|
Lettere
di Bernard-Marie Koltès
a cura di Stefano Casi
Imola (BO), Cue Press, 2022, pp. 359
«Ho scoperto il dramma della mia vita: sono scisso tra il sogno di una vita comoda – con una biblioteca, una trapunta, un quartetto d’archi, la vista sul paesaggio – e violente visioni metaforiche, come una scala maya che sale vertiginosamente, sotto una luna piena». Questo estratto epistolare di Bernard-Marie Koltès, datato 1878 e scritto da Città di Guatemala, è ora pubblicato nel prezioso e importante volume Lettere, a cura di Stefano Casi, che ne contiene cinquecentotrenta spedite a genitori (soprattutto alla cara madre), parenti, amici e (poche) alle istituzioni, in un arco temporale compreso tra il 1955 e il 1989.
In una lettera del 1970 a Maria Casarès, prestigiosa attrice francese, scriveva: «alla vigilia di una vita che voglio consacrare al teatro, è necessario commettere un atto ambizioso, spontaneo, anarchico forse, libero dagli imperativi esterni della vita professionale, poetico insomma». È l’inizio della luminosa carriera del giovane drammaturgo che, esaurita l’esperienza con la compagnia Théâtre du Quai da lui stesso fondata, compone una serie di commedie destinate a dargli respiro internazionale, tra le quali La notte poco prima della foresta interpretata da Yves Ferry al Festival Off di Avignone nel 1977 e poi proposta al Festival di Edimburgo (1981), Sallinger tratto dai racconti di J. D. Salinger (1977), Lotta di negro contro cani (1978), Nella solitudine dei campi di cotone (1985) che sarà diretto da Patrice Chéreau, fino all’ultimo Roberto Zucco, pièce liberamente ispirata al serial killer italiano Roberto Succo.
Di queste commedie antinaturalistiche e antipsicologiche caratterizzate da dialoghi animati da personaggi antieroici, nelle lettere, tradotte con maestria da Giorgia Cerruti, si parla poco. Dominano invece i tanti viaggi di Koltès, bohémien maledetto, frenetico e smanioso, omosessuale, colpito dall’Aids a soli 41 anni, soprattutto sostenitore di una vita “violenta” di pasoliniana memoria («non desidero che una cosa: di correre dei rischi»). Le lettere, di carattere informativo e narrativo, colpiscono per la delicatezza, l’umorismo, la sincerità, l’autoironia e il pudore.
Come nella scrittura drammaturgica, nelle missive abbondano luoghi e ambienti, a partire da Metz dove Koltès nacque nel 1948 e da Strasburgo frequentata da giovane, per continuare con la controversa Parigi, vissuta con amore e diffidenza, fino al paesello di Pralognan in Savoia dove i Koltès possedevano uno chalet. E poi ci sono i viaggi oltre confine – con lo zaino in spalla, pochi soldi e sistemazioni precarie – che portano nel 1968 Bernard-Marie in Canada, a Washington e a New York («è davvero come nessuna altra città al mondo»), a Mosca dove vive «un connubio di silenzio terribilmente pesante, rumori, agitazione, voci agli autoparlanti, che danno una sensazione continua di allerta e di guerra».
Nel 1978 compie un viaggio in Nigeria ed entra in contato con i cantieri di una multinazionale. L’esperienza è destinata a lasciare un segno indelebile: matura una sorta di razzismo “alla rovescia” che diventa avversione dichiarata al “bianco” in quanto reo di cieco sfruttamento del “negro”, avvalorando, in questo modo, anche l’ideologia anticapitalistica sviluppata come militante del Partito Comunista. Splendide risultano anche le lettere inviate dall’America Latina, visitata sempre nel ’78, con soste nella solare Città del Messico e a Nicaragua, «una città in stato di guerra un po’ terrificante, molto cara e devastata».
Il penultimo viaggio è datato 1985, in Brasile: dalla spiaggia di San Paolo, «dove stanno tutti i miliardari del continente», annota «l’impossibilità di mettermi in costume dea bagno, di nuotare e di sdraiarmi sulla sabbia, e con piuttosto la voglia di rinchiudermi in una sala d’albergo e non vedere più niente». L’ultima trasferta è a Barcellona, nel marzo 1989. Scrive ai fratelli: «In God we trust. Do we?».
di Massimo Bertoldi
|