del Sogno di una notte di mezza estate nel giardino dei Boboli di Firenze e con la non meno prestigiosa rappresentazione del Mercante di Venezia, in collaborazione con Guido Salvini, a Campo San Trovaso di Venezia.
«Per ogni spettacolo di Reinhardt si potrebbe scrivere un libro a sé», osserva Bellavia nell’Introduzione a questo prezioso, dettagliato e intelligente contributo dedicato a una figura decisiva del teatro del Novecento, forme ultimamente un po’ trascurata e che in questo libro rivive la sua completa e doverosa valorizzazione.
di Massimo Bertoldi
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