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LIBRI

Tra Fumoso e Ruzante
Villani in scena

di Anna Scannapieco

Bari, edizioni di pagina, 2024, pp. 128

Tra i commediografi rinascimentali dediti alla rappresentazione del mondo contadino spiccano i nomi del padovano Angelo Beolco detto il Ruzante – autore restituito alla memoria grazie all’edizione critica del suo Teatro curata da Ludovico Zorzi nel 1967 che ha favorito una certa fortuna sui palcoscenici a partire dagli allestimenti realizzati da Gianfranco De Bosio – e il misterioso Fumoso, ovvero Salvestro cartaio, esponente di primo piano della Congrega dei Rozzi di Siena, al quale Anna Scannapieco ha dedicato grande attenzione, prima curando con grande rigore metodologico e filologico la pubblicazione delle sue commedie presso edizioni di pagina e ora, sempre per lo  stesso editore, proponendo uno studio minuzioso dedicato ai due scrittori.

Cosa lega, dunque, Fumoso a Ruzante, considerate la distanza e la diversità geoculturale dei loro contesti operativi, Siena a Padova, e lo scarto cronologico che stabilisce l’intercorrere di due anni tra la morte del drammaturgo veneto e l’ingresso del toscano nella Congrega con la rappresentazione di Panechia nel luglio 1544?

Nello specifico Fumoso, adottando una lingua teatrale aderente al senese quotidiano, “flessibile” e aperta al gioco delle contaminazioni, si dimostra in linea con il procedimento ruzantiano, sempre in bilico fra «reinvenzione di un vernacolo reale e deformazione teatrale».
Così nelle commedie rusticali del Fumoso abbondano citazioni di carestie e violenze delle truppe spagnole accampate nel territorio senese, gli scontri mai sopiti tra le varie fazioni cittadine. La narrazione del villano è comica, grottesca, anche provocatoria; diventa visione della «travagliata vita politica di una moritura res publica», spiega e illustra la Scannapieco nell’analisi, tra l’altro, della pastorale Panechio del 1544 e della commedia Il travaglio del 1546, «opera ridicula e piacevole», caratterizzata, a partire dal titolo e poi riscontrabile nei vari personaggi, da evidenti allusioni legate al degrado e alle coeve inquietudini senesi.

I testi di Fumoso, assai poco accademici e lontani dal linguaggio erudito di scuola fiorentina, piuttosto ancorati al serbatoio linguistico senese, rivelano una chiara adesione ai meccanismi della produzione scenica; rivelano soprattutto un impasto linguistico attento alla sensibilità socioculturale e alle attese del potenziale spettatore, ossia il cittadino che assiste alla rappresentazione da una prospettiva “diversa” della realtà angolata dal punto di vista narrativo del villano.

Perciò la produzione teatrale di Fumoso è fluida e dinamica, mutevole e in un certo senso libera e sperimentale, come quella del Ruzante evidenziata, a titolo esemplificativo, nella Moschetta che presenta un’evidente disarmonia tra i primi tre atti e gli ultimi due, frutto della trasformazione dell’originale egloga in commedia regolare in cinque atti. L’operazione drammaturgica, sottolinea la Scannapieco, costituisce «una vera e propria reinvenzione del testo ruzantiano di tale “fascino”, peraltro, da aver condizionato la successiva ricezione della commedia».

Tra Fumoso e Ruzante è un libro importante, erudito e di pregevole rigore scientifico che, da un lato, arricchisce le nostre conoscenze storico-letterarie dei Villani in scena, restituendone la giusta importanza all’interno del teatro rinascimentale, dall’altro lato, conferma lo spessore creativo di Ruzante, già riconosciuto a livello storiografico e sostenuto da non trascurabili allestimenti di sue opere sui palcoscenici italiani, e dall’altro lato, rivela l’estro drammaturgico di Fumoso che ancora attende adeguata considerazione teatrale.
 

                       di Massimo Bertoldi

 

Condannato alla fama:
la vita di Samuel Beckett

di James Knowlson
a cura di Gabriele Frasca

Imola (Bo), Cue Press, 2024, pp. 662

Nel catalogo dell’imolese Cue Press il nome di Samuel Beckett è una sorta di fiore all’occhiello tanti sono i libri inediti per l’Italia pubblicati in questi anni, dai fondamentali Un canone di Ruby Cohn a Capire Samuel Beckett di Alan Astro cui si affianca la serie “Quaderni di regia e testi riveduti” curata da Luca Scarlini finora rivolti ad Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp e ai cosiddetti Testi brevi.
A questo ambizioso progetto divulgativo di grande spessore scientifico appartiene anche Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett di James Knowlson per la cura di Gabriele Franca e la traduzione di Giancarlo Alfano. Si tratta di un libro imponente, sontuoso, necessario per conoscere la vita dell’uomo e dello scrittore-drammaturgo in tutte le sue sfaccettature pubbliche e private che l’autore conosce molto bene essendo stato amico e suo eccellente studioso.

Contenuta in ventisei capitoli ordinati in senso cronologico e basati su molteplici e preziose fonti – lettere e taccuini, appunti e manoscritti dello stesso Beckett, nonché testimonianze di collegi e amici – la biografia filtra la miriade di notizie in un tessuto prosaico ordinato e fluido, più vicino alla narrativa che alla saggistica, sempre lontano da effetti agiografici. Emerge una relazione strettissima tra letteratura e vita, soprattutto nelle opere giovanili in cui lo scrittore irlandese attinge «dalle proprie esperienze personali». Il timido e riservato giovane Beckett ama l’alcool, il rugby, il tennis; a Parigi frequenta i teatri, frequenta Joyce e conosce Breton, si innamora. Non pochi sono i dissapori con gli editori soprattutto londinesi.

Se Beckett è stato talvolta criticato per mancanza di impegno civile e politico, il libro di Knowlson offre un’indiscutibile smentita: durante un soggiorno nella Germania nazista (1936-1937) annota nei suoi diari che i tedeschi «devono combattere presto (o scoppiano)», dopo aver ascoltato per radio gli «apoplettici» discorsi di Hitler e Goebbels. Affiora l’antinazismo che si materializza nel 1941 quando il drammaturgo partecipa alla Resistenza aderendo alla cellula Gloria SMH attiva nella regione parigina, presto colpita da arresti che lo costringono a rifugiarsi a Roussillon (1942-1945).
Sono esperienze destinate a incidere nella «tempesta creativa» del dopoguerra perché – sottolinea Knowlson – «una cosa era provare intellettualmente la paura, il pericolo, l’angoscia e la privazione, un’altra viverle nella propria persona, come gli era successo quando era stato accoltellato, oppure quando si era dovuto nascondere».         

«Frenesia di scrivere» ovvero il periodo 1946-1953, durante il quale nascono, tra l’altro, la trilogia romanzesca con Molly, Malore muore e L’innominabile, e soprattutto Aspettando Godot allestito da Roger Blin con effetti da circo e music hall, per poi emigrare da Parigi ai teatri tedeschi. Il successo europeo è in parte annebbiato dai consensi altalenanti ottenuti negli Stati Uniti e dalle difficoltà incontrate nella stesura di Finale di partita. Beckett entra in depressione creativa in merito alla comunicazione teatrale. Si illumina con i successi radiofonici segnatamente ottenuti con L’ultimo nastro di Krapp.

Altro momento cruciale è lo scontro con la censura irlandese e inglese, ben evidenziata dalla stampa, a proposito di alcune scene di Finale di partita. E difficoltà non trascurabili emergono anche nella messinscena di Giorni felici curata dallo stesso Beckett che «non fu mai un regista di attori».
Samuel invecchia, ha problemi di salute, non si ferma fino alla fine: aveva capito sulla propria pelle che a monte del successo c’è l’esperienza cruciale dell’insuccesso come molti personaggi disegnati da questo indiscusso signore della scena del Novecento, segretamente ci rivelano.


                             di Massimo Bertoldi                                                  

 

 

Tino Carraro
Attore di regia

a cura di Giacomo Della Ferrera e Francesca Rigato

Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2023, pp. 229.

È vincente l’iniziativa di Mimesis di affidare ad un gruppo di giovani e competenti studiosi provenienti dagli atenei di Milano e Firenze la stesura del volume Tino Carraro Attore di regia inserito nella collana “Quaderni degli attori milanesi”. «Più che una ricostruzione biografico-critica – si legge nella Premessa – si tratta, per usare una metafora teatrale, di una sequenza di ‘scene madri’ della vita del Carraro attore, che ne evidenziano le scelte professionali, il rigore metodologico nello studio e nell’approccio al mestiere, la dimensione artistico-recitativa e, non ultimo, il contributo umano».

Sono importanti gli esordi del milanese Carraro (classe 1910) caratterizzati – come racconta Francesca Rigato – da percorsi artistici ora legati a compagnie private di derivazione ottocentesca ora al nascente teatro di regia praticato da Gorgio Strehler e Luchino Visconti. Perciò l’attore cresce conservando le lezioni della tradizione e acquisendo, in parallelo, nuovi metodi espressivi e interpretativi a livello di approccio testuale.
Dal 1952 al 1962 diventa primo attore al Piccolo Teatro di Milano e l’esperienza lascia un segno indelebile per la sua crescita e carriera, come si legge nel saggio di Giacomo della Ferrera incentrato, tra l’altro, sulla partecipazione di Carraro a El nost Milan di carlo Bertoluzzi.

«Tutto mi viene da Bertolt Brecht. Mi sono ‘sposato’ con Brecht o meglio con il suo metodo» assimilato da Carraro in occasione della celebre messinscena strehleriana dell’Opera da tre soldi (1955-56) ricostruita con particolare attenzione da Martina Guerinoni: impegnato nei panni del gangster Mackie Messer, è applaudito dallo stesso Brecht presente al Piccolo; come altrettanto rilevante risulta l’esibizione accanto a Mina del collage Io, Bertolt Brecht, n.2 (1974-75).

Altra leva artistica fondamentale per Carraro risulta l’incontro con il repertorio di Cechov, soprattutto con Il giardino dei ciliegi in tre distinti momenti, come illustra Giacomo Della Ferrera: nel 1955, guidato dalla regia storico-filologica di Strehler veste i panni del mercante Lopachin, ruolo assunto anche nell’edizione, tra farsa e vaudeville, firmata da Luchino Visconti nel 1965; infine nel 1969 Mario Ferrero gli affida la parte dell’abulico e inetto Gaev.

Il dettagliato contributo di Chiara Boatti ripercorre il copioso impegno di Carraro per la televisione e i cinema a partire dal 1952 fino agli anni Ottanta. Generalmente interpreta la parte del cattivo come ne Il mulino del Po di Sandro o in Cadaveri eccellenti di francesco Rosi.

Carraro definisce «seconda giovinezza d’attore» la sua versatile attività a seguito della momentanea rottura con Strehler: lavora, secondo quanto racconta Giulia Bravi, con molti registi, tra i quali Orazio Costa e Ruggero Jacobbi. Esaurita la non trascurabile parentesi con la Compagnia dei Quattro diretta da franco Enriquez, nel 1967 Carraro è scritturato dal Piccolo di Milano per Lulu di Frank Wedekind secondo la regia di Patrice Chéreau. Si tratta di una sorta di preludio al ritorno nel 1971, di un anno anteriore a quello del rigenerato Strehler, ora intenzionato a rileggere i classici in «chiave contemporanea poiché per lui – spiega la Ligato – il teatro e il palcoscenico rappresentano la vita e il mondo».

Si apre un ciclo di spettacoli di superlativa bellezza come Re Lear considerato dallo stesso Carraro «il più matto dei personaggi scespiriani». E l’attore risponde con una prova magistrale, «struggente e esaltante» come la definisce Paolo Grassi. È l’indice del suo totale splendore artistico che si conferma ne La tempesta del 1978 nei panni di Prospero, «uno di quei personaggi magici – ricorda Carraro – che obbligano a rinnovarti ogni sera, è come se fosse sempre una ‘prima’, scattano intonazioni, ricordi, pensieri diversi».

Con la messinscena de Il temporale di August Strindberg del 1980, altro grande successo di Carraro, si conclude questo interessante ed esaustivo volume, arricchito da una raccolta di testimonianze che impreziosiscono la conoscenza di questo fondamentale attore italiano del Novecento che abbandona la scena nel 1994 (morirà l’anno dopo) con la partecipazione alla quinta edizione dei pirandelliani I giganti della montagna sempre con Strehler.


                              di Massimo Bertoldi

 

Eleonora Duse.
Storia e immagini di una rivoluzione teatrale

di Mirella Schino

Roma, Carocci Editore, 2023, pp. 345

Per lo spettatore l’esibizione di Eleonora Duse si trasformava in un’esperienza unica e particolare, che colpiva l’interiorità: ancor prima di accomodarci in sala «ci assaliva un’inquietudine crescente, si susseguivano stati d’animo dai nuovi colori», racconta Hugo von Hofmannsthal nel 1902; «così scarna, così spoglia, senza alcuna mascheratura sul volto» – annota Rainer Marie Rilke – provoca negli spettatori una sorta di applauso liberatorio, «nella loro paura dell’estremo: come per allontanare da sé all’ultimo momento qualcosa che li avrebbe costretti a mutare la loro vita». All’inizio degli anni Venti il giovane Piero Gobetti riconosce in questo atteggiamento del pubblico il «secondo dramma», parallelo a quello dello spettacolo che diventa «esperienza mistica».

Queste testimonianze rivelano nell’attrice una sostanza espressiva anomala, lontana dal verismo e dal naturalismo, originale, misteriosa, fautrice di una maniera del tutto inedita di fare e trasmettere il linguaggio teatrale a livello performativo. Non più piacere, arte in sé, intrattenimento, evasione, ma continuo e raffinato gioco di scosse telluriche, turbamenti capaci di attivare negli spettatori profondi sconvolgimenti emotivi prossimi a colpire la sfera esistenziale.

È quanto argomenta Mirella Schino nel prezioso e fondamentale volume Eleonora Duse. Storia e immagini di una rivoluzione teatrale. Attraverso lettere, documenti, testimonianze, racconti e un appropriato apparato iconografico (caricature, foto di scena, ritratti in studio) opportunamente accompagnato da luminose schede analitiche, si ripercorre la luminosa carriera della grande attrice nata per caso a Vigevano nel 1858 in una famiglia di guitti itineranti, «di scavalcamontagne», che recita a quattro anni Cosetta nei Miserabili di Victor Hugo, si rivela in coppia con Flavio Andò ne La signora delle camelie di Alexandre Dumas fils.

Dal 1887 la Duse si cimenta con il capocomicato. Lotta per l’autonomia artistica in un sistema teatrale privo di sussidi pubblici proponendo Sardou e Goldoni, si fa applaudire in Frou-Frou di Meilhac e Halèvy. Si lancia in progetti assai rischiosi. Nel 1888 assieme a Arrigo Boito, con il quale vive il suo più importante e coinvolgente legame sentimentale, realizza l’allestimento dello shakespeariano Antonio e Cleopatra, uno spettacolo potenze e capace di turbare e incantare tantoché Anton Cechov, presente ad una recita a Mosca nel 1891, commenta: «Non conosco l’italiano, ma ha recitato così bene che mi sembrava di comprendere ogni parola. Che attrice meravigliosa! Mai per innanzi ho visto qualcosa di simile».

Segue il fallimentare tentativo, tra il 1897 e i 1904, di animare un teatro di poesia dalle tinte tragiche con Gabriele D’Annunzio con il quale condivide una tormentata storia d’amore e per il quale recita, tra l’altro, La città morta, Francesca da Rimini, La figlia di Iorio.
Si arriva ad un anno fatidico: nel 1909 la Duse, dopo l’applaudita tournée a Berlino e Vienna, abbandona il teatro, senza aver mai spiegato la drastica decisione. Ha cinquant’anni. In merito la Schino ipotizza «la volontà di lasciare le scene prima che il pubblico cominci a raffreddarsi, prima che ci sia anche solo il più piccolo accenno a una parabola discendente». Intanto la Duse fa progetti, come la realizzazione di una casa-biblioteca per attrici. Soprattutto si confronta, ottenendo risultati assai modesti, con il cinema (Cenere).

Improvvisamente nel 19121, carica di entusiasmo e di energie, la Duse ritorna sulla scena. Con i capelli completamente bianchi interpreta, affiancata da Ermete Zacconi, una donna giovane e bella, Ellida protagonista della ibseniana La donna di mare. Si tratta di un autentico trionfo, che la Schino iscrive al periodo de “L’età d’oro”, anche se compromesso da periodi di malattie e gravi problemi economici affrontati organizzando tournées all’estero. L’attrice conquista le platee di Londra e Vienna, si reca negli Stati Uniti. A Pittsburgh si complicano le condizioni di salute e muore il 21 aprile 1924.

Inizia un altro e diverso spettacolo: la bara attraversa molte città americane accompagnata da manifestazioni di pubblico dolore. Pur sempre ignorata, si mobilita Mussolini organizzando imponenti manifestazioni di Stato che interessano Napoli, dove sbarca il feretro, Roma con il sontuoso corteo e la messa solenne a Santa Maria degli Angeli, successivamente a Padova. Racconta la Schino che «il carro funebre era stato agganciato a un trenino per Montebelluno, e da lì c’era stato un lungo corteo di automobili fino ad Asolo», borgo in cui l’attrice aveva fissato la sua ultima dimora. Tra i tanti presenti – oltre agli amici e ai rappresentanti del teatro come D’Annunzio, Dario Niccodemi, Memo Benassi – si notano Arnoldo Mussolini, fratello del Duce, e Giacomo Matteotti che qualche giorno dopo sarà ucciso dai fascisti.

                                Di Massimo Bertoldi

 

Lina Prosa

Teatro

Imola (Bo), Cue Press, 2024, pp. 123

Salita alla ribalta anche internazionale con La trilogia del naufragio / Lampedusa Beach – Lampedusa Snow – Lampedusa Way allestita con successo alla Comédie Française e tradotta in più di dieci lingue,
Lina Prosa raccoglie nel volume Teatro edito da Cue Press una serie di testi che illuminano le caratteristiche della sua scrittura e, soprattutto, inquadrano la fisionomia dei suoi personaggi. Si tratta di figure deboli, instabili, sottilmente tormentate, pronte alla rivolta, scettiche, depositarie di intimi segreti capaci di segnare, anche in modo rocambolesco, il non-senso delle loro strane esistenze.

Indicativo in merito è Ingrid e Lothar, il cui sottotitolo è Didascalia di una catastrofe: un attore, prima dell’inizio dello spettacolo, istruisce il pubblico sul comportamento da assumere di fronte al racconto dell’esile vita dei due personaggi del titolo impegnati nella conta di dieci pomodori che significa «perseguire la massima precisione per arrivare a toccare l’incomprensibile».
La battuta rimbalza nel tessuto narrativo della splendida commedia La carcassa di un’automobile misteriosamente finita in un burrone e notata nel buio da due poliziotti, Mimmo e Iachino. Hanno paura di avvicinarsi, la confondono con altri oggetti («non riusciremo mai a vedere cosa realmente sia quella cosa lì»); come un deus ex machina entra in scena l’enigmatico Liborio che ha trasformato la carcassa metallica in castello-teatro delle apparizioni dello spettro del padre, di shakespeariana memoria. Si anima un gioco di effetti incredibili intorno ai quali si svela il segreto, come in un giallo: quella macchina con le lamiere accartocciate, simbolo dei sogni e delle speranze di un’Italia che ha identificato nelle quattro ruote prestigio e successo, si intreccia nella vita del padre di Iachino, operaio emigrato a Torino, e della madre di Mimmo, maestra pendolare.

Ala dialettica visibile-invisibile ritorna nell’intrigante Il muro ha due lati, dialogo ambientato in una residenza per donne disagiate dome il muratore Nuzzo sta inalzando un muro per dividere in due parti la stanza di Nilla. I due, amici da bambini, esibiscono frammenti di memoria in parallelo al procedere del posizionamento dei mattoni, simbolicamente numerati, che progressivamente rimpicciolisco la visione del paesaggio, limitano lo sguardo sul mondo fino a quando si parleranno al di là del muro attraverso una fessura, «il luogo del perdono» dei loro insepolti sgarbi giovanili.

Delicatezza poetica e umana sprigiona Voglio fare la rivoluzione con te, ovvero il sogno ribelle di Cosimo recluso nel carcere di un paese chiamato Periferia a Sottana. «Ada, voglio fare la rivoluzione con te, oggi», dichiara l’uomo nel lungo e intenso monologo, evocando una figura femminile immaginaria forse reale, alla fine svanita nel nulla, nel metaforico oblio del silenzio: «i corpi de-rivoluzionati che hanno steso/Le lenzuola nel vuoto non ci sono più./Tutto è da rifare. Con chi? Per chi?»

Il senso di vuoto e la proiezione nell’ignoto costituiscono il segno esistenziale delle anime profilate dalla Prosa e calate in «luoghi emotivi» di quotidianità e di nostalgia espressi da un linguaggio essenziale, crudo e sentimentale, reale e visionario. Le parole sono in perpetuo movimento: sfiorano, penetrano e rifiutano il dialogo sempre intimo; fissano stati d’animo e turbamenti, perciò diventano imprevedibili e fuggenti come emerge anche dalla lettura degli altri testi contenuti in questa preziosa raccolta - Actor Studio-19, Antoniuccia e Peppino, Scavo di fossa nel bianco, Popolo-19, Africa mise en espace?.

                                            di Massimo Bertoldi

 

Why Theatre?/Perché il teatro?

di Milo Rau, Kaatje De Geest, Carmen Hornbostel
a cura di Andrea Porcheddu

Imola, Cue Press, 2023, pp. 162

È da quando esiste il teatro che si sollevano domande intorno al suo motivo di essere e al suo relazionarsi al mondo. Le risposte, ovviamente tante e diverse, derivano dal tempo storico e dal contesto socioculturale, cha alimentano anche sogni, utopie, progetti su quello che lo stesso teatro potrebbe diventare e trasformarsi in una prospettiva lungimirante.
Affiancato da Kaatja De Geest e Carmen Hornbostel si muove in questa direzione Milo Rau – illuminato regista svizzero ideatore di spettacoli ambientati in Amazzonia, Kurdistan e a Mosul e incentrati su personaggi mitici letti in chiave moderna – raccogliendo nel 2022, quando anche lo spettacolo era fermo per il Covid, risposte di centoventi artisti internazionali alla domanda: «Why Theatre?/Perché il teatro», poi diventata titolo dell’interessante volume edito da Cue Press curato da Andrea Porcheddu che ne seleziona circa la metà.

Si tratta di un coro di voci variegate nel codice narrativo ma concordi sia nella funzione del teatro quale specchio del nostro tempo e testimone delle tragedie storiche planetarie, che nella necessità di superare i confini geopolitici e dilatare il linguaggio performativo, connesso alla sua funzione comunicativa, nell’orizzonte di nuovi spazi di pensiero e di relazione comunitaria. Di fronte alle guerre, ai populismi, all’emergenza ambientale e alle violenze quotidiane, «il teatro – sottolinea Porcheddu – non può sconfiggere questa realtà, e forse tanto meno la poesia: eppure possono suggerire altri modi di pensare, altre parole. Più caute, più gentili, più umane».

Così nel bel volume di Cue Press – impreziosito dalla postfazione di Giacomo Bisordi – si susseguono i contributi di importanti protagonisti della scena contemporanea, da Nora Chipaumire («I poveri – Ecco cos’è il teatro, e perché il teatro non potrà mai scomparire, perché avremo sempre i poveri se avremo l’Africa») a Stefan Kaegi («Perché tutti sanno cos’è il teatro/Perché nessuno lo sa. /Perché tutto ciò che accade può diventare teatro»); da Angélica Liddell («Non smetteremo di lottare per la bellezza. La ricerca della bellezza è la tortura dell’anima») a Luc Perceval («il teatro rappresenta il tocco umano dell’oscurità»). Lo stesso Rau scrive: «Una vittoria dell’umanità mi interessa più a teatro che altrove: perché è soggetta alle regole della realtà, come nessun’altra».

Non manca il contributo italiano offerto da Ermanna Montanari e Marco Martinelli di Teatro delle Albe («Il teatro nasce rivelando il fondamento violento della società, il sacrificio di tutte le Ifigenie della storia […], è un’arte di rivelazione, di smascheramento attraverso il mascheramento») e di Daniele Nicolò e Enrico Casagrande di Motus («Il teatro è qualcosa di stupefacente. […] ha la capacità atletica di reinventarsi, è una fenice che risorge dalle proprie ceneri»).
Tra crisi e catastrofi provocate dall’uomo, il teatro radica la sua esistenza e si rigenera sempre nel linguaggio drammaturgico e nelle forme estetiche assolvendo il ruolo di cantastorie e di contenitore delle contraddizioni della nostra vita, raccontata anche in una prospettiva diversa, di cambiamento: è questo il messaggio fondamentale del volume Why Theatre?/Perché il teatro.  
 

                          di Massimo Bertoldi

 

Otto Brahm e il dibattito sulla scena teatrale berlinese (1881-1892)

di Iari Iovine
prefazione di Annamaria Sapienza

Torino, Accademia University Press, 2023, pp.

Radiografare una stagione di grandi trasformazioni culturali attraverso la lente del teatro e segnatamente concentrandosi sull’attività e contributi teorici di un personaggio emblematico attivo in una città cruciale: è questo l’obiettivo dello studio luminoso e assai dettagliato di Iari Iovine, Otto Brahm e il dibattito sulla scena teatrale berlinese (1881-1892).
Il fulcro tematico è la diffusione del Naturalismo in Germania sul cadere del XIX secolo come definito da Émile Zola e in parte anticipato a livello pionieristico in area tedesca da Büchner, Lessing e Hebbel, per poi essere assunto da Otto Brahm, critico della “Vossische Zeitung”, fondatore dell’associazione teatrale Freie Bühne, successivamente direttore del Deutsches Theater e del Lessing Theater di Berlino.

Al dominante teatro commerciale e di svago Brahm contrappone l’ideale di un «teatro d’arte» basato sul rispetto del testo quale tramite veritiero per ricostruire e raccontare oggettivamente la realtà, come già praticato dalla compagnia dei Meininger che ebbe modo di esibirsi a più riprese a Berlino nel periodo 1874-1887, offrendo significativi esempi di scenografie monumentali e fedelmente archeologiche a supporto dell’esibizione di attori lontani dal divismo.

La ricerca del vero attraverso la narrazione del quotidiano vissuto da personaggi ordinari e autentici avvicina Brahm al teatro dell’austriaco Ludwig Anzengruber che con il dramma G’wissenswurm (Il tarlo della coscienza) «ha toccato i compiti più alti dell’arte», si confronta con la drammaturgia di Bjørnstjerne Bjørnson e di August Strindberg la cui Signorina Giulia trionfa nel 1892 alla Freie Bühne inaugurata nel 1889 dalla messinscena di Spettri di Heinrich Ibsen che di fatto segna l’avvio della diffusione, con effetti tellurici, del repertorio dello scandinavo nella scena berlinese. Come di primaria importanza risulta il rapporto di Brahm con Gerhart Hauptmann: si tratta di un altro passaggio nodale per l’affermazione, pur concentrata in pichi anni, nella stagione del Naturalismo tramite gli allestimenti scandalosi di Prima dell’alba, Anime solitarie e I tessitori.

Brahm, oltre che affrontare problematiche legate alla produzione testuale di stampo naturalistico, si addentra nella nodosa questione dell’attore, nel nuovo attore che, perciò, abbandona virtuosismi e tecnicismi di maniera, e recita senza trucchi e artifizi retorici, per cercare un’espressione mimico-gestuale e verbale fondata sui toni snaturali e semplici perché ricavati dal «mondo» e dall’«ambiente» quotidiano.
In merito l’intraprendente Brahm si dimostra pregevole regista e talent scout rivelando attori destinati a breve a trionfare sulla scena tedesca, da Else Lehmann a Rudolf Rittner, da Emanuel Richter a Josef Kainz e Agnes Sorma che poi si distaccano dalla lezione del maestro, come altri faranno, in quanto svilisce la figura del primo attore.

Così nasce lo Brahmstill: «I personaggi – spiega Iovine – vengono esplorati dagli attori dall’interno, psicologicamente e individualmente, trasmettendo in scena anche i più minuti dettagli». L’attore entra quindi in sintonia con il drammaturgo, come lucidamente teorizzato nel saggio del 1982 Antica e nuova arte dell’attore

Il corposo materiale raccolto nella seconda parte di questo importante studio della Iovino ha il pregio di seguire l’attività e lo sviluppo del pensiero di Brahm che si enuclea dalla pubblicazione delle tante recensioni di tanti spettacoli ibseniani e hauptmanniani visti a Berlino, unitamente alla visibilità data alla fitta corrispondenza con Hauptmann che dimostra grande profondità intellettuale e umana. Nell’ultima corrispondenza con l’autore de I tessitori Brahm scrive: «Da quel giorno d’autunno 1889 – senza che tu abbia dovuto fare più volte il giro di Berlino a piedi – mi è stato concesso di mettere in scena per primo quasi tutti i tuoi lavori; mi è stato permesso di portarli alla luce e rivelarli al pubblico tedesco per primo; e considero questo incarico battesimale e onorifico, la più grande felicità che ho provato nella mia vita professionale».
Sembrano parole, scritte il 14 novembre 1912, di veggente commiato dall’amico drammaturgo che morirà prematuramente di lì a poco, il 28 novembre.

                                  di Massimo Bertoldi

 

 

Una germanista scapigliata
Vita e traduzioni di
Lavinia Mazzucchetti

di Anna Antonello

Macerata, Quodlibet Sudio, pp. 288
 

«Chi era Lavinia Mazzucchetti?», si chiede Anna Antonello – ricercatrice bolzanina presso l’Università degli Studi G. D’Annunzio di Chieti – nell’Introduzione alla corposa e dettagliata biografia da lei compilata e dedicata a questa intraprendente figura intellettuale, ossia Una germanista scapigliata come la inquadra il titolo del volume edito da Quod Libet Sudio. Figlia di una cantante dilettante e di un giornalista del quotidiano “Il secolo”, la sua complessa e variegata esperienza assurge a emblema della situazione sociopolitica e culturale italiana nella prima metà del Novecento declinata dalla «solitaria ribellione» di una donna dichiaratamente «antifascista intransigente e irremovibile», atteggiamento penalizzante, per esempio, nell’assegnazione della cattedra di germanistica all’Università di Milano contesa con Vincenzo Errante, tanto da provocare il suo trasferimento a Berlino negli anni Venti.

Poi si apre il proficuo capitolo delle recensioni nel mensile “I Libri del Giorno” e nella rassegna bibliografica “Il Leonardo”, in cui si occupa dei fratelli Mann, Hermann Hesse, Franz Kafka. Di rilievo risulta anche la collaborazione con Sporling & Kupfer per la quale dirige una collana di “narratori nordici” inaugurata con la traduzione della novella Frau Bertha Garlan di Arthur Schnitzler. L’obiettivo, chiarisce la Antonello, è «di sfatare il mito dei “mattoni” tedeschi noiosi e illeggibili» che si rinnova nel 1933 con Mondadori e nella parallela attività di traduttrice presso Bompiani. Nei cataloghi figurano, tra i tanti, i nomi di Franz Werfel, Josef Roth, Mann, Hans Grimm, Hans Fallada, Gerhart Hauptmann. Monumentale rimane la traduzione dell’omnia omnia di Goethe avviata nel 1944 e terminata nel 1951.

Gli anni del dopoguerra – come illustra la Antonello – furono «un periodo di grande gioia» per le nozze con Waldemar Jollos ma anche di «definitiva disillusione» a causa dei «tanti agognati cambiamenti radicali nella politica italiana (che) non arrivano, nonostante il cambio della guardia». La Mazzucchetti si trasferisce a Zurigo e lavora, pur tra non poche difficoltà, per Artemis Verlag, giovane e ambiziosa casa editrice. Nella città svizzera viveva anche Thomas Mann con il quale la traduttrice rafforza amicizia e intesa intellettuale che culmina con la pubblicazione, tra il 1943 e il 1963, dell’opera completa per conto di Mondadori, affiancata da una selezione piuttosto corposa della produzione di Hesse. È datata 1959 la stampa postuma di “Novecento in Germania”, raccolta di saggi editi per la maggior parte in riviste e quotidiani. Si tratta di una sorta di testamento culturale popolato dagli autori tedeschi a lei cari che, di fatto, rivelano e accompagnano l’attività della Mazzucchetti.

Questa infaticabile traduttrice, insegnante, meticolosa e lucida critica letteraria, fu soprattutto una grande mediatrice culturale capace di creare un ponte tra cultura italiana e tedesca ricoprendo «quel ruolo di informatrice intelligente e appassionata, di missionaria delle lettere; il cosmopolitismo della formazione e delle aspirazioni, l’esprit europén», come scrisse Giorgio Babibbe nella rivista “Il Ponte”.
                                     
                                    di Massimo Bertoldi


 

Conversazioni dopo un funerale

di Yasmina Reza
traduzione di Daniela Salomoni

Milano, Adelphi, 2023, pp. 117


Conversazioni dopo un funerale segna l’esordio drammaturgico di Yasmina Reza. Scritto tra il 1983 e il 1984, rappresentato per la prima volta nel 1987 e vincitore del prestigioso Premio Molière, il testo giovanile contiene in sé gli ingredienti stilistici e linguistici propri del percorso creativo di questa scrittrice, attrice e sceneggiatrice francese di successo internazionale.
La pièce, inedita per lettori e spettatori italiani, presenta una griglia narrativa in cui si intrecciano il tragico e il comico, il serio e il faceto, il silenzio e la parola, il senso della morte nelle declinazioni dell’amore. I personaggi sono comuni e ordinari, calati in situazioni che tendono a smascherarli e dalle quali cercano di fuggire alla ricerca di una dimensione indefinita, per poi ritrovarsi, nonostante le piccole-grandi tragedie personali, imbrigliati nei lacci delle stesse dinamiche relazionali.

La situazione di partenza dell’intreccio narrativo è una situazione occasionata da un evento luttuoso: la sepoltura del padre nella tenuta di una campagna della Loira, dove la famiglia trascorreva le vacanze estive, all’ombra di un albero, in un giorno d’autunno insolitamente caldo, anche se il meteo muterà, con un segno fortemente simbolico, verso la pioggia e il freddo.
Si respirano vaghe atmosfere cechoviane plasmate di contemporaneità nell’arrivo inatteso e destabilizzante di Élisa contesa tra i due fratelli, Alex il suo ex dal carattere inquieto e irascibile che trova la campagna deprimente, e Nathan il ragazzo “prodigio”, socievole e amante della natura. C’è Édith, la sorella di mezzo, coinvolta in una relazione fedifraga con lo strano signor “Tse-tse”, amico del padre defunto. A loro di unisce lo zio Pierre, figura divertente e un po’ volgare ma capace con il suo istrionismo di alleviare il dolore del lutto; lo affianca la moglie Julienne, donna goffa a capricciosa.

Mossi da un ritmo narrativo scandito da dialoghi brevi e essenziali, privi di retorica e intervallati da pause e silenzi, i vari personaggi si urtano e si provocano ma soffocano il crescendo delle tensioni in frasi apparentemente banali, in gesti misurati e in scambi di occhiate. Affiorano conflitti latenti, gelosie, dolori e rancori rimossi. I segreti di famiglia, sepolti da un certo perbenismo di facciata, via via vengono rivelati anche se rimangono sempre avvolti in un alone di mistero.
Pur vivendo una situazione di lutto, i personaggi manifestano comportamenti ordinari, come il fare la spesa, spelare le patate per preparare lo stufato. I segni della tragedia sfociano nella banalità della vita quotidiana scandita da azioni indolenti e cicliche, raccontate dalla Reza con disarmante e spietata lucidità in questa commedia coinvolgente e assai accattivante che si legge tutta d’un fiato trasportandoci nel «labirinto dei sentieri inutili» come dice Alex alla fine di queste Conversazioni dopo un funerale.
 

                                       di Massimo Bertoldi

 

 

I due “gemelli” veneziani
Francesco & Francesco Santurini uomini di teatro al servizio della Serenissima Repubblica

di Gianluca Stefani

Firenze, Edizioni Polistampa, 2023, pp. 144


I due “gemelli” veneziani sono Francesco Santurini quondam Stefano e Francesco Santurini quondam Antonio, «probabilmente consanguinei, forse zio e nipote», precisa Gianluca Stefani specificando che, da un lato, entrambi lavoravano nell’Arsenale di Venezia, l’uno come “calafà” e l’altro come “marangone”, dall’altro lato, praticarono un doppio mestiere e trasferirono le competenze acquisite nel cantiere navale alle arti sceniche. Le loro vicende artistiche permettono di «ripercorre la storia – una delle tante possibili – del mondo dell’opera e dello spettacolo veneziano ed europeo nella seconda metà del Seicento e nel primo scampolo del secolo successivo».

La prima parte del libro è dedicata a Francesco Santurini quondam Stefano: nato a Venezia nel 1627, si distinse al Teatro Sant’Apolan come “scenografo” nell’opera Le fortune di Rodope e Damina di Aurelio Aureli (poesia) e Pietro Andrea Zani (musica). Seguì la collaborazione con il prestigioso San Cassiano avviata da L’incostanza trionfante overo il Theseo di Francesco Piccoli e conclusa nel 1659 con Antroco su libretto di Nicolò Minato e musica di Francesco Cavalli.
Fu assunto dalla corte dei Wittelsbach di Monaco dove lo spettacolo operistico, anche con il contributo di apparatori italiani, costituiva il fiore all’occhiello degli intrattenimenti. L’attività artistica di Santurini, il “Welscher Ingenir”, inizia nel 1662 con la realizzazione della macchina scenografica per Applausi festivi in occasione delle manifestazioni per il battesimo dell’erede al trono Massimiliano Emanuele; il 24 settembre all’Opernhaus am Salvatorplatz fu la volta della messinscena del dramma in musica Fedra incoronata di Pietro Paolo Bissari impreziosita da effetti speciali inediti, come la divisione dello spazioso palco nella zona sott’acqua – dove si anima il mondo sottomarino – e in quella sopra l’acqua occupata da una barchetta in movimento in cui stanno Alico e Ferebea.

Il vertice della creatività coincise con la realizzazione di un bucintoro varato sul lago di Stranberg nell’agosto 1664 dopo oltre un anno e mezzo di lavoro. Dipinti e incisioni, unitamente alle corrispondenze, attestano la magnificenza di questa bireme a tre ponti, adornata di pitture e statue, di colore bianco e blu come i colori del casato Wittelsbach.
Prima di lasciare Monaco, Santurini predispose le scenografie per L’amor della patria superiore ad ogni altro di Francesco Sbarra e per il balletto I trionfi di Baviera. Complici i rigori del clima bavarese e scaduto il mandato, rientrò a Venezia nel 1669 e trovò impiego al teatro di San Luca. Di lui si perdono le tracce fino al biennio 1679-80 quando risulta responsabile degli allestimenti d’opera al Teatro Grande. Soprannominato “il Bavaria”, morì nel 1682.

Quella di Francesco Santurini quondam Antonio è una storia tutta veneziana a partire dalle esperienze al San Moisè come scenografo e poi nei panni dell’impresario capace di provocare scosse telluriche nel sistema teatrale della Serenissima per via  dalla reintroduzione, nel 1674, della riduzione dei prezzi in occasione del dramma La schiava fortunata (musica di Antonio Cesti e Marc’Antonio Ziani, libretto di Giovanni Andrea Moniglia).

Tramontata la speranza di ottenere il San Moisè, l’ambizioso e intraprendente Santurini cullò l’idea di costruirsi un teatro proprio, in una posizione molto strategica: nel 1676 firmò un contratto con i comproprietari del fondo edificabile secondo il quale dopo sette anni sarebbe decaduto l’usufrutto. Il teatro di Sant’Angelo, probabilmente progettato dallo stesso Santurini, fu inaugurato nel 1677 con il melodramma Helena rapita da Paride di Domenico Freschi in cui spiccò la voce della giovane Margherita Salicola, futura star europea.
Tuttavia il nuovo teatro faticava a decollare, complici sia problemi con i palchettisti morosi e l’ingaggio di professionisti famosi e costosi come Antonio Sartorio e Aurelio Aureli, che l’apertura del concorrente San Giovanni Crisostomo.
Nel carnevale 1681, per esempio, le limitate risorse economiche resero scarno l’allestimento di Pompeo Magno in Cilicia mentre per Giulio Cesare trionfante (carnevale 1682) l’impresario investì molti soldi. Sta di fatto che il Sant’Angelo sembrava.

Anche se nella stagione 1684-85 Santorini, per sconfiggere l’agguerrita concorrenza, anticipò l’esibizione dell’opera musicale L’amante fortunato per forza (libretto di Pietro d’Averara, musica di Giovanni Varischino), gli incassi furono assai modesti e si pensò con una certa preoccupazione all’allestimento di Teseo tra le rivali di Aureli e Freschi in cui era presente la giovane e debuttante Vittoria Tarquini, che creerà non pochi problemi con la rivendicazione di pagamenti mancanti.
Nel 1706 l’anziano impresario, anche inguaribile giocatore d’azzardo, «decise di calarsi – come evidenzia Stefani – per l’ultima volta da vecchio leone nell’arena dei teatro veneziani». Al successo ottenuto con Paride in Ida favorito dall’ingaggio del celebre cantante Nicola Grimaldi detto Nicolino (libretto di Francesco Mazzari, musica di Agostino Bonaventura Coletti), corrispose il fallimento di Ifigenia di Coletti che occasionò il duro attacco di Andrea Capello, proprietario di una delle quote del teatro e fortemente intenzionato ad assumere la gestione del Sant’ Angelo.

La crisi diventò irreversibile nel carnevale 1707: si acuirono le tensioni con Capello in merito alla scelta del repertorio e all’ingaggio degli artisti alcuni dei quali, come Terenzia Partini, contestarono la parte assegnata mentre altri, come il compositore e violinista Tomaso Albinoni, sollevarono questioni economiche. «Così il coro dei creditori accompagnò l’ingloriosa uscita di scena di Santurini, ormai invecchiato e prossimo alla morte. Al teatro non avrebbe più fatto ritorno. Di lui si perdono le tracce, né è stato possibile finora rinvenire il suo certificato di morte».
Con queste parole incisive e lapidarie si conclude lo studio di Stefani completato dalla ricca sezione dedicata ai “Documenti” d’archivio, e da una corposa e aggiornata bibliografia che concorre alla restituzione della memoria di due personaggi in parte dimenticati eppure importanti per la storia artistica dello spettacolo e del suo consumo.


                                   di Massimo Bertoldi

 

La vita gaia di Dina Galli

di Lucio Ridenti

a cura di Leonardo Mancini
Bari, edizioni si pagina, 2023, pp. 172

 

Lucio Ridenti è una figura poco nota eppure di una grande importanza per il teatro italiano: fu prima attore “generico” assieme a Memo Benassi nella compagnia diretta da Ermete Novelli, poi si qualificò come “brillante” soprattutto nella compagna Galli-Guasti-Bracci nel periodo 1917-1924; nel 1924 si distinse come attore comico con Alda Borelli e nel 1925 entrò nella compagnia di Tatiana Pavlova; nello stesso anno un grave problema all’udito gli compromise la carriera, perciò trasferì i suoi interessi in ambito giornalistico – come redattore della “Gazzetta del popolo” di Torino e in qualità di fondatore della prestigiosa rivista “Il dramma” diretta fino al 1968 –, e nella veste di autore di numerosi libri di studi teatrali e memorie.

Tra questi spicca La vita gaia di Dina Galli scritto nel 1928 e ora ripubblicato dalla barese edizioni di pagina a cura di Leonardo Mancini che lo definisce un «un racconto storiografico a tratti ironico, affettuoso e familiare» dedicato ad un’attrice, come detto, con la quale lo stesso Ridenti aveva recitato per molte stagioni e alla quale attribuisce l’etichetta de «la più grande comica del creato». L’eccesso di enfasi, oltre che dalla grande stima professionale, deriva dall’attaccamento quasi celebrativo a un sistema teatrale in netto declino, ovvero il tramonto di quel capocomicato del quale la Galli può essere considerata una delle ultime e gloriose esponenti.

Tra aneddoti, cronaca e curiosità, Ridenti sottolinea le innovazioni stilistiche ed estetiche introdotte nel teatro italiano dalla Galli, come l’abbandono del lusso dei costumi a favore della sobrietà introdotto recitando commedie di pochade francesi che si basavano proprio sullo sfarzo dei costumi di scena.
Disprezzata da Silvio d’Amico, Marco Praga, Piero Gobetti e molto elogiata da Antonio Gramsci, inizialmente recita in dialetto milanese fino a quando è scritturata dalla famosa compagnia Talli-Gramatica-Ridenti. Si tratta di un significativo cambiamento di rotta: «il teatro dialettale – commenta Ridenti – perdeva un’attrice appena formata; quello italiano guadagnava la più grande attrice comica» che rimaneva una donna timida «come se non avesse mai recitato» anche perché l’italiano non lo parlava ancora in modo corretto.

Tuttavia questa attrice magra, dal viso appuntito e dagli occhi sporgenti, giganteggiò recitando Labiche e Feydeau: La dame de chez Maxim rivelò tutto il suo talento che poi trovò nell’interpretazione di Scampolo di Dario Niccodemi la sua definitiva consacrazione, suggellata anche dal giudizio di una spettatrice d’eccezione, Eleonora Duse che definì la resa scenica della modella popolana semplicemente «sublime». Seguono altri grandi successi, prima con le commedie di Giovacchino Forzano (Le campane di S. Lucio e Madonna Oretta) poi grazie a Biraghin di Arnaldo Fraccaroli.

Allo scoppio della Grande guerra, accompagnato da un «delirio di entusiasmo», l’attrice milanese «diventa silenziosa, indifferente a tutte le esteriorità», cancella dal suo repertorio le commedie «scapigliate» e recupera i vecchi vaudevilles, «che facevano soltanto garbatamene sorridere». Non solo: visita i soldati feriti negli ospedali e li intrattiene con il teatrino dei burattini: al fronte recita Scampolo e La maestrina di Niccodemi.
Intanto la sua compagnia teatrale si disperde e la Galli sembra allontanarsi dal mondo dello spettacolo. Forzano la scuote dal suo «apparente torpore» coinvolgendola, nel 1926, come protagonista di Ginevra degli Almieri e restituendole, in questo modo, carica ed entusiasmo tali da spingerla a fondare due anni dopo la compagnia Dina Galli.

Il racconto di Ridenti si ferma a questo punto mentre la vita artistica dell’attrice proseguì con pregevoli esperienze cinematografiche, vicino all’attività teatrale condivisa con interpreti del calibro di Nino Besozzi, Evi Maltagliati, Antonio Gandusio.
Con la sua scomparsa nel 1951 declina un teatro leggero e disimpegnato affrontato dalla Galli con quella «stralunata comicità» (l’espressione è di Renato Simon) che le garantì di stazionare nei quartieri alti della scena italiana dei primi cinquant’anni del Novecento.
 

                                       di Massimo Bertoldi

 

Teatro

di Jon Fosse

a cura di Vanda Monaco Westerståhl
Imola (Bo), Cue Press, 2023, pp. 141)

«Per le sue opere teatrali e la prosa narrativa che danno voce all’indicibile»: con queste scarne ma significative parole l’Accademia Svedese motiva l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura a Jon Fosse, drammaturgo poeta e romanziere norvegese che staziona da anni nei piani alti del teatro contemporaneo. La sua scrittura si presenta scarna, estremamente minimale; domina il non-detto sotteso a un linguaggio freddo e asettico, che costruisce atmosfere turbate, a momenti di claustrofobia e situazioni ossessive. I personaggi, privi di nome e caratterizzazione, si muovono in un mondo sospeso. Quando si parlano non si capiscono o forse non si ascoltano. Dominano i silenzi e i vuoti. La loro vita si consuma nello squallore di un presente eterno, senza possibilità di riscatto o scosse emotive.
«Il teatro di Jon Fosse scardina le tradizionali forme e strutture drammaturgiche, frantuma le abilità attoriche e le certezze intellettuali dei registi, ci fa nuovamente posare i piedi per terra. Nel suo teatro, in poche parole, cade l’illusione di potersi cullare e adagiare nella placida società del benessere», così scrive Vanda Monaco Westerståhl nell’introduzione alle prime commedie di Fosse da lei tradotte e recentemente pubblicate nel volume Teatro dalla imolese Cue Press, che annovera nel suo catalogo altre importanti opere dell’autore norvegese.
E non ci separeremo mai (1992) declina il rito dell’attesa, come vissuto da una generica Lei, in una dimensione di solitudine oscillante tra rinuncia e speranze, indifferenza e passione. Quando entra in scena Lui si anima un non-dialogo, le parole non sono interattive, sigillano due mondi separati. Il discorso della donna sembra un lungo monologo mentale, anche quando l’uomo si presenta con una Ragazza. La situazione rimane ambigua, manca la tensione e la presenza dell’intrusa non muove il dramma dell’isolamento esistenziale e sentimentale.
Anche in Qualcuno arriverà (1994) l’elemento di disturbo è dato da una presenza esterna alle dinamiche relazionali di una coppia che ha deciso di vivere in una casa-rifugio lontana dalla società, una vecchia e fatiscente dimora ubicata «sulla pianura in cima a una collina con vista sul mare». La donna avverte il fiato di un fantasma, che si materializza nell’inattesa visita dell’Uomo. La presenza di tale figura, ossia di colui che ha venduto loro la casa dove visse e morì la nonna, sviluppa sette scene di tagliente intrusione nella vita della coppia incapace di trovare una soluzione. Tuttavia il compagno prova una reazione, si dimostra geloso e accusa la donna di tradimento. La scoperta del degrado dei locali interni guida rapidamente alla consapevolezza della nuda realtà, alla perdita delle illusioni e dei sogni romantici. «Soli insieme / soli l’uno nell’altro», diranno alla fine i due sconfitti amanti seduti sulla panchina del giardino.
Il conclusivo testo di questa importante antologia di Cue Press è Il nome (1995). La commedia divisa in tre scene è incentrata sul ritorno in famiglia la figlia Beate, incinta, accompagnata dal suo ragazzo che se ne sta sempre seduto sul divano a leggere un libro. Ad accoglierla ci sono la madre, mezza pazza, e il padre, uomo taciturno e indifferente, che non esternano la minima emozione. Si aprono tensioni silenziose e soffocate dall’atteggiamento di sconcertante tranquillità palesata dai protagonisti. Questa situazione immobile e paludosa è mossa dall’arrivo improvviso di Bjarne, un vecchio amico della ragazza con trascorsi amorosi. Bjarne affonda il colpo, abbraccia e bacia la ragazza davanti agli occhi del suo attuale ragazzo e futuro padre, il quale in silenzio prende il suo fagotto, abbandona la casa e se ne va con la sua vecchia macchina. È l’apoteosi dello squallore e soprattutto della solitudine: anche Bjarne torna a casa e la ragazza rimane sola a guardare alla finestra, senza futuro.
È lo stesso Fosse a dire che i suoi personaggi teatrali sono «voci» e non «corpi» e aggiunge: «Non uso mai direttamente esperienze personali, se lo facessi la mia scrittura ne soffrirebbe. […]. Quando scrivo mi pongo in ascolto, della realtà forse, o forse di qualcos’altro – a man mano che avanza il testo, procede sempre più verso ciò che ho già scritto – e quello che scrivo è esattamente ciò che è giunto a me dall’essermi posto in ascolto».  

                                 di Masssimo Bertoldi

 

 

Il dramaturg in Italia
Un’anomalia storica tra Europa e Stati Uniti

di Davide Cioffrese


Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2023, pp. 374


Nel teatro italiano – a differenza delle coeve esperienze tedesche, inglesi e americane – «si continua ad avvertire la mancanza del ruolo del dramaturg. La sua istituzionalizzazione in suo riconoscimento anche formale e, soprattutto, la sua retribuzione in quanto tale». Eppure, rileva Davide Cioffrese ne Il dramaturg in Italia. Un’anomalia storica tra Europa e Stati Uniti le sue funzioni sono acquisite e generalmente riguardano il suggerimento di un testo teatrale con la conseguente rielaborazione linguistica, la sua eventuale traduzione, la ricerca di materiale relativo, la consulenza nel corso delle prove.

A partire dal Secondo dopoguerra non mancano lusinghieri esempi che ne legittimerebbero il ruolo e dimostrerebbero la sua costanza creativa e lo spessore culturale. Esemplare è l’attività di Gerardo Guerrieri al servizio prima di Luchino Visconti al quale offre trasposizioni più che adattamenti di celebri copioni (Lo zoo di vetro, Anime morte, Tre sorelle), cercando soluzioni linguistiche adatte alle caratteristiche espressive degli attori; poi con Giorgio Strehler che lo considera «studioso e traduttore» soprattutto del teatro americano. Sempre al Piccolo di Milano matura l’esperienza di Luigi Lunari, sorta di dramaturg di Arlecchino servitore di due padroni, Il giardino dei ciliegi, La tempesta).

Gioffrese affronta con cura anche i contributi di Gianrenzo Morteo, Giuliano Scabia, Roberto Lerici, per poi soffermarsi sulla figura cruciale di Edoardo Sanguineti cui compete il testo del celebre Orlando furioso allestito da Luca Ronconi nel 1969; su Renato Gabrielli, considerato il primo reale dramaturg italiano in senso istituzionale assunto dal Centro Teatrale Bresciano per volontà del direttore artistico Cesare Lievi; sulla trentennale «drammaturgia corporea» di Renata M. Molinari declinata, tra gli altri, con Federico Tiezzi (Artaud. Una tragedia) e con il regista belga Thierry Salmon avviata con Troiane e culminata nel progetto Dostoevskij.

Le radici storiche del dramaturg sono lontane e gli sviluppi seguono percorsi variegati, complessi e tortuosi, come emerge dalla minuziosa e assai documentata ricostruzione storica operata da Gioffrese.
L’avvio è dato da Lessing al Teatro Nazionale di Amburgo, in cui lo scrittore cerca la strada della riforma per rilanciare il repertorio tedesco a fronte della supremazia di quello francese. L’autore di Drammaturgia d’Amburgo (1769-69) si scontra con attori e direttori, fallisce il suo progetto, lo stesso teatro cittadino chiude i battenti. Più incisiva risulta l’azione svolta da Ludwig Tieck a Dresda: per undici anni (1831-42) svolge competenze letterarie tanto da promuovere Shakespeare, Calderon de la Barca, Schiller, Goethe, Kleist, partecipa alle prove e forma gli attori all’uso della voce e alla recitazione.
Funzioni queste assunte e approfondire da Bertolt Brecht che vede nel dramaturg l’anello di congiunzione tra la teoria marxista e la pratica teatrale incentrata sul teatro epico. Al Berliner Ensemble cade la distinzione tra dramaturg e regista per effetto di un lavoro marcatamente collettivo.

Nella scena inglese d’età vittoriana risalta l’actor-manager, sorta di Grande attore-capocomico alla maniera italiana ma oberato di lavoro al punto da delegare la ricerca e la lettura di nuovi copioni ai reader, embrione del literary manager, vero professionista teorizzato da William Archer e da Harley Granville Barker e praticato dagli spessi al Court Theatre di Londra (1904-07), e successivamente seguiti da Kenneth Tynan che al National Theatre, dove domina il gusto commerciale, introduce stabilmente le opere di Shakespeare, drammi moderni, nuovi testi e commedie straniere. Il suo contributo è adombrato dal direttore Laurence Oliver che non tollera la presenza del dramaturg alle prove, tanto da provocare la frattura nel 1967.

Il mestiere del dramaturg ha invece facile e immediata presa negli Stati Uniti grazie alla diffusione delle teorie di Archer e Barker che alimentano la fondazione del teatro nazionale; mentre nel secondo Novecento subentra la linea Lessing-Brecht. Fucina creativa diventano i campus, primeggia la Yale University, il dramaturg è regolarmente assunto nei teatri regionali come il Guthrie Teater.

La storia italiana parte dalla preistoria ottocentesca avviata da Gustavo Modena; attore risorgimentale in esilio dal 1840, dispone di embrionali bisturi del dramaturg nello studio psicologico dei personaggi teatrali e nella traduzione di Scribe e Dumas. Cioffrese parla di «fondazione drammaturgica» a proposito della Compagnia dei giovani (1843-46), perché i suoi componenti non hanno esperienza in campo teatrale; perciò, sottostanno all’«obbedienza militare» di questo grande preregista pedagogo.

Sorta di protodramaturg italiano è Arrigo Boito, prima per la collaborazione con Giuseppe Verdi per il quale elabora i testi di  Otello e Falstaff, impegnandosi anche nella ricerca degli attori e nella scelta dei costumi; poi con Eleonora Duse: è lui che avvicina La Divina a Shakespeare adattando Romeo e Giulietta e Macbeth, testi però mai recitati al contrario di Antonio e Cleopatra rappresentato dallo stesso Boito con attenzione filologica al mondo romano per quanto concerne i costumi e l’estetica dei personaggi.

L’ultima, riassuntiva e limpida osservazione sul dramaturg spetta all’autore di questo libro importante, ragionato e di grande rigore scientifico e metodologico. Scrive Cioffrese: «A seconda del contesto e del Paese, il dramaturg ha rivestito e riveste il ruolo di ricercatore eclettico, mediatore privilegiato tra gli altri professionisti coinvolti nella creazione scenica, lettore critico di testi e consulente nella loro scrittura, rappresentante del suo gruppo di lavoro, facilitatore della relazione tra questo e gli spettatori, esploratore di realtà teatrali via via cangianti (operistiche, danzanti, performative, installative…».
 

                         di Massimo Bertoldi

 

L’esperienza del teatro
Tessere cinquecentesche

di Marzia Pieri


Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2023, pp. 282

Il recupero filologico del teatro classico da parte dei dotti umanisti del Quattrocento e i successivi e sperimentali allestimenti di commedie latine, se in ambito storiografico costituiscono passaggi cruciali per l’invenzione del teatro moderno in età rinascimentale; viceversa, se analizzati nei loro contesti socio-culturali di produzione e fruizione, dimostrano un tortuoso processo di assimilazione. Incide il cambiamento in atto nella ricezione dello spettacolo: dall’eredità medievale-comunale propria della multiforme festività popolare, sacra e profana, si passa in modo niente affatto lineare alla definizione di un nuovo patto con il pubblico attraverso il rito della visione silenziosa nel chiuso della sala o in un ambiente opportunamente circoscritto.

L’obiettivo di Maria Pieri, trasversale alla ricostruzione storica delle molteplici forme della cultura dello spettacolo, è la puntuale ricostruzione di come si definisca nella prima parte del XVI secolo «questa nuova esperienza fisica, emotiva, intellettuale, con il disciplinamento sociale e le interiorizzazioni comportamentali che ne derivano», attraverso l’analisi de L’esperienza del teatro come si riscontra in importanti e nodali centri di cultura rinascimentale che, pertanto, diventano Tessere cinquecentesche simili a pezzi variopinti di un puzzle assai particolare.

Come in uno spettacolo teatrale in questo libro entrano ed escono di scena personaggi maggiori e minori calati in un’ambientazione scenografica mutevole, dal chiuso delle dimore signorili alle piazze popolari, alternando registri e codici espressivi, adottando soluzioni ora innovative ora conservative, inventando esperimenti riusciti e anche falliti: il tutto concorre a definire questo periodo una vera e propria fucina di idee destinate a emigrare nelle fantasie creative dei secoli successivi.

A Siena il teatro assorbe le voci della città: «recitare e fare musica – spiega la Pieri – sono un naturale prolungamento della vita civile in pubblico e in privato e presso tutti i ceti». Attraverso l’attività della Congrega dei Rozzi e degli Intronati si consolida una drammaturgia ricca di citazioni novellistiche, egloghistiche e cavalleresche a supporto di performances danzanti e pantomimiche simili a un teatro di varietà. È «una città in scena» nelle sue variegate coloriture popolari e aristocratiche.

Questo perché manca una corte egemone che invece opera nella vicina Firenze dove domina il moto «parlare e recitare». Anche se ferve la riscoperta del teatro classico, rimangono in auge giostre, trionfi, carnevali, sacre rappresentazioni che diventano strumento e cassa di risonanza del potere declinato anche nel linguaggio aulico proprio degli spettacoli allestiti nel chiuso dei sontuosi palazzi medicei. Perciò le commedie sono scritte su misura dei destinatari cortigiani che bene decodificano il fitto sottotesto, ritrovando in esso il tessuto dei rimandi cittadini. Non altrettanto succede ad un pubblico non fiorentino al cospetto della stessa commedia. Per esempio, Francesco Guicciardini chiede a Niccolò Machiavelli di riscrivere il prologo della Mandragola in vista di una rappresentazione a Faenza nel 1525 per il «poco ingegno degli auditori».

L’analisi del complesso rapporto tra la cultura di corte e l’adozione della commedia prima di derivazione plautina poi regolare, si concentra su Ferrara, Mantova, Milano e Urbino. Generalmente la verbosità della recitazione e la complessità della trama annoiano il pubblicò tanto che le cronache danno maggiore risalto alle buffonerie e alla vivacità degli intermezzi.
Il discorso non cambia a Venezia: da un lato l’umanesimo latino è relegato alla cerchia autoreferenziale degli eruditi; dall’atro lato lo spettacolo pubblico è ostentazione «di fasto e di prestigio in occasione di scambi di influenze con gruppi forestieri di mercanti e diplomatici presenti in città», sottolinea la Pieri che ricorda la presenza di prestigiosi attori da Zuan Polo a Zuan Cimador, da Ruzante a Francesco de’ Nobili detto Cherea, e di abili commediografi-stampatori quali Girolamo Ruccelli e Ludovico Dolce.

Pure a Roma – calamita per lo studio dell’antichità, perciò, assai visitata dagli umanisti – le recite in latino rimangono un fenomeno di nicchia, mentre riscontrano successo le commedie moderne in cui la città capitolina è in scena come nel testo di Retzato de la Locana Andaluza di Francesco Delicado oppure nella Propalladia di Torres Naharro.

Il viaggio nello spettacolo rinascimentale termina a Napoli, città plurilingue per la presenza del castigliano e del catalano che ritardano «la formazione di un teatro parlato e cantato, mentre il volgare non ancora illustre è relegato nell’ambito dei componimenti per musica d’occasione». La drammaturgia partenopea attinge, infatti, a egloghe, farse, novelle, scherzi, beffe, sbronze, siparietti comici. Indicativo in merito è Antonius firmato dalla raffinata penna di Giovanni Pontano.

“Diventare spettatore”, titolo dell’ultimo capitolo di questo libro intrigante e coinvolgente, costituisce il processo intorno al quale si consumano le esperienze umanistiche e rinascimentali che via via producono una netta separazione di ruoli tra l’attore e lo spettatore, notoriamente indisciplinato e rumoroso, pertanto non ancora educato alla concentrazione silenziosa. Si tratta di un processo lento e tormentato, indirizzato alla codificazione della fruizione moderna, sei-settecentesca che – conclude la Pieri – «sarà teatralmente cosmopolita e globalizzata intorno a un mercato dello spettacolo affollato, vivacissimo ed economicamente assai rilevante; al suo interno sarà il gusto degli spettatori a piegare il gusto delle poetiche con vantaggio per tutti».
 

                       di Massimo Bertoldi

 

 

Valentina Cortese
un breve secolo (1923-2023)

di Alfredo Baldi


Pisa, Edizioni ETS, 2023, pp. 156


«Il personaggio Valentina Cortese può sembrare semplice, ma in realtà è estremamente complesso. Viceversa può apparire enigmatico e intricato, mentre è di una schiettezza addirittura disarmante». Ne deriva la scelta, legittima e azzeccata, di dare voce all’attrice milanese attraverso «il narrare di sé, descriversi, raccontarsi». Così scrive Alfredo Baldi nell’Introduzione al suo bel libro Valentina Cortese un breve secolo (1923-2023) pubblicato da Edizioni ETS in occasione del centenario della nascita di questa indiscussa protagonista del cinema e del teatro.
I materiali raccolti – interviste e scritti vari della stessa Cortese – sono accorpati in una sequenza di capitoli disposti in ordine cronologico, nei quali si intrecciano le trame della professione artistica, le vicende della vita pubblica e privata costellata di episodi dagli effetti sismici.

Come l’anno 1940: la diciasettenne Valentina si innamora del direttore d’orchestra Victor de Sabata che aveva trent’anni più di lei: vive un «amore, nato da un’improvvisa inattesa magia, [che] ci aveva travolti in un viaggio di incandescenti emozioni che niente e nessuno poteva fermare», tantoché ne segue il trasferimento a Roma con il pretesto di frequentare l’Accademia di Arte Drammatica.
È Guido Salvini che le apre la strada al cinema facendola debuttare ne L’orizzonte dipinto al fianco di Ermete Zacconi. Nel periodo 1941-48 la Cortese si divide tra il grande schermo collezionando una decina di titoli, tra cui la partecipazione a La cena delle beffe dal dramma di Sem Benelli per la regia di Alessandro Blasetti, e il palcoscenico prima con Ettore Giannini (La signorina), poi con la Compagnia del Teatri delle Arti, per rivelare il suo talento nella compagnia fondata in ditta con Andreina Pagnani, Carlo Ninchi, Rossano Brazzi.

Altro anno cruciale: nel 1948 avviene il trasferimento a Hollywood dove si consuma il debutto nel cinema americano con I Corsari della strada diretto da Jules Dassin. Seguono altre pellicole di successo e l’esplosione dell’amore per Richard Basehart culminato nel matrimonio del 1951.
Al rientro in Italia il cinema rimane la principale occupazione (lavora con Michelangelo Antonioni, Vittorio Gassman) fino all’intenso rapporto, artistico e sentimentale, con Giorgio Strehler dal 1959 al 1972.

Dal debutto al Piccolo Teatro di Milano con Platonov e gli altri si susseguono spettacoli memorabili come El nost Milan (la povera gent) di Carlo Bertolazzi nel 1962 in cui la Cortese interpreta la tormentata Nina («con lei mi sono identificata, ho ritrovato me stessa, ho visto rafforzare i ricordi, le emozioni, le sofferenze della mia infanzia»), il goldoniano Arlecchino servitore di due padroni (1963), il pirandelliano I giganti della montagna nella parte della protagonista Ilse (1966) applaudita anche a Berlino da Romy Schneider «per 48 minuti» e in una replica romana da Aldo Moro («viene a salutarmi in camerino, era molto timido, mi fa i complimenti, mi dice poche parole, imbarazzato, io lo ringrazio»). Indimenticabile rimane Ljuba nel cechoviano Il giardino dei ciliegi (1974): l’attrice recita in modo elegiaco-malinconico, con pause e sfumature, registri espressivi velati e minimali («Il personaggio mi assomiglia, ha tanti miei difetti: butta via il denaro, è incosciente, apparentemente superficiale, leggero, infinitamente femminile e non riesce a staccarsi dall’infanzia […]. È continuamente in bilico fra la disperazione e l’allegria, fra la frivolezza e le lacrime»).

Si sommano altri grandi successi ottenuti con Gesù di Nazaret di Franco Zeffirelli (la Cortese interpreta Erodiade) che la dirige anche in Fratello Sole e Sorella Luna, con Effetto Notte di François Truffaut per il quale riceve la nomination per l’Oscar. A impreziosire il repertorio concorrono anche le tante e apprezzate partecipazioni radiofoniche.
Nel 1980 si celebra il matrimonio con il noto industriale farmaceutico Carlo De Angeli. Pur ridotti gli impegni teatrali, la Cortese nel 1983 regala al pubblico un’interpretazione sontuosa nella schilleriana Maria Stuarda al fianco di Rossella Falk per la regia dell’amico Zeffirelli. Si tratta dell’ultima grande prova artistica di una carriera luminosa restituita dal libro di Baldi in tutta la sua interezza e che si completa con la raccolta di undici interviste a personaggi molto vicini all’attrice tra i quali lo stesso Zeffirelli, Luca Barbareschi, Lando Buzzanca, Piera Degli Esposti, Eleonora Giorgi, Mario Monicelli, Piero Tosi.
Sono voci preziose che arricchiscono le nostre conoscenze della genuinità umana e sentimentale di questa grande e indimenticata attrice versatile, lieve e ironica.
 

                                     di Massimo Bertoldi

 

 

Gianna Giachetti, attrice. Intervista con il teatro

a cura di Enrico Zoi


Firenze, Leonardo Libri, 2023, pp. 102
 

Per Gianna Giachetti il teatro è il Teatro, là dove la lettera maiuscola significa «motore trainante ed esclusivo della sua esistenza», come sottolinea Fabrizio Borghini nella Postfazione a questo intrigante e appassionante volume Gianna Giachetti, attrice. Intervista con il teatro, a cura di Enrico Zoi.
Nata a Sesto Fiorentino nel 1935 e attiva sui palcoscenici italiani dal 1954 al 2018, annovera anche importanti esperienze cinematografiche. La narrazione di questo percorso artistico – ordinato in senso cronologico e basato su ricordi e aneddoti dal palco ai camerini, curiosità e profonde riflessioni – compone un quadro storico delle trasformazioni della vita teatrale e culturale italiana.

Pur figura di prestigio a fronte di un repertorio assai lusinghiero, dell’attrice colpisce l’umiltà artistica («ho sempre saputo di non avere una cultura ufficiale e di essere un’autodidatta e ho la consapevolezza di non essere un genio, ma un’artigiana seria e lavoratrice sì») declinata lungo una carriera assai luminosa a contatto con il teatro considerato «porta magica che si spalanca su tutta la storia dell’uomo».

Nell’intervista a Zoi le parole della Giachetti diventano una sequenza fotografica che immortala, attori, registi, spettacoli a partire dagli anni formativi presso l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, dove risulta allieva di Orazio Costa, al debutto in Ifigenia in Tauride nel 1957 recitando al fianco di Lilla Brignone ed Enrico Maria Salerno. Si prosegue con il trasferimento al Teatro Stabile di Torino dove Gianfranco De Bosio la inserisce, tra l’altro, nel cast del brechtiano Arturo Ui che al Teatro Valli di Roma irritò «i fascisti [che] con alcuni microparacaduti, dal loggione lanciarono nella platea topi vivi!».
Siamo all’inizio degli anni Sessanta durante i quali la Giachetti si esibisce con attori prestigiosi quali Oreste Lionello, Sergio Tofano, Franco Parenti, Lia Zoppelli, Annibale Ninchi, Corrado Pani. Inoltre colleziona altri spettacoli fondamentali, come Le tre sorelle per la regia di Giorgio De Lullo, accompagnati da un dinamico girovagare che la porta all’Aquila e al Teatro Stabile di Bolzano, fino al grande incontro con Romolo Valli e Tino Biazzelli nel biennio 1977-1978.

La morte di Luchino Visconti nel 1976 e di Valli nel 1980 è destinata a lasciare un segno indelebile. È vissuta come il declino di un’epoca: finisce la stagione dei Maestri e inizia quella delle nuove generazioni che «recidendo il tutto (la tradizione) con il motto “morte al teatro borghese”. Ma se togli le radici, togli l’anima», commenta amaramente l’attrice che continua l’attività fino al 1994 con Luigi Squarzina, Glauco Mauri, Pino Micol, Massimo Castri, per poi vivere una pausa di silenzio dalle scene fino al 2001. Si congeda definitivamente dal teatro nel 2016 con il pirandelliano “Il berretto a sonagli”.

In questa “Intervista con il teatro” c’è anche lo sguardo del mondo dell’attrice anziana secondo considerazioni amare relative anche al teatro: «Si sono fatte avanti orde di incompetenti, solo per vanità, perché è affascinante collocare il proprio “io” e la sua espansione, per cui tutti sono attori e tutte attrici, tutti politici e ministri». A monte di questa trasformazione, ancora oggi viva ed evidente, la Giachetti individua il declino del grande teatro borghese e, di riflesso, quello dell’attore di tradizione con l’avvento della drammaturgia postmoderno a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta.
Il risultato produce una sorta di dispersione e banalizzazione della cultura dello spettacolo che mortifica le abilità artistiche di «un numero enorme e tragico di persone affascinate dalla droga di “io farò, io regista, io qui, io là, cioè di vite rovinate che non faranno mai nulla».

Questo e altro sostiene Gianna Giachetti, attrice per nulla celebrativa di sé, sincera e diretta nell’avanzare critiche anche severe al teatro contemporaneo che non è più il suo Teatro.


                             di  Massimo Bertoldi

 

Top Girls
di Caryl Churchill

prefazione Luca Scarlini


Imola (Bo), Cue Press, 2023, pp. 72

 

«Maestra dei dialoghi sospesi, carichi di ambiguità, di sorprese, di sensi segreti»: in questo modo Luca Scarlini definisce la scrittura di Caryl Churchill riferendosi in particolar modo a Top Girls, uno dei testi della consacrazione assieme a Settimo cielo e L’amore del cuore della drammaturga londinese, nota anche per i radiodrammi di stampo marcatamente antiborghese, e ora rieditato da Cue Press per la traduzione dall’inglese Margaret Rose adottata per l’allestimento di Fondazione Teatro Due con la regia di Monica Nappo.

La commedia scritta nel 1982, si legge in una nota della compagnia parmense, «affronta in modo strutturale e teatrale molti temi diversi, fra cui l’ineludibilità del confronto con il modello maschile nell’esercizio del potere e le sue contraddizioni».

Le protagoniste di questo testo provocatorio e ironico sono cinque figure femminili del passato, provengono da diversi contesti e periodi storici sono raccolte, in una metaforica e immaginaria cena, intorno a Marlene, manager moderna che festeggia l’inaugurazione di un’agenzia di collocamento per donne. Attorno al tavolo di un ristorante, di sabato sera, si accomodano la papessa Giovanna attiva dall’854 all’856, Dull Gret dipinta da Peter Brugel il Vecchio, la poetessa e concubina dell’imperatore giapponese e poi monaca buddista Lady Nijo nel XIII secolo, Isabel Bird, scrittrice ed esploratrice tra ‘800 e ‘900, e Griselda, moglie obbediente raccontata da Boccaccio e Chaucer.

Le donne si confidano segreti, si raccontano sacrifici e conquiste ottenute all’ombra di una società severamente patriarcale e allineabili, in una declinazione contemporanea riconoscibile nel thatcherismo degli anni Ottanta, con le lotte e le sfide affrontate dalla stessa Marlene per conquistare una posizione di vertice.
Si sviluppa il gioco delle sfasature spazio-temporali che imprime continuità alla logica del potere connessa ai meccanismi del successo, come si consuma in questa situazione conviviale oppure nell’ufficio dell’agenzia di collocamento. Significativo è un colloquio tra Marlene e la giovane Janine alla quale mancano i requisiti professionali per poter lavorare nel mondo della pubblicità; il sogno di sgretola con violenza tagliente.

A completare lo sviluppo di questa commedia tutta al femminile entrano in scena ragazzine inquiete, altre donne arriviste, madri frustrate pronte a esplodere disegnate dalla penna della Churchill con fine realismo umoristico oscillante tra caricatura irreverente e satira amara lungo l’asse di un linguaggio fluido e dinamico che anima il problema di base di Top Gils: gli effetti dell’accettazione quasi riflessa dei modelli maschili nella carriera con connessa smania di potere, del resto così facilmente riscontrabili in esempi che anche oggi animano la scena politica nazionale e internazionale.

  
                            di Massimo Bertoldi

 

 

Arte e passione
Gli attori nel teatro europeo del XIX secolo

di Paola Degli Esposti


Roma, Dino Audino, 2023, pp. 192
 

Il titolo dato da Paola Degli Esposti, Arte e passione, contiene in sé la cifra connotativa de Gli attori nel teatro europeo del XIX secolo, come detta il sottotitolo di questo libro propositivo di una panoramica assai efficace e ragionata relativa ad un periodo di grandi trasformazioni, nella scrittura drammaturgica e nel mestiere dell’attore, secondo percorsi che si incrociano, si allontanano, si sviluppano di luce propria.
Si tratta di esperienze maturate in età romantica, o a esse legate, dalle quali si enucleano – secondo quanto afferma l’autrice - «diversi tipi di battaglie, politiche, culturali, artistiche, ideali», in precise aree geo-culturali.

Un clima battagliero e turbolento si respira sui palcoscenici francesi dalla rivoluzione del 1789 all’età napoleonica. Spicca l’estro innovativo di Francois-Joseph Talma, oscillante tra classicismo e preromanticismo tragico con soluzioni espressive vicine al realismo, che rapidamente fanno scuola e trovano in Mademoiselle Mars e Marie Dorval due eccellenti seguaci capaci di adattare il modello al linguaggio comico.
La tensione creativa mossa dalla volontà di cambiamento informa di sé anche la scena inglese a cavallo tra Sette e Ottocento: il fulcro è la rivalità tra Philip Kemble – attore formalista, tecnico, poco emotivo – ed Edward Kean, interprete tragico e romantico, dall’atteggiamento ferino e dalla gestualità animalesca.

Nell’area tedesca dominano i modelli offerti prima da Ludwig Schröder con la sua ricerca verso la verosimiglianza armoniosa tra gesto e dizione derivata dallo studio attento del personaggio e del testo; poi da Ludwig Devriert, figura iconica del romanticismo molto apprezzata da ETA Hofmann per l’equilibrio espressivo nell’orchestrazione del linguaggio comico e drammatico, come evidenziato nel suo celebre Shylock dello shakespeariano Mercante di Venezia.

Preziosi contributi di rinnovamento arrivano anche dall’Italia grazie all’operato di Gustavo Modena, attore dal pensiero mazziniano, convinto sostenitore della funzione educativa del teatro, sensibile ai coevi orientamenti europei tanto da preludere alla figura del regista e anticipare i tratti del Grande Attore.
Altrettanto fondamentale è l’attività svolta da Adelaide Ristori sostenuta dalla «partecipazione sentimentale» verso il personaggio del testo, per raggiungere la bellezza artistica svincolata dal verismo considerato «incolore, freddo». Di non trascurabile importanza è il tentativo di scardinamento della compagnia di tradizione attraverso una attenta e meticolosa attenzione verso le abilità attorali dei componenti, come sperimentato nella Compagnia Drammatica da lei stessa diretta.

Se in Italia il teatro del secondo Ottocento risulta dominato dal Grande Attore, in gran Bretagna risulta centrale l’actor-manager, ossia lo stesso attore capocomico impegnato nella messinscena e nella gestione amministrativa e promozionale della compagnia, che la Degli Esposti riconosce nell’attività dell’intraprendente Henry Irving.

Il primo Grande Attore analizzato è Ermete Novelli che si caratterizza per l’adozione di un’improvvisazione derivata dallo studio meticoloso delle peculiarità interiori del personaggio, per arrivare ad una recitazione, sobria frutto di «manipolazione artistica dei dati reali».
Ci si avvia verso il Novecento con due attori shakespeariani di grandi doti tecniche e dotati di un grande bagaglio mimico-gestuale, uniti dalla drammaturgia delle emozioni declinate nell’arte scenica pur con esiti contrapposti: da un lato si anima il classicismo filtrato nel positivismo di Tommaso Salvini, dall’altro lato il romanticismo di Ernesto Rossi, attore molto apprezzato da Josef Kainz, stella del viennese Burgtheater caratterizzata da una recitazione limpida, vicino al naturalismo dei Meiningen ma intrisa di tratti nervosi e elettrici.

Il cerchio si chiude con due fondamentali e divergenti signore della scena, Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse, che aprono definitivamente le porte al Novecento, con le loro inquietudini e utopie, in un dialogo artistico oscillante tra rottura e continuità con le eredità del teatro ottocentesco radiografato e raccontato da questo intrigante contributo della Degli Esposti.
 

                              di Massimo Bertoldi  

Teatro III

di Marivaux

a cura di Paola Ranzini
prefazione di Monica Pavesio e Stephane Kerber

Lo stratagemma riuscito
Il quiproquo
La gioia imprevista
L’isola degli schiavi
L’isola della ragione
La colonia

 

(Imola Bo), Cue Press, 2023, pp. 262

La pubblicazione di Teatro III di Marivaux che segue i primi due volumi editati nel 2021 e 2022, risponde ad un ambizioso e prezioso progetto di Cue Press finalizzato alla divulgazione del repertorio, conosciuto in Italia solo attraverso poche e irreperibili traduzioni, di questo grande commediografo francese molto legato al Théâtre Italien di Parigi, dove nel Settecento si esibivano le compagnie dei Comici dell’Arte e dai quali apprese lezioni stilistiche e tematiche.

Il volume in questione è diviso in due blocchi testuali. Il primo occupa tre opere scritte per gli attori della Comédie Italienne guidata da Luigi Riccoboni e catalogate come pièces d’été, ossia rappresentate, anche se con poco successo, durante i mesi estivi. Lo stratagemma riuscito (1733), Il quiproquo (1734) e La gioia imprevista (1738) condividono la modalità compositiva incentrata sull’esplicazione dei meccanismi della finzione per meglio indirizzare la concentrazione dello spettatore verso le peculiarità dei personaggi animando, in questo modo, una sorta di autorappresentazione, come spiega nei dettagli Monica Pavesio nell’Introduzione.

Ne Lo stratagemma riuscito si anima l’intreccio comico della doppia infedeltà praticata dalla Contessa e dalla Marchesa e, nella sfera dei servi, da Lisetta, fidanzata di Arlecchino, che accetta il corteggiamento di Frontino.
All’epoca conobbe solo tre rappresentazioni Il quiproquo, commedia ricca di equivoci, travestimenti e di scambi di persone tra due sorelle anche loro coinvolte nelle dinamiche dei corteggiamenti, prima caotici e ambigui poi a lieto fine.
Il protagonista de La gioia imprevista è un giovane provinciale arrivato a Parigi con il servo Pasquino per comperare una carica nobiliare e per cercare moglie, poi trovata nella bella Costanza, dopo tante complicazioni provocate tra l’altro dal padre che, mascherato, intende controllare di nascosto il figlio.
Spetta a Paola Ranzini la meticolosa ricostruzione della fortuna e interpretazione scenica dal ‘700 al oggi di queste tre commedie che risultano assai controverse in sede critica e alle quali mancava la versione italiana ora offerta dalla traduzione della Pavesio.

La seconda parte di Teatro III contiene il cosiddetto trittico delle Isole, ovvero i «mondi alla rovescia, isolotti di pensieri, spazi di immaginazione, fantasie politiche» di Marivaux, secondo quanto si legge nella luminosa introduzione di Stephane Kerber. Ne L’isola degli schiavi (1725) domina il tema dell’uguaglianza sociale come vissuta da Arlecchino e dal padrone Ificrate sbarcati su un’isola dove tutto è lecito, compreso il rovesciamento dei ruoli tra uomo e donna; il fondamento della ragione informa di sé L’isola della ragione (1727), in cui otto viaggiatori europei entrano in contatto con un’altra civiltà e dovranno esibire dimostrazioni di ragioni e bontà.

Queste Isole sono semplici divertimenti con elementi carnevaleschi oppure trasmettono messaggi e istanze politiche? «Sono certamente l’uno e l’altro. E molto altro ancora», risponde in merito Kerber ricordando l’educazione morale e sentimentale soprattutto presente tra le pieghe narrative de L’isola degli schiavi. Non solo: nella celebre edizione del 1994 Giorgio Strehler, cui spetta il merito di aver diffuso con successo la commedia in Italia, aveva creato un gioco finemente allusivo per fantasticare, pur con piglio storico-filologico, «il suo primo allestimento da parte di una compagnia di comici italiani attivi a Parigi», ricorda Paola Ranzi nelle pagine dedicate alla ricostruzione storico-artistica dei tanti allestimenti che si sono susseguiti fino ad oggi, compresi quelli de L’isola della ragione, opera meno fortunata, e de La colonia inedita per l’Italia fino alla recente messinscena curata da Beppe Navelli a Firenze per il  Teatro della Toscana nel novembre-dicembre 2022.   

Lo stesso regia, che aveva allestito nel 2015 Il trionfo del dio denaro, si sofferma sui contenuti della commedia ripercorrendone la trama e soffermandosi sullo sfortunato debutto del 1729 cui seguì, come raccontano le cronache dell’epoca, un Divertissement in cui «si cantano i vantaggi che l’amore offre alle donne rispetto agli uomini per ricompensarle del rifiuto di associarle al governo». Composto da Charles-François Pannard e accompagnato dalla musica di Jean-Joseph Mouter, il testo e lo spartito chiudono questa corposa e fondamentale raccolta marivaudiana che restituisce al drammaturgo francese tutta la sua grandezza creativa alla quale manca ancora adeguata visibilità sui palcoscenici italiani.

Difatti si contano sulle dita di una mano i testi allestiti: oltre a quelli citati, si ricordano le tre rappresentazioni de Il gioco dell’amore e del caso per le regie di Massimo Castri nel 1993 (cui compete anche La disputa nel 1992), di Antonio Syxty nel 2001 e di Giuseppe Manfridi nel 2012; de Gli amanti sinceri da L’assemblea degli amori e I sinceri (regia di Claudio Beccari, 1997) e de Il principe travestito a cura di Cristina Pezzoli nel 1997.
Infine ha il sapore della scommessa pionieristica la rappresentazione da parte di Marco Bernardi nel 1988 di Arlecchino educato dall’amore di cui è protagonista un Arlecchino non più maschera scanzonata ma figura galante e scaltra, mossa da ragionamenti di matrice illuministica nel rapporto con la Fata di cui è innamorato. 
 

                                    di Massimo Bertoldi

 

Libussa

di Franz Grillparzer
traduzione e cura di Fabrizio Cambi

Sesto San Giovanni (MI), Mimesis edizioni, 2022, pp. 128

«Non volete essere più un tutto / ma solo parti che chiamate città, / lo stato che inghiotte i singoli, /soppesando, invece del male e del bene, l’utile e il vantaggio / e stima il vostro valore secondo il prezzo»: sono parole, amare e visionarie, estratte da Libussa, tragedia di Franz Grillparzer composta tra il 1822 e il 1848, allestita e pubblicata postuma, e ora per la prima volta tradotta in italiano da parte di Fabrizio Cambi, germanista e docente di letteratura tedesca presso l’Università di Trento prematuramente scomparso nel 2021.

Libussa, principessa boema, una delle tre figlie del mitico principe Krokus, è legata al mito della fondazione di Praga nel 730; soprattutto è espressione di un matriarcato agricolo autosufficiente e restio al progresso. La svolta destabilizzante avviene quando si sposa con Primislaus, giovane e orgoglioso contadino al quale progressivamente si sottomette fino a concedergli il potere regale, prontamente tradotto nella distruzione della sacra foresta dove sorgerà Praga, con le sue industrie e le attività commerciali. Si tratta dello stravolgimento dell’ordine matriarcale a favore di quello patriarcale necessario per il trionfo della modernità propria della civiltà urbana.

Ravvedutasi del proprio errore, Libussa fugge nel bosco sacro e si purificata spiritualmente nel grembo della natura, ritorna al castello e, prima di lasciarsi morire, pronuncia parole apocalittiche e disperate, che contengono in sé una vaga speranza di una messianica rigenerazione del mondo: «Allora verrà il tempo che ora sta finendo, / il tempo dei reggenti e di chi è capace. / Il sapere e l’utile si separeranno / e includeranno il sentimento».

La profezia in chiave antimoderna di questa fratellanza universale, in armonia con il sapere e la logica del profitto, anima una proiezione visionaria inquietante: «Ma se non sarà così, la notte graverà pesante sulla terra / e prima del mattino passerà ancora molto tempo». Di fatto questi versi declinano il pensiero di Grillparzer in merito all’età metternichiana in cui vive e opera, tiene in considerazione «la situazione dell’Impero Austro-Ungarico rivendicandone – come acutamente spiega Cambi nell’Introduzione al volume in questione – l’antimodernità e la negazione del progresso di una società tumultuosamente industrializzata».

Il principio della conservazione contro il cambiamento inteso como sviluppo nefasto e incontrollato della modernità tecnologica costituisce, pertanto, il perno tematico di questa Libussa firmata dal più grande scrittore austriaco dell’Ottocento e definito da Joseph Roth «rivoluzionario conservatore». Trapela la dolorosa percezione della dissoluzione di un mondo, ossia della cosiddetta finis Austriae, avviata dal declino di Metternich.

Particolare è, infine, la storia della fortuna scenica di questa tragedia. Il primo atto fu presentato a Vienna nel 1840 pare su sollecitazione imperiale, ottenendo i favori di pubblico e di critica, mentre la rappresentazione completa dell’opera nel 1874 al prestigioso Burgtheater, due anni dopo la morte di Grillparzer, ottenne consensi assai modesti malgrado la presenza in scena di due interpreti di grido quali Adolf Sonnenthal nel ruolo di Primislaus e Charlotte Wolter nella parte di Libussa.
Seguirono, soprattutto a partire dagli anni Quaranta del Novecento, importanti riprese nei maggiori teatri austriaci, da Vienna a Graz e da Innsbruck a Salisburgo, per iniziativa di autorevoli registi, tra i quali spicca il nome di Peter Stein.
 

                                  di Massimo Bertoldi

 

 

Il teatro espressionista

di Paolo Quazzolo


Roma, Carocci editore, 2023, pp. 127
 

Il teatro espressionista di Paolo Quazzolo è un libro importante e di pregevole qualità divulgativa: da un lato contiene l’argomento del titolo in una lucida ed esaustiva monografia che colma un vuoto temporale nell’ambito della storiografia italiana ferma al lavoro di Paolo Chiarini  del 1959 (Il teatro tedesco espressionista); dall’altro lato, all’analisi letteraria del repertorio testuale fa seguire preziose informazioni relative agli allestimenti di questo movimento circoscritto all’area tedesca, dettato dalla ribellione verso la società, la morale, e i coevi linguaggi teatrali, che nella sua fase iniziale attinge idee e suggestioni dal romanticismo e dallo Sturm und Drang, da Georg Büchner e August Strindberg, fino a Frank Wedekind.

Movimento di avanguardia e di rottura, l’Espressionismo teatrale assimila e interpreta tematiche dettate dalle trasformazioni storiche e socio-politiche in atto nella società tedesca di riflesso alla Prima guerra mondiale. In merito Quazzolo accorpo le esperienze teatrali in tre distinte fasi.   

Nella prima (1907-1914) l’attenzione cade principalmente sul repertorio di Carl Sternheim, Oskar Kokoshka autore del primo dramma espressionista rappresentato nel 1919, Assassinio, speranza delle donne, e di Reinhard Johannes Sorge il cui dramma, Il mendicante, una sorta di manifesto di ribellione all’eredità delle generazioni passate che diventa, assieme all’opera di August Stamm, scontro crudele tra padri e figli. In merito è indicativo anche Il figlio (1913-14) di Walter Hasenclever, altro autore fondamentale morto suicida in un Lager. La sua scrittura alterna verso e prosa, la struttura del testo si presenta a stazioni, la trama è emblematica: il figlio si ribella all’educazione severa del padre, fugge di casa, dopo è poi riportato a forza tanto da reagire minacciando con una pistola il genitore il quale muore fulminato da un arresto cardiaco.

A questa fase  seguono gli anni della Grande guerra (1914-18) alla quale il teatro espressionista risponde con la severa condanna e l’antimilitarismo. Molti esponenti del movimento vi partecipano, diversi muoiono in trincea. Spicca Battaglia navale di Reinhard Goering, testo più volte allestito nel 1918, segnatamente da Max Reinhardt con una regia di stampo realistico e con la partecipazione di attori del calibro di Paul Wegener e Werner Krauß. Tuttavia, lo spettacolo stride con il taglio marcatamente espressionista del testo, aspetto questo molto ricorrente negli allestimenti dell’epoca.

Parricidio di Anton Bronner (1915), uno dei testi più violenti, provoca scandalo e dure reazioni nel pubblico per il messaggio di incitamento alla ribellione contro il potere e le istituzioni che ritorna anche nella produzione di Georg Kaiser, drammaturgo attivo tra la Grande guerra e gli anni successivi. La sua poetica vira verso il socialismo, come in Gas I e Gas II in scena fino ai primi anni Trenta dopo il debutto a Francoforte, città di fatto culla dell’Espressionismo seguita da Berlino dove opera il regista Leopold Jeßner, protagonista assoluto della terza e conclusiva fase al quale Quazzolo dedica uno specifico capitolo soffermandosi sull’utilizzo innovativo della “Stufenbühne”, la scena a gradini adottata in spettacoli epocali come Wilhelm Tell di Schiller, Der Marquis von Keit di Wedekind e lo shakespeariano Richard III.

Con l’espressionismo politico di Ernst Toller, che culmina nel capolavoro Hoppla, wir leben!, si entra nell’ultima fase del movimento. Il teatro si riavvicina ad «ad uno stile più realistico» e sul versante della messinscena si assiste ad una indiscussa centralità del regista, evidente in Erwin Piscator.

Sul declino dell’Espressionismo incidono molti fattori congiunti ai cambiamenti socio-culturali interni alla società tedesca, tra i quali il Total Theater di Walter Gropius, il fondatore del Bauhaus, e l’affermazione del teatro politico di Brecht, per concludere con l’avvento nel Nazismo. «La storia di molti artisti attivi all’epoca di Weimar – ricorda Quazzolo – è tristemente segnata da licenziamenti, fughe, esilio se non addirittura da drammatici suicidi». Si chiude definitivamente il cerchio.
 

                                  di Massimo bertoldi

 

 

 

Giallo e nero

di Umberto Gandini


Torino, Robin Edizioni, 2022, p. 149
 

Giornalista di razza dalla schiena diritta e dalla penna raffinata, traduttore pluripremiato, critico teatrale seguitissimo, apprezzato scrittore di gialli, Umberto Gandini ha lasciato in Alto Adige –andandosene nel marzo del 2021 a pochi mesi dalla scomparsa dell’amatissima moglie – una importante eredità culturale: il suo esempio ai colleghi che lo hanno affiancato per anni al quotidiano “Alto Adige” e per una breve parentesi al Giorno, le dozzine di romanzi testi teatrali tradotti dal tedesco e firmati da autori prestigiosi quali Thomas Bernhard, Walter Benjamin, Werner Fassbinder, Walter Moers, sette romanzi gialli usciti per i tipi di Sperling Kupfer e Robin Edizioni.

Una eredità che si è arricchita nei mesi scorsi, a sorpresa, di un romanzo postumo: tra i files del suo computer il figlio Leonardo ha rinvenuto alcuni racconti inediti e ha dovuto insistere davvero poco per convincere l’editore Robin a pubblicarli assieme a un monologo già finalista a un premio letterario nel 2014 e ad altri racconti coi quali aveva collezionato premi e segnalazioni. Si tratta di un assortimento di inediti e di scritti già conosciuti ma mai pubblicati, riuniti in un volume intitolato Giallo e nero e inserito da Robin nella collana Giraffe Noir. Con una piccola ma preziosa anteprima: a poche settimane dalla sua scomparsa, il figlio di Umberto aveva regalato un primo file al giornale “Alto Adige”, che aveva così pubblicato la storia di un geniale spacciatore di biglietti per saltare le fila nelle code all’ufficio postale.

 Chi conosceva il Gandini cronista di razza, editorialista senza peli sulla penna, rispettatissimo critico teatrale, aveva già scoperto nel Gandini pensionato un giallista pieno di ruvida ironia, capace di sbozzare personaggi di gran profilo come l’investigatore Marlòve. A quell’improbabile detective privato coi suoi modi spicci e con la “licenza” assai poco ufficiale di scandagliare la cronaca nera, lo scrittore aveva dedicato nel 2009 Le indagini abusive di Marlòve, investigatore precario, con cui aveva vinto il premio Giallo Limone, e Tutte le indagini abusive di Marlòve nel 2016.

In questa nuova raccolta di racconti non c’è più Marlòve ma gli investigatori sono ancora precari e talvolta involontariamente buffi, mentre il resto della fauna umana che popola queste piccole storie più divertenti che paurose sono individui non meno precari e improbabili, eppure umanissimi e realistici. Con questi racconti rimasti in parte nella memoria del suo computer e dei quali non aveva parlato ancora con nessuno e con nessun editore, Umberto Gandini ci racconta otto storie fra giallo e nero di cui almeno cinque ambientate in Alto Adige. E questo è un valore aggiunto, per il lettore locale. Per quanto riguarda il titolo, va detto poi che il giallo prevale sul nero, nel senso che Umberto Gandini amava la letteratura gialla ma evitava lo splatter, il sangue, insomma. Tanto che il suo giallista preferito era l’americano Stuart Melvin Kaminsky, un modello al quale si era ispirato e col quale condivideva il fatto di intingere la penna anche nell’ironia oltre che nella suspense. Gli anni di cronaca giudiziaria e di nera nei quali Gandini si era formato prima di curare le pagine quotidiane di Interni-Esteri e di Cultura, gli avevano lasciata intatta e fertile la passione per quei piccoli intrighi di provincia, per quei minuscoli ma molto umani personaggi protagonisti oppure vittime di Carabinieri che spesso sembrano usciti dalle classiche barzellette.

In questa raccolta postuma, l’intreccio del primo racconto, La schedina, è un meccanismo perfetto come quelle commedie francesi (alla Feydeau) che Gandini applaudiva in teatro. Meccanismi che l’autore conosceva alla perfezione, dopo cinquant’anni di frequentazione di testi teatrali e di spettacoli. Si tratta di una vicenda che, con una sceneggiatura irrobustita, diventerebbe una irresistibile commedia noir anche al cinema: due coniugi anziani cercano di fregarsi a vicenda in una escalation di colpi di scena che alla fine vede buggerati entrambi, anche se con diversi gradi di fregatura.

Entriamo poi in territorio altoatesino con il secondo e con il terzo racconto: il primo, Zio Ilario, è un noir che sfocia in farsa, tutto ambientato sulla scena di un delitto con sorpresa finale. Il secondo, Sporco cane, è ambientato in centro a Bolzano e coinvolge i carabinieri di via Dante costretti a risolvere il caso di un pregiudicato che dovendo entrare in galera molla il cane a una vecchietta di passaggio. Magistrale, qui, la descrizione del personaggio della vecchia e delle sue ansie. Un piccolo capolavoro psicologico è poi Riscriverà, protagonista un uomo di una diffidenza maniacale alle prese con una lettera che presuppone possibili imprevisti e che dunque va maneggiata per l’appunto, con diffidenza... Ne La lezione di Mao, che forse non è la migliore delle otto storie, Gandini ci trasferisce in Bassa Atesina per risolvere il mistero di un cadavere scomparso, in un intreccio piuttosto complesso. In Misure di sicurezza, il protagonista è uno di quegli improbabili rapinatori che l’autore faceva muovere con sgangherata imperizia anche nei romanzi.
 

                                   di Fabio Zamboni

 

Tennessee Williams
Modernismo in t.shirt e rinnovamenti del teatro

di Stanley E. Gontarski


Imola (Bo), Cue Press, 2022, pp. 132

Mancava in Italia un saggio monografico dedicato a Tennessee Williams, fondamentale autore noto per commedie accompagnate da allestimenti importanti come Lo zoo di vetro, Un tram che si chiama desiderio, Improvvisamente l’estate scorsa, La rosa tatuata. Colma la lacuna Cue Press con la pubblicazione di un volume molto interessante a appassionante, Tennessee Williams Modernismo in t.shirt e rinnovamenti del teatro compilato da Stanley E. Gontarski, apprezzato scrittore, drammaturgo, direttore teatrale e regista.

L’obiettivo della ricerca è dichiarato con esplicita chiarezza: «estende[re] la rivalutazione di Tennessee Williams per contrastare l’opinione diffusa secondo cui il suo lavoro sarebbe caduto in un precipitoso declino negli anni Sessanta, quando il naturalismo cui era associato, non sempre per scelta sua, fu sostituito da innovazioni e sperimentazioni più europee, meta-teatrali, e quando la cultura vide una ricalibratura dinamica del desiderio sessuale e dei suoi costumi».

A guidare le interpretazioni testuali secondo i codice linguistici del teatro e a spareggiare le sorti storiche del repertorio dello scrittore americano interviene la contestualizzazione socio-cultura della ricezione di personaggi disegnati senza filtri e finzioni, immortalati nelle loro pulsioni erotiche e passioni, nelle paure e i desideri, con i loro incubi e i loro limiti anche fisici (Laura de Lo zoo di vetro è zoppa). Soprattutto si proiettano nel perimetro di se stessi prima di relazionarsi alla realtà, insidiosa e complicata.
Perciò i temi trattati, che spesso hanno attivato la censura, risultano trattati in modo autentico e con feroce realismo: l’alcolismo, il sesso e l’omosessualità, la perversione e i disagi mentali non sono accessori letterari descrittivi, assurgono invece a filtri narrativi attraverso un linguaggio privo di mediazioni, vitale, violento e palpitante, che si sostanzia in una vetrina di personaggi genuinamente perdenti, solitari e controversi, senza presente e senza futuro ma sostenuti da autentica vitalità.

Nel momento in cui queste figure diventarono soggetti cinematografici o teatrali provocarono scalpore lasciarono un segno indelebile nel perbenismo e nella morale dominante. È il caso dello scandalo prodotto da Marlon Brando nel 1947 quando interpretò la parte di Stanley Kowalsky in Un tram chiamato desiderio,  indossando una maglietta a maniche corte aderente e sudata e recitando anche a torso nudo: si rovesciava l’idea di esibizione del corpo, di norma scenica, declinato al femminile e si affermava la mascolinità come espressione di erotismo e di oggetto di desiderio. Si infrangeva un tabù e si dimostravano le potenzialità del teatro e del cinema di procedere in quella direzione e a questo, nell’ombra silenziosa della lezione di Williams, lo spettacolo degli anni Sessanta e Settanta aggiunse la contestazione.

In parallelo inizia la seconda fase creativa del drammaturgo americano. Al realismo subentra un percorso sperimentale (The two-character play, Clothes for a summer hotel) che lo avvicina a Beckett, come pare alludere e indicare il titolo di una commedia dell’epoca, Slapstick tragedy.
Forse condizionata dall’immagine dell’uomo Williams – dichiaratamente omosessuale e vittima di frequenti crisi depressive sedate con abuso di alcol e barbiturici – oppure perché autore di una pungente rappresentazione della società (americana), il suo declino è rapido e inesorabile, mentre in Europa una maggiore considerazione è riscontrabile a partire dagli anni Ottanta, dopo la sua morte nel 1983 a New York.
È l’esatto contrario dell’andamento americano. In merito Gontarski analizza anche i contributi italiani ricordando le regie di Elio De Capitani e Antonio Latella.

Da questa biografia di agile nella lettura, impreziosita da un accurato apparato iconografico e da una ricca e aggiornata bibliografia, emerge il profilo a tutto tondo di un grande drammaturgo, inquieto e geniale che seppe stravolgere il linguaggio teatrale del secondo Novecento, al quale molto percorsi di avanguardia e di ricerca gli sono consapevolmente o inconsciamente debitori.

Sottoforma di postilla piace, infine, ricordare la messinscena pionieristica de Lo zoo di vetro da parte di Fantasio Piccoli, fondatore e direttore del Teatro Stabile di Bolzano, nella stagione 1959-1960 con la partecipazione di Armida Gavazzeni, Giaco Giachetti, Lucia Romanoni e Alberto Terrani.
 

                                    di Massimo Bertoldi

 

Todos caballeros

di Lucio Giudiceandrea


Merano, Edizioni Alphabeta Verlag, 2022, pp.143

Lucio Giudiceandrea, giornalista e saggista, noto per il suo Spaesati. Italiani in Südtirol del 2006, si cimenta qui con un’opera di narrativa. Todos caballeros, scritto in una prosa pertinente, realistica, elegante, si incentra su una figura storica di alto prestigio, l'imperatore Carlo V, che aveva coltivato un sogno ambizioso, nel lontano Cinquecento: portare la pace nella Europa dilaniata da lotte politiche, militari religiose e restaurare la supremazia dell'impero asburgico, del sacro romano impero.

Impresa disperata, allo sbocciare dell'età moderna, con le insanabili divergenze e varietà di interessi e scontri egemonici in campo, tuttavia i destini incrociati delle tante vicende potevano anche dare l'illusione di una possibile felice sintesi, se si fosse presentata l'occasione. 
Il sogno naufraga e con ciò il disincanto di Carlo V imperatore si fa tangibile e sfocia in una sorta di rassegnato abbandono della partita. Di fronte ai meschini intrighi e alle egoistiche particolari pretese di favori e titoli dei vari notabili di Alghero, manda tutti al diavolo gratificandoli, tutti, del titolo ambito di cavalieri: «Todos caballeros!».

L'autore non nasconde la comprensione e forse la simpatia verso questa lucida sfiducia che assale l'imperatore, peraltro persona di non eccelse virtù, ma a suo modo lungimirante e forse sincero nel desiderio di svolgere davvero una missione storica in cui crede. E il lettore non può non vedere in controluce un analogo, quasi cinico, pessimismo che può assalire l’uomo d’oggi dinanzi alla fine delle ideologie, al caos della postmodernità, al disincanto dinanzi alle anche più belle utopie, che pure erano realtà vissuta solo vent'anni fa. Disincanto e talvolta anche benevolo scherno che comunque fanno parte degli atteggiamenti ben noti dell'autore anche verso i vari fiduciosi "credenti" di ieri e di oggi...

La scelta del perché di questo personaggio e di questo contesto storico per raccontare il suo apologo sulla storia umana Giudiceandrea non ce la dice, forse ha a che fare con la dimensione "tedesca" di gran parte dei fatti descritti, che lambiscono in qualche occasione anche il territorio tirolese e il contatto con gli intrighi delle corti italiane, luogo ben noto di corruzione e di poca serietà, (ieri come oggi, sembra dire anche qui Giudiceandrea). In ogni caso la rappresentazione dei tempi, degli ambienti, dei costumi, della gente è riuscita in modo felice, e la lettura scorre appassionante in ciascuno dei quattro quadri in cui sono colti altrettanti momenti della vita di Carlo V.

La vera morale della storia è forse nel colloquio con il precettore di corte che forma il giovane nobile e gli dà la traccia etica per capire come si muove il mondo, indicandogli le leggi ferree della politica. Ma anche negli altri capitoli si intravede assai bene il mondo morale, il pensiero, la psicologia dell'imperatore.

Ecco dunque gli incontri e gli eventi narrati, così come il nostro autore li ricostruisce con la fantasia e li disegna annodando con maestria le fonti storiche e la fantasia letteraria; da notare che le quattro scene sembrano corrispondere ad "atti" teatrali, con indice dei personaggi e dialoghi che acquistano un ritmo teatrale oltre che narrativo.

La prima scena riguarda la dieta di Worms del 1521, con diplomatici e guardinghi incontri coi principi tedeschi, legati pontifici e il monaco ribelle, Martin Lutero. La seconda è il momento della incoronazione a Bologna nel 1530. La scena terza ci porta nel mezzo della cruzada, con l'assedio di Algeri e la sconfitta del turco Barbarossa, apoteosi della vittoria e della sperata pax christiana imposta in Europa. La quarta scena vede il sovrano già quarantenne in Alghero, di passaggio verso Maiorca, osannato dalla nobiltà catalana e dai signori sardi, che in realtà vogliono solo farsi insignire dall'imperatore del titolo di cavaliere. L'imperatore stanco, colpito da dissenteria, vaneggia anche per una pozione ricevuta che gli fa vedere la vera realtà dei propri sogni infranti. L'autore gioca in tutto il romanzo con la storia, una partita che non ha regole fisse («il mondo vero non ha regole, ogni situazione è unica e irripetibile...») a differenza della partita che si gioca al tavolo degli scacchi, dato che l'imprevisto, come ricorda Braudel, muove le sue mosse.  E non a caso il contrappasso con la storia ritorna anche nell'epilogo, dove in due paginette si elencano freddamente gli avvenimenti che smentiscono l'immagine di sé e i sogni di gloria di Carlo V.

Il merito di Giudiceandrea è quello di essere penetrato nella psicologia dell'uomo e di averne immaginato i sentimenti, le debolezze e le volontà e di avercene dato così il ritratto artisticamente più vero.
 

                                di Carlo Bertorelle

 

Conversando con Baruch

di Don Paolo Zambaldi

Verona, Gabrielli editori, 2022, pp. 150


In questo saggio, che non è solo un saggio, il giovane parroco di varie parrocchie bolzanine, soprattutto periferiche, impegnato con Der Weg-La Strada, riattualizza, senza banalizzarlo, il pensiero di Baruch Spinoza (1632-1677), filosofo olandese di origini ebraico-portoghesi, che anche al liceo spesso si liquida brevemente, sottolinea Zambaldi (ma anche all’università, corso di laurea in  filosofia, non va molto meglio, dato che chi scrive ricorda, a metà degli anni 1970, a Firenze, solo un corso, di Cesare Vasoli, in tema), colpito da un terribile Cherem (scomunica, in ebraico) per le tesi contenute nelle sue opere (il sacerdote-studioso ha utilizzato soprattutto il Tractatus theologico-politicus, l'Ethica more geometrico demonstrata e l'Epistolario).

Il Seicento in Olanda era un secolo di guerre, di controversie (senza voler considerare in particolare la Guerra dei Trent'Anni, che investì tutta l'Europa), di carattere religioso, ma anche politico, e in questo senso Spinoza, escluso dalla sinagoga, ma ebreo sefardita (di area iberica), ma in rapporto anche con ashkenaziti (di area europea centro-orientale), con cristiani cattolici ed evangelici, soprattutto con studiosi e filosofi, nonché teologi, risulta un'eccezione, un pensatore unico, che solo per errore - ma anche per una consapevole volontà di emarginazione - è stato relegato nel ruolo di scomodo outsider.

L'autore ha opportunamente scelto una via non prettamente trattatistica e saggistica nell'accezione moderna, quella del dialogo (scelta da Platone ma anche dalla filosofia e teologia rinascimentale, pensiamo anche a Giordano Bruno, al cui panteismo Spinoza è stato spesso accostato), ma potremmo anche parlare di “intervista immaginaria”, dato il gap temporale che separa il 1600 dagli anni 20 del secondo millennio. Con domande rivolte a Baruch (impropria e mistificante la traduzione del nome con Benedetto, che pure traduce letteralmente l'originale ebraico), don Paolo focalizza alcuni punti chiave: il concetto di Dio svuotato da ogni antropomorfismo, sui cui le religioni positive si sono fin troppo comodamente adagiate, per «catturare fedeli», spaventandoli con diavoli e «condanne eterne» “di tipo simil-giudiziario, quasi Dio (Yahweh) fosse un supermagistrato...

Se il Dio “personale” (ossia considerato “persona” è comunque messo in discussione opportunamente anche da vari teologi cattolici, la parte conservatrice del cattolicesimo naturalmente resiste, come il papa emerito Ratzinger, che meno di un anno fa ribadiva il suo doversi presentare presto davanti “al giudizio di Dio". Ma è certo che una concezione nuova dell'Assoluto, del Numinoso, andrebbe incontro anche alla tesi di Albert Einstein e di larga parte della scienza contemporanea che da sempre rifiuta le “religioni del terrore”.

Ancora: Zambaldi evidenzia la concezione spinoziana dei profeti, come esseri umani saggi e capaci, profondamente retti, ma comunque sempre, appunto, esseri umani. Il che vale per Gesù di Nazareth, cui il pensatore seicentesco attribuisce un ruolo particolare, in qualche modo privilegiato (il che nel mondo ebraico dell'epoca rappresenta un'eccezione), per la sua insistenza sull'amore di Dio e del prossimo (dimensione verticale e orizzontale, per dirla con la teologia cristiana), ma di persona umana, il che corrisponde alla totale rivendicazione della libertà di pensiero e di espressione orale e scritta che, in una celebre lettera del 1665 a Heinrich Henry Oldenburg, teologo, filosofo e diplomatico tedesco attivo in Inghilterra e fondatore della Royal Society, rispetto ad ogni autorità umana. Il concetto spinoziano di Dio, inoltre, dove vale il famoso “Deus sive natura”, inteso come causa assoluta (come “natura naturans”) e come “natura naturata”, vale inoltre nel senso della “creatio continua” più che come avallo della “creatio ex nihilo”, come la troviamo nella Bibbia, derivante dal “soffio” (ruah) di Dio, dove chiaramente l'immagine-simbolo veniva presentata a semplici pastori, ignari del progresso scientifico.

Oggi, anche con questo nuovo libro di Don Zambaldi, che si aggiunge significativamente alla vastissima bibliografia su Spinoza, abbiamo un nuovo strumento per riabilitare il pensiero di autori come Pierre Teilhard de Chardin, grande paleontologo, geologo e antropologo oltre che teologo, a suo tempo sanzionato dal Vaticano e riabilitato solo dopo il Concilio Vaticano II. Ciò è stato opportunamente rilevato insieme, in sede di presentazione del libro, da Zambaldi e dal prof. Don Paolo-Paul Renner, direttore del Centro di studi teologici -Isituto di scienze religiose di Bolzano. Concezioni che peraltro si ritrovano anche nel fondatore della meccanica quantistica Werner Heisenberg e in genere negli sviluppi anche recentissimi della fisica quantistica.
 

                                    di Eugen Galasso

 

Adelaide Ristori e lo specchio della scrittura.
Messinscena delle memorie di una diva dell’Ottocento

di Antonella Valoroso
prefazione di Francesco Cotticelli

Roma, Carocci, 2022, pp. 151
 

Adelaide Ristori e lo specchio della scrittura di Antonella Valoroso è un prezioso contributo scientifico alla già ricca bibliografia della acclamata diva della scena ottocentesca, ritornata in auge in occasione della celebrazione del bicentenario della nascita (Cividale del Friuli, 29 gennaio 1822).

Attrice definita dalla Regina Vittoria «una cosa sublime»  e riconosciuta da Cavour ambasciatrice della cultura italiana nel mondo e «prima attrice d’Europa», la Ristori si impose all’attenzione internazionale a Parigi nel 1855 quando, con la Compagnia Reale Sarda, recitò Francesca da Rimini di Silvio Pellico e Mirra di Vittorio Alfieri. Il trionfale debutto al Théatre Impérial ebbe profonde e incisive conseguenze artistiche: da un lato la Ristori abbandonò la commedia goldoniana e il dramma borghese per concentrare le sue doti espressive sulla tragedia classica e sul dramma storico, dall’altro lato declinò via via il proprio stile recitativo in funzione di un pubblico non attrezzato per assimilare un’esibizione in lingua italiana.

Giuditta di Paolo Giacometti è lo spettacolo della definitiva consacrazione presentato a Madrid nel 1857, cui seguono nel biennio 1858-60 una lunga tournée europea e la prima e fondamentale trasferta americana nel 1866 presentando, tra l’altro, Medea e Elisabetta regina d’Inghilterra di Giacometti. Sono titoli riproposti anche nell’ultimo e lungo viaggio transoceanico (1884-1885) che di fatto pone fine alla luminosa carriera di un’attrice consacrata a livello mondiale e assurta a mito vivente, come bene racconta Valoroso nella prima parte del volume in oggetto.

Di ritorno dagli Stati Uniti, nell’estate del 1885, la Ristori maturò l’idea di scrivere un libro di memorie, Ricordi e Studi artistici, la prima autobiografia scritta da una penna femminile per poi essere pubblicata, tra il 1887 e il 1888, in italiano, francese, inglese, le lingue delle platee che la avevano acclamata.
La «costruzione di un libro mondiale» costituisce il cuore dello studio rigoroso e assai dettagliato condotto dalla Valoroso, che ne ripercorre la gestazione e approfondisce le tre edizioni concepite anche per fini commerciali unitamente alla glorificazione di Ristori come modello esemplare di donna e di attrice lungo un percorso narrativo predisposto in senso cronologico.
Emergono «le caratteristiche proprie dell’eroina romantica» in un racconto della vita quotidiana incorniciato nella sua minuziosa teatralità in parallelo alla scalata sociale della Ristori favorita dal matrimonio con il marchese Giuliano Capranica del Grillo: si declina il modello di un’esistenza fortunata, intorno alla quale l’attrice si costruisce l’immagine di donna nobile e magnanima, serena e coerente nel rispetto dei valori, come si legge nella sezione delle memorie dedicata ai Ricordi.

Alla perfezione della vita segue la memoria delle esperienze di palcoscenico raccontate negli Studi artistici che, come sottolineò la stessa  Ristori, «possono servire d’emulazione e d’esempio ai giovani, che, avendo una seria vocazione, si decidessero ad affrontare le difficoltà della carriera teatrale». Perciò l’attrice materializzò sulla carta, per una corretta «educazione artistica», le sue eroine – Maria Stuarda, Elisabetta l’Inghilterra, Lady Macbeth, Medea, Mirra, Fedra – affidandosi ad un metodo costruito sullo studio storico e sull’approfondimento del carattere del personaggio in rapporto alle dinamiche relazionali con gli altri interlocutori. Fondamentale e a completamento è l’attenzione per gli oggetti scenici-simbolo che accompagnano le espressioni del volto, le tonalità della voce, i piccoli movimenti.
Ricordi e Studi artistici contiene in sé i segni di un’epoca teatrale in trasformazione, in un certo senso accelerati dalle visioni lungimiranti della stessa Ristori.

Il libro della Valoroso -  corredato da una ricca sezione di immagini, da un interessante appendice con le lettere dall’epistolario scritte nel periodo 1885-1890 e da una aggiornata bibliografia – si conclude con la eloquente citazione di un grande ammiratore dell’attrice italiana, Victorien Sardou che, in occasione della morte della ristori avvenuta a Roma il 9 ottobre 1906, scrisse: «non avevo mai veduto nulla di più grande sulla scena e le serate in cui l’aveva udita erano restate le più belle della mia vita artistica».


                                     di Massimo Bertoldi

        

Il teatro futurista

di Salvatore Margiotta

Roma, Carocci editore, 2022, pp. 127.

Se, da un lato, è acquisito a livello storiografico il «programma di radicale frattura rispetto al contesto artistico tutto» sostenuto e praticato dal Futurismo, non altrettanto consolidato è il ruolo primario e di cassa di risonanza delle istanze e degli slogan rivoluzionari assunto dal teatro, sia in ambito teorico che sul versante della scena, pensando anche alla grande influenza esercitata nei linguaggi performativi nel corso del Novecento.
Da questo assunto si sviluppa la monografia di Salvatore Margiotta, assai pregevole per chiarezza espositiva e per rigore scientifico nel ripercorrere lo sviluppo storico di questo movimento d’avanguardia lungo un intreccio tra i numerosi Manifesti e la coeva prassi scenica concepita per il palcoscenico.

L’avvio, scoppiettante e agitato, è dato dalle Serate nel periodo 1910-1914: sono manifestazioni provocatorie strutturate su un’arringa iniziale contro soggetti della tradizione, attingendo moduli espressivi dal music hall e dal café-chantant e poi ripresi dal fondatore Filippo Tommaso Marinetti ne Il Teatro di varietà del 1923. L’obiettivo è di aizzare il pubblico fino al violento lancio di frutta e verdura sul palco, talvolta culminato in vere e proprie risse sedate dalle forze dell’ordine.

Dalle Serate si passa ai Pomeriggi Futuristi ideati da Francesco Cangiullo a Napoli dove presenta il suo Piedigrotta, e poi si transita dal Teatro Sintetico al Teatro di Varietà: sono questi i passaggi nodali della rivoluzione testuale che intendeva ridefinire il codice drammaturgico non articolando atti e scene bensì focalizzandosi in «attimi» performativi anche di pochi secondi. In merito Margiotta sostiene che, pur a fronte di quasi cinquecento testi e della tournée del 1915-1916, «il Teatro Sintetico non riuscì a raggiungere una proposta articolata di teatro realmente diverso».  

In parallelo si anima e con l’intento di recuperare «un rapporto ludico-espressivo con il pubblico», l’esperienza del Teatro di Sorpresa anche definito e illustrato nell’omonimo manifesto del 1922 e preceduto dagli spettacoli del 1921 al Teatro Mercadante di Napoli. Si tratta di microdrammi intervallati da interventi musicali, balletti, esposizioni di quadri futuristi.
Ne sono autori, tra i tanti, Balla, Boccioni, Settimelli, Corra e lo stesso Marinetti al quale Margiotta dedica un’interessante e dettagliato capitolo in cui ripercorre l’intera produzione drammaturgica, dalle opere giovanili a quelle della maturità segnata da una sperimentazione ragionata e articolata nell’assunzione della sintassi cinematografica.

La volontà di accordare al medium teatro un senso di arte autonoma rispetto alla tradizionale concezione testo-centrica, virando decisamente verso soluzioni plastico-visive, diventa superamento delle barriere disciplinari e intreccio prossimo a diventare, sempre nella composizione scenografica, fusione di valori pittorici, scultorei e architettonici.
È questo il cosiddetto «secondo Futurismo», frutto anche del ricambio generazionale, al quale partecipano Balla, Depero e Prampaloni, che firmano progetti importanti. L’artista trentino nel 1917 realizza scenografia e costumi per Le Chant du rossignol e nel 1918 i Balli plastici animati da due marionette stilizzate in un’atmosfera ludico-fiabesca.

Il vertice di questo indirizzo è individuato da Margiotta nel Teatro della Pantomima futurista ideata da Prampolini nell’ambito di un proficuo soggiorno parigino in cui si colloca alche l’applaudito debutto del suo repertorio al Théâtre de la Madeleine nel maggio 1927. La replica in Italia è invece un fallimento di pubblico e di critica.

Inizia la rapida parabola declinante del movimento al quale mancano nuove idee e nuovi programmi capaci di dialogare con una realtà socio-culturale, quella maturata a metà anni Trenta, molto diversa da quella delle origini dell’avventura futurista. Era venuta via via a mancare - conclude Margiotta – quella «spinta eversiva legata al Futurismo tutto, condizione storicamente vissuta e condivisa da tutti gli altri movimenti appartenenti alle avanguardie storiche».


                            di Massimo Bertoldi

 

Strehler
Il gigante del Piccolo

a cura di Sara Chiappori


Milano-Udine, Mimesis, 2022, pp. 160
 

Nella prefazione a Strehler Il gigante del Piccolo Maurizio Porro afferma che «questo libro […] è bello e necessario nella sua recherche perché è un prisma di pareri che vengono dal ventre stesso del teatro, non sono fredde opinioni critiche, ma pensieri d’amore lanciati sui bigliettini sotto la luce dei riflettori». Si tratta di ventidue interviste ad attori, registi e collaboratori di Giorgio Strehler raccolte da Sara Chiappori in occasione del centenario della nascita del Maestro a Trieste nel 1921, che diventano luminose tessere di un mosaico in cui le ragioni dell’arte si intrecciano con i rapporti umani lungo le coordinate di una carriera che, a partire dalla cofondazione con Paolo Grassi del Piccolo Teatro di Milano, lascerà un segno indelebile nella storia del teatro italiano.

Primeggia il palcoscenico, dalle prove – lunghe, faticose, di maniacale precisione ma capaci di alimentare fantasie e immaginazione nell’attore – alla magia del debutto. Strehler, «così matto, così smisurato – racconta Andrée Ruth Shammah – aveva in realtà un enorme senso della disciplina, era rigoroso. Credeva che la poesia del teatro potesse cambiare il mondo, ci credeva come in una missione», che sarà accompagnata da sogni e fallimenti condivisi con artisti e attori a lui vicini in quasi cinquant’anni di attività, abbagliati dalla sua forza magnetica unita alla vastità della sua cultura.

«Mi si aprì un mondo» ricorda Giulia Lazzarini, pupilla del regista, mentre il fedele Giancarlo Dettori lo definisce «un uomo con delle grandi generosità e delle aggressività molto dure». Alla giovane Ottavia Piccoli, per esempio, rimproverava urlando il tono basso della voce tanto che «andavo in panico, mi veniva la febbre, giuro». La scossa verbale era mirata, terapeutica e pedagogica: Strehler voleva che i suoi attori esprimessero al massimo quelle potenzialità ancora sommerse ma intuite dal grande regista. In merito Gabriele Lavia annota: «Poteva prenderli a male parole, ma aveva un grande amore e un profondo rispetto. Diceva sempre ‘Noi attori…’». Monica Guerritore, scoperta a sedici anni per caso da Strehler mentre accompagnava un’amica ad un provino, ripercorre il lavoro minuzioso che accompagnò la definizione del personaggio di Anja del cechoviano Giardino dei ciliegi.

Emerge, come leitmotiv delle interviste, la ricerca continua del perfezionismo: «con Strehler nulla era mai finito e indefinito, ma tutto andava migliorato, sempre e costantemente rielaborato». Lo conferma Ferruccio Soleri, l’arlecchino del goldoniano Servitore di due padroni replicato in tutto il mondo per 2283 volte.  Paolo Rossi è invece l’arlecchino mancato: «Vado a casa sua […] passiamo le ore improvvisando e parlando della maschera. Giornate e giornate così. Una volta lo trovai in vestaglia, dirigeva Wagner in piedi sul divano».

Strehler amava molto le donne, visse relazioni intense come quella con la giovane Ornella Vanoni, protagonista di un amore tormentato ma profondo («Vivevo al Piccolo, aspettandolo, mentre intorno a me girava l’universo») e successivamente con Andrea Jonasson che mette in luce le fragilità e le ansie.
E non manca la considerazione dell’impegno civile, in merito preziosa è l’intervista a Sergio Escobar, che subentra nel 1998 al defunto Strehler nella direzione del Piccolo. Ricorda la militanza politica nelle file del Partito Socialista.

Corredato da un elegante e ricco apparato iconografico, il volume si completa con un intervento di Claudio Longhi, attento nel delineare un sintetico bilancio dell’esperienza strehleriana per poi interrogarsi su «quali altre geniali intuizioni sarebbe stata arricchita la sua carriera» interrotta dalla morte.
È nelle parole di Laura Marinoni che l’universo teatrale di Strehler diventa inestimabile valore culturale e morale: «La sua estetica riusciva a mettere profondità, magia, leggerezza, bellezza. Erano sogni completi, reali, tangibili. Credo che il teatro debba fare sognare, portarci in un’altra dimensione. E il suo era pura poesia».
 

                           di Massimo Bertoldi

 

Max Reinhardt

di Sonia Bellavia

Roma, Carocci, 2021, pp. 127


Tra i tanti encomi provenienti dal mondo dello spettacolo all’indomani della morte a New York di Max Reinhardt (31 ottobre 1943) spicca quello di Ernest Lothar. Lo scrittore e regista teatrale lo celebra come colui che aveva «scoperto la scena come il continente dell’illusione, classici come contemporanei, l’attore come nunzio della personalità, lo spettatore – attraverso l’illusione e la personalità – come un trasformato».
La citazione è assunta dalla luminosa ed esaustiva monografia compilata da Sonia Bellavia, Max Reinhardt, che ricostruisce a tutto tonto il percorso creativo, e non solo, di questo geniale personaggio considerato tra i primi fondatori della regia del teatro europeo di inizio Novecento.

Nel 1930 Reinhardt dichiarò: «Sono una vecchia guardia di confine, sull’incerta frontiera tra realtà e sogno». Ed è tra questi due poli che si costruisce la luminosa carriera di questo regista educato come giovane spettatore al Burgtheater di Vienna dove all’esibizione del grande attore corrispondevano la fantasia e il sogno, di eredità barocca, nel codice espressivo del linguaggio scenico.

Sulla base di questa poetica drammaturgica il giovane Reinhardt, impegnato anche come attore, prima impostò la sua reazione al Naturalismo poi modellò una serie di allestimenti di fondamentale importanza e di straordinaria bellezza che prima abbagliarono pubblico e critica e poi furono considerati stucchevoli, come lo shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate, perché nella ricezione delle proposte dell’eclettico e geniale Reinhardt interagiscono le rapide trasformazioni in seno ai coevi linguaggi teatrali, come andavano ad affermarsi nelle due città cardine sullo sfondo degli esiti della Prima guerra mondiale: la moderna Berlino dove Reinhardt esibì le sue doti imprenditoriali acquistando molti teatri tra il cui prestigioso Deutsches Theater e la frivola e conservatrice Vienna.

Si susseguirono altri passaggi nodali, colti con attenzione dalla Bellavia, come la fondazione del Festival di Salisburgo inaugurato nel 1920 dal dramma Jedermann dell’amico Hugo von Hofmannsthal e interpretato, a più riprese, da un suo fedele attore, il triestino Alexander Moissi. Fu un altro spettacolo epocale.
Intanto si era concretizzato il ritorno di Reinhardt a Vienna, anche animato dal sogno di dirigere il Burgtheater, il tempio del teatro austriaco. Non ci riuscì, acquistò e ammodernò lo Josephstadttheater («uno dei teatri più belli del mondo», avrebbe detto Robert Musil), che inaugurò con una memorabile edizione in lingua tedesca del goldoniano Servitore di due padroni nel 1922.

Segue un ritorno a Berlino ma la città gli riserva poca soddisfazione, pur possedendo otto teatri che, però, il regista consegnerà a Rudolf Beer e a Karl Heinz Martin nel 1932 in coincidenza con l’imminente cancellierato di Adolf Hitler e prossimo a emanare le leggi razziali. Di fatto, Reinhardt, all’anagrafe Goldmann, apparteneva alla borghesia ebraica viennese. Perciò si trasferì nel castello di Leopoldskron, sontuosa dimora nei pressi dell’amata Salisburgo successivamente espropriata dai nazisti, per poi decidere di vivere a New York, non prima di aver lasciato un segno indelebile anche in Italia con la messinscena del Sogno di una notte di mezza estate nel giardino dei Boboli di Firenze e con la non meno prestigiosa rappresentazione del Mercante di Venezia, in collaborazione con Guido Salvini, a Campo San Trovaso di Venezia.

«Per ogni spettacolo di Reinhardt si potrebbe scrivere un libro a sé», osserva Bellavia nell’Introduzione a questo prezioso, dettagliato e intelligente contributo dedicato a una figura decisiva del teatro del Novecento, forme ultimamente un po’ trascurata e che in questo libro rivive la sua completa e doverosa valorizzazione.
 

                                    di Massimo Bertoldi

 

Bob Wilson in Italia

di Gigi Giacobbe
con contributi di Dario Tomasello e Roberto Andò

Imola, Cue Press, 2022, pp. 77.


Mancava un libro dedicato allo spettacolo di Bob Wilson capace di darne ampia visibilità divulgativa, in aggiunta agli interventi critici di sapore specialistico e accademico. La lacuna è colmata da questo lavoro, agile e assai interessante, di Gigi Giacobbe che ricostruisce gli allestimenti di Bob Wilson in Italia realizzati dal 1994 al 2022.
Dichiara il regista texano: «Il Teatro? È la somma di tutte le arti». In questa idea di teatro totale si incontrano e coesistono il movimento del corpo, la parola, la luce, il suono, le immagini, disponendosi e interagendo su un piano narrativo che supera la centralità del testo letterario per trasportare lo spettatore in una dimensione di incanto atemporale in un universo di bizzarra fantasia. In merito all’alchimia dei colori e dei movimenti coreografici dei suoi spettacoli, Wilson sottolinea che l’attore in scena «è estremamente formale, non deve essere spontaneo, deve essere immediatamente riconoscibile in quanto movimento artificiale creato per il teatro». Altri e simili intenti d’arte, basilari per inquadrare la ricerca sperimentale condotta da questo straordinario regista, trai maggiori e innovativi della scena mondiale contemporanea, si leggono nella prima parte del volume di Giacobbe.

Dal discorso teorico si passa alla verifica della sua materializzazione sul palcoscenico attraverso l’occhio critico di osservatori eccellenti. Achille Bonito Oliva riconosce nella struttura del Teatro–totale–immagine l’architettura creativa di uno «smontaggio, di un’atomizzazione del gesto» definito nel rallentamento e nella ripetizione, talvolta con effetti dilatati, dell’azione dell’attore, secondo uno schema che in parte rinvia alle suggestioni esercitate dal Teatro Nō giapponese o si avvicina alle composizioni musicali di John Cage.

Il sipario sullo spettacolo wilsoniano Giacobbe lo apre accorpando, in ordine cronologico, le sue stesse recensioni, scritte con competenza e minuzia critica. È come entrare nel mondo delle meraviglie, a partire dall’iniziale Alice del 1994 e da Hamlet a monoloque presentato alla Biennale Teatro di Venezia nel 1995 interpretato dallo stesso Wilson in uno spazio scenico che si colorava di azzurro e di rosso. Oppure Woyzeck di Georg Büchner visto a RomaEuropaFestival nel 2002 e «recitato e cantato da formidabili attori-cantanti danesi», sottolinea Giacobbe che poi ricorda la magistrale prova di Adriana Asti nel beckettiano Giorni felici al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2009: alle spalle dell’attrice, con il «viso bianchissimo interrotto dal rosso del rossetto e dal suo generoso decolleté su un vestito grigio-azzurro», c’è un fondale bianco accecante e interrotto talvolta da effetti azzurri e rosa.

Se memorabili rimangono I Sonetti di Shakespeare allestiti ancora a Spoleto nel 2010, altrettanto vale per Lulu di Wedekind, accompagnata dalle musiche di Lou Reed, con la protagonista caratterizzata da «immutabile, […] faccia infarinata e pesante trucco» come se fosse sul set di un film in bianco e nero.

Altro spettacolo-manifesto della cifra stilistica di Wilson è Odyssey al Piccolo Teatro di Milano nel 2013: è un susseguirsi di magie illuminotecniche che avvolgono i personaggi omerici calati in un ambiente scenografico e sonoro in continua trasformazione. Grandi emozioni e suggestioni visive sprigiona la messinscena di Hamletmachine di Heiner Miller, ancora a Spoleto nel 2016. In merito Giacobbe evidenzia la performance di 35 giovani attori dell’Accademia Silvio d’Amico simili a «aure metafisiche senza tempo».

Si tratta di spettacoli di grande eleganza stilistica e formale declinata da Wilson in una sintassi drammaturgica sempre mutevole, di continua ricerca, tantoché lo stesso regista afferma: «spesso la gente mi chiede di cosa tratta il mio teatro; generalmente rispondo che non lo so. […] per me l’interpretazione non spetta al regista, all’attore o all’interprete: l’interpretazione spetta al pubblico».
 

                                  di Massimo Bertoldi

 

 

Carmelo Bene

di Armando Petrini

Roma, Carocci, 2022, pp. 118


Pubblicato in occasione dell’anniversario dei vent’anni della scomparsa di Carmelo Bene, il libro di Armando Petrini è un prezioso contributo analitico che inquadra, seguendo un taglio storico-teatrale, il percorso e la forza creativa dell’attore salentino, giustamente definito «uno dei massimi protagonisti del teatro del Novecento».

La chiave di lettura indispensabile per addentrarsi nella complessa poetica di Bene è il paradosso da cui si muove la contraddizione basilare della sua opera che consiste nell’«esprimere un fatto d’arte, ai massimi livelli possibili, e contemporaneamente indicare l’avvenuta impossibilità». Perciò lo studioso lo definisce non “un padre fondatore” del teatro ma un “figlio degenere” acceso nemico dello spettacolo conformista e di convenzione. Ossia Bene lavorò per «negare il teatro facendo teatro», spogliando l’attore degli strumenti espressivi canonici e vestendolo primariamente di una voce amplificata, sia sonora che visiva, sottomessa alla phoné, ossia all’intreccio contenutistico dell’opera basato sui significanti e non sul significato. «Io cerco il vuoto – affermava Bene –, che è la fine di ogni arte, di ogni storia, di ogni mondo».

Petrini – che si avvale di preziose fonti quali dichiarazioni dello stesso Bene, recensioni e testimonianze dei suoi collaboratori – individua due diverse fasi creative: dagli esordi agli anni Sessanta e Settanta, aggressiva e conflittuale, al successivo periodo concluso con la morte avvenuta nel 2002.

A partire da Salomè e poi lungo le rotte di Caligola, Amleto, Pinocchio, gli amati verso di Majakowskij, l’attore maledetto è un “enfant terrible” che si qualifica per la sua ricerca sperimentale, spericolata e frenetica, tanto da attirare l’attenzione di intelligenti e curiosi osservatori come Flaiano e Arbasino.
Si tratta di un «rapporto stretto, inestricabile, fra arte e vita». La scossa tellurica non investe solo il linguaggio teatrale: colpisce anche quello letterario (Nostra signora dei Turchi), cinematografico (si ricordino i cinque film girati nel periodo 1968-1973), radiofonico (Interviste impossibili e una Salomè) e televisivo (Amleto e Bene! Quattro diversi modi di morire in versi).

Con Romeo e Giulietta – cui seguono Manfred, Lectura Dantis, Lorenzaccio, La cena delle beffe – si entra nella seconda fase in cui Bene è riconosciuto Maestro del teatro di ricerca nazionale e internazionale, avvalorato anche dagli incontri decisivi con Klossowski e Deleuze. Cambia, di riflesso, la concezione della recitazione, ora intesa come «momento propriamente di poesia, dunque per eccellenza musicale», spiega Pietrini.
In questi spettacoli prevalgono gli effetti lirico-sonori e gli incisi simbolistici rispetto alle precedenti soluzioni di tipo grottesco e parodico. Si affievolisce la provocazione e il genio di Bene si addentra, con la ricerca sulla musicalità della voce, anche nelle poesie di Leopardi e Campana.

Anima solitarie e inquieta, sempre in opposizione alla cosiddetta “società dello spettacolo”, Carmelo Bene condivide la stessa ansia sperimentale, frutto di scellerato coraggio artistico, con le coeve esperienze di de Berardinis, Quartucci, Grotowski, Living Theatre, come bene ricorda Petrini in questo intrigante e appassionante studio preceduto dallo splendido Amleto da Shakespeare a Laforgue per Carmelo Bene (2004).


                                               Massimo Bertoldi

 

Teatro


di Saverio La Ruina
con contributi di Rodolfo di Giammarco,
Franco D’Ippolito, Thomas Simpson

Imola (Bo), Cue Press, 2022, pp. 109
 

Mancava un’antologia dei testi teatrali di Saverio La Ruina, anche apprezzato attore e regista, già fondatore nel 1992 della compagnia Scena Verticale nella nativa Castrovilli, per poi avviare un’importante carriera artistica puntellata da premi e riconoscimenti prestigiosi capaci di garantirgli risonanza nazionale e internazionale. A colmare la lacuna soccorre il progetto editoriale dell’imolese Cue Press diretta da Mattia Visani con la pubblicazione del Teatro, dal quale emergono con chiarezza le traiettorie drammaturgiche, stilistiche e poetiche, seguite dall’autore.

Per la freschezza del linguaggio e per le tematiche trattate, il repertorio di La Ruina è marcatamente contemporaneo, lucido ed efficace, anche perché «ogni mia ricerca è preceduta da ricerche sul campo».
Difatti Polvere. Dialogo tra un uomo e una donna, testo del 2015 in cui si affronta la violenza dell’uomo sulla donna, si basa su reali testimonianze di ambo i sessi tradotte in un dialogo essenziale, plasmato su un italiano piatto e quotidiano. Si tratta di una violenza sottile, costruita su una serie di gesti apparentemente banali, commenti pungenti e domande ossessive, che progrediscono verso la volontà di annichilimento emozionale della donna. Il dialogo tra i due amanti assomiglia ad un incontro di box.
Qualche passaggio significativo: lui la accusa di essere arida nei sentimenti, di non averla presentato ad una festa come suo fidanzato; oppure la interroga con insistenza su una violenza carnale subita dalla donna alludendo ad una suo possibile complicità, per poi torchiarla sulle sue relazioni passate; l’uomo contesta, inoltre, un quadro di un nudo perché i ginocchi esprimono cattiveria e per l’erotismo trasmesso; con toni da interrogatorio poliziesco chiede perché è stata spostata una sedia.
Non mancano momenti di felicità e di leggerezza, anche se a nulla serve l’invito finale a fare l’amore inteso come volontà di superamento di questa tormentata dinamica sadomasochista vissuta dall’uomo con isteria verbale marcatamente misogina.

Se Polvere è un testo inquietante e viscerale, altrettanto lo è Masculu e fiammina del 2015, di cui è protagonista un gay di provincia, Peppino, impegnato in un lungo e intenso monologo sulla tomba, coperta di neve, della cara madre, alla quale ha sempre nascosto la sua condizione. Dalle sue parole si sprigiona una dolcezza tutta umana, delicata e a tratti imbarazzata. Con dolore pungente e vene di umorismo il protagonista racconta i segreti della sua vita votata allo stesso sesso: si passa dall’abbaglio per un coetaneo vicino d’ombrellone quando Peppino era bambino alla certezza adolescenziale della sua omosessualità; dal suicidio del compagno per vergogna in quanto scoperto mentre si toccava con altri amici al rapporto sentimentale con Vittorio ucciso da uno sconosciuto mentre facevano l’amore in macchina.

Significativamente alla fine di questo appassionante monologo della solitudine e della diversità Peppino scrive sullo scontrino della rosticceria che aveva in tasca: «Svegliatemi in un mondo più gentile»; poi accarezza la foto della madre, raccoglie della neve da terra e si imbianca capelli e vestito, simulando un’auspicata ibernazione.

Dalla discriminazione sessuale si passa con Saverio e Chadli vs Mario e Saleh a tematiche legate al razzismo contemporaneo. All’indomani di un terremoto, in una tenda allestita per sfollati si ritrovano Mario, portatore di valori occidentali e cristiani, e il mussulmano Saleh. Il dialogo parafrasa l’incontro-scontro tra culture e mentalità diverse sostenuto da una scrittura metateatrale che riporta i dialoghi dell’autore-attore con il compagno di scena Saleh. Si sviluppano discorsi, tra i tanti, sul Ramadan e il digiuno, e soprattutto sull’11 settembre e il conseguente terrorismo islamico vissuto come spartiacque dal quale derivano pregiudizi ed etichette razziali alimentate dai media, perciò, in grado di trasformare gli esseri umani simili a marionette del linguaggio. «Siamo diventati dalle mille e una notte tutti terroristi», dice Chadli che poi chiude il testo con un discorso, simile ad un appello, che racchiude tutto il messaggio della commedia:

«Io sono il musulmano. Io sono quelle cose là. E io so cosa vorrebbe quel mondo lì. Ma, ripeto, in questo caso specifico, consegnandogli quella realtà, io penso che se c’è una persona che abbia, un briciolo di sensibilità si interroga. Il fatto di dire: minchia, è vero, cioè questi sono convinti che noi pensiamo di loro che sono tutti terroristi, attenzione, forse dovremmo capire chi sono, o capire chi siamo».
 

                                  di Massimo Bertoldi

 

Vittorio Gassman attore multimediale

di Arianna Frattali

Imola (Bo), Cue Press, 2022, pp. 84


Pubblicato in occasione del centenario della nascita di Vittorio Gassman, il libro essenziale e dettagliato di Arianna Frattali pennella un ritratto del grande Mattatore con colori assai poco enfatici e celebrativi; illuminano, invece, con rigore scientifico e analitico la personalità di attore multuimediale quale «ultimo erede della tradizione mattatoriale ottocentesca», come solitamente Gassman viene considerato, ma anche e soprattutto «attivo nel definire un nuovo ruolo di teatro nella società a lui contemporanea», evidente nel suo precoce e vivo interesse per la regia critica e sperimentale, unitamente all’attenzione per i nuovi media.

Seguendo un’impostazione cronologica, che compre un arco temporale dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, la ricerca della Frattali si concentra soprattutto su alcuni passaggi decisivi della carriera artistica del sempre pensieroso e dubbioso Gassman.

Gli inizi negli anni Quaranta sono vissuti nel solco della tradizione e registrano partecipazioni a spettacoli al fianco di attrici esperte e di grido quali Laura Adani, Alda Borelli, Elsa Merlini; poi arriva la prima scossa provocata da Luchino Visconti, «l’esperienza pù importante» la definisce lo stesso Gassman, perché lo pone a contatto con una visione di teatro basata sull’interpretazione ‘storica’ dei testi con elementi onirici finalizzata al superamento della tradizionale centralità dell’attore.
L’attività artistica con Visconti – tra cui il celebre Oreste di Alfieri e Un tram chiamato desiderio di Williams – avvicina l’eclettico Gassman all’idea di regia moderna tantoché, in parallelo all’avventura con la Compagnia del Teatro Nazionale diretta da Guido Salvini con la quale si distingue in Baccanti e Persiani al Teatro Greco di Siracusa, firma le sue prime regie con Amleto e Peer Gynt, da lui stesso interpretati.

Siamo nel 1950, cinque anni dopo nasce la compagnia Vittorio Gassman, preludio al varo dell’ambizioso e complicato progetto del Teatro Popolare Italiano o Teatro-Circo (1958-62), il cui modello è la politica culturale del milanese Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e Paolo Grassi con il quale l’attore-regista aveva stabilito proficui contatti e collaborazioni. Il tormentato debutto avviene a Roma con la manzoniana Adelchi e l’obiettivo dichiarato è «fare dello spettacolo dal vivo uno strumento di riqualificazione sociale, popolare, ma organizzato per raggiungere e coinvolgere un grande numero di spettatori», sottolinea la Frattali che poi analizza il repertorio concentrandosi anche su Oreste e la pirandelliana Questa sera si recita a soggetto.

Si apre la parentesi cinematografica, impreziosita dai successi ottenuti con Il sorpasso nel 1962, I mostri e L’armata Brancaleone (1966). Di riflesso Gassman cambia registro: da attore tragico e drammatico diventa comico e tale si presenta anche in televisione con il programma Il Mattatore.
Gassman ritorna a teatro nel 1968 con lo shakespeariano Riccardo III diretto da Luca Ronconi. Lo spettacolo lascia un altro segno indelebile: eliminate tirate individuali e pezzi di bravura, Vittoriò è protagonista – evidenzia la Frattali – di «una nuova coralità che vede l’attore come parte integrante e perfettamente integrata di una macchina scenica progettata sin nei minimi dettagli in tutte le sue componenti». Si tratta del definitivo declino della recitazione mattatoriale che, in un certo senso, destabilizza l’attore tanto che si concede una nuova lunga pausa «di ripensamento, un momento di crisi», durante la quale si occupa principalmente di cinema e televisione (Il Musichiere, Galà, Canzonissima di cui è ospite fisso).

Il libro della Frattali, agile e essenziale, si conclude con un capitolo dal titolo emblematico, L’eredità fra cinema e schermo: Vittorio vs Alessandro che si apre con la considerazione del film autobiografico Di padre in figlio (1982), il cui tema di fondo è il rapporto fra padre, figli e nipoti. Vi recitano, infatti, anche gli altri due figli di Vittorio, Paola e Jacopo. La collaborazione artistica con Alessandro produce nel 1985 un secondo e significativo spettacolo, Affabulazione di Pasolini: si tratta della parafrasi di un rapporto drammatico, uno scontro generazionale, sottintendendo una sorta di passaggio di consegne tra padre e figlio Alessandro che, non a caso, si materializza nel 2014 quando il primo erede debutta come attore-regista con il Riccardo III fiore all’occhiello del capostipite Vittorio.
 

                            di Massimo Bertoldi

 

Lettere

di Bernard-Marie Koltès
a cura di Stefano Casi

Imola (BO), Cue Press, 2022, pp. 359

«Ho scoperto il dramma della mia vita: sono scisso tra il sogno di una vita comoda – con una biblioteca, una trapunta, un quartetto d’archi, la vista sul paesaggio – e violente visioni metaforiche, come una scala maya che sale vertiginosamente, sotto una luna piena». Questo estratto epistolare di Bernard-Marie Koltès, datato 1878 e scritto da Città di Guatemala, è ora pubblicato nel prezioso e importante volume Lettere, a cura di Stefano Casi, che ne contiene cinquecentotrenta spedite a genitori (soprattutto alla cara madre), parenti, amici e (poche) alle istituzioni, in un arco temporale compreso tra il 1955 e il 1989.

In una lettera del 1970 a Maria Casarès, prestigiosa attrice francese, scriveva: «alla vigilia di una vita che voglio consacrare al teatro, è necessario commettere un atto ambizioso, spontaneo, anarchico forse, libero dagli imperativi esterni della vita professionale, poetico insomma». È l’inizio della luminosa carriera del giovane drammaturgo che, esaurita l’esperienza con la compagnia Théâtre du Quai da lui stesso fondata, compone una serie di commedie destinate a dargli respiro internazionale, tra le quali La notte poco prima della foresta interpretata da Yves Ferry al Festival Off di Avignone nel 1977 e poi proposta al Festival di Edimburgo (1981), Sallinger tratto dai racconti di J. D. Salinger (1977), Lotta di negro contro cani (1978), Nella solitudine dei campi di cotone (1985) che sarà diretto da Patrice Chéreau, fino all’ultimo Roberto Zucco, pièce liberamente ispirata al serial killer italiano Roberto Succo.

Di queste commedie antinaturalistiche e antipsicologiche caratterizzate da dialoghi animati da personaggi antieroici, nelle lettere, tradotte con maestria da Giorgia Cerruti, si parla poco. Dominano invece i tanti viaggi di Koltès, bohémien maledetto, frenetico e smanioso, omosessuale, colpito dall’Aids a soli 41 anni, soprattutto sostenitore di una vita “violenta” di pasoliniana memoria («non desidero che una cosa: di correre dei rischi»). Le lettere, di carattere informativo e narrativo, colpiscono per la delicatezza, l’umorismo, la sincerità, l’autoironia e il pudore.

Come nella scrittura drammaturgica, nelle missive abbondano luoghi e ambienti, a partire da Metz dove Koltès nacque nel 1948 e da Strasburgo frequentata da giovane, per continuare con la controversa Parigi, vissuta con amore e diffidenza, fino al paesello di Pralognan in Savoia dove i Koltès possedevano uno chalet. E poi ci sono i viaggi oltre confine – con lo zaino in spalla, pochi soldi e sistemazioni precarie – che portano nel 1968 Bernard-Marie in Canada, a Washington e a New York («è davvero come nessuna altra città al mondo»), a Mosca dove vive «un connubio di silenzio terribilmente pesante, rumori, agitazione, voci agli autoparlanti, che danno una sensazione continua di allerta e di guerra».

Nel 1978 compie un viaggio in Nigeria ed entra in contato con i cantieri di una multinazionale. L’esperienza è destinata a lasciare un segno indelebile: matura una sorta di razzismo “alla rovescia” che diventa avversione dichiarata al “bianco” in quanto reo di cieco sfruttamento del “negro”, avvalorando, in questo modo, anche l’ideologia anticapitalistica sviluppata come militante del Partito Comunista. Splendide risultano anche le lettere inviate dall’America Latina, visitata sempre nel ’78, con soste nella solare Città del Messico e a Nicaragua, «una città in stato di guerra un po’ terrificante, molto cara e devastata».

Il penultimo viaggio è datato 1985, in Brasile: dalla spiaggia di San Paolo, «dove stanno tutti i miliardari del continente», annota «l’impossibilità di mettermi in costume dea bagno, di nuotare e di sdraiarmi sulla sabbia, e con piuttosto la voglia di rinchiudermi in una sala d’albergo e non vedere più niente». L’ultima trasferta è a Barcellona, nel marzo 1989. Scrive ai fratelli: «In God we trust. Do we?».
 

                             di Massimo Bertoldi

 

Ammiratrici di Eleonora Duse

di Maria Pia Pagani

Bari, edizioni di pagina, 2022, pp. 131
 

È stato denominato il “secondo dramma”, l’effetto prodotto nello spettatore dalla recitazione di Eleonora Duse. Si trattava di un meccanismo comunicativo svincolato e indipendente dal dramma rappresentato: era una sorta di recinto emotivo entro il quale lo spettatore riviveva frammenti di se stesso, senza immedesimarsi nel personaggio del palcoscenico, animando piuttosto una sottile ma potente tensione di intima articolazione con il registro espressivo abilmente costruito dall’attrice.

Sulla base di questo assunto Maria Pia Pagani individua, a titolo esemplificativo, importanti ammiratrici che hanno vissuto, secondo diverse declinazioni, il “secondo dramma”, tanto che «la vita di queste donne – spiega la Pagani – è cambiata dopo aver visto Eleonora recitare, averla incontrata, aver avuto il privilegio di un dialogo personale». Non solo: intorno al dusismo, oltre a qualificarsi come fenomeno generazionale, si sono costruiti progetti e scambi culturali di una certa importanza per la cultura letteraria e teatrale dell’epoca, soprattutto lungo l’asse Italia – Russia per effetto delle trionfali tournée della divina all’inizio del Novecento.

È il caso della pittrice Natal’ja Gončarova emigrata a Parigi: per effetto di reciproca stima umana e di grande ammirazione artistica realizza gratuitamente, nel 1921, i bozzetti per la celebre messinscena de La donna di mare, che poi seguì accomodata in platea in tutte le tappe della tournée italiana e poi negli Stati Uniti.
Il dusismo contamina anche Raissa Olkienizkaia Naldi, autorevole traduttrice che nel 1905 vide Eleonora ne L’albergo dei poveri di Gorkij   e ne rimase abbagliata. Trasferitasi in Italia, aspettò con trepidazione il ritorno in scena della Duse, motivo per cui scrisse la commedia La prova del fuoco. Poi si conobbero, si scrissero diverse lettere; la traduttrice le dedicò luminose recensioni e sue versioni in lingua italiana di autori russi, tra cui Cechov e Evreinov.

Altrettanto significativa è l’esperienza della scrittrice Noemi Carelli D’Agostini, emigrata italiana a San Pietroburgo dove, dopo aver assistito alle esibizioni dusiane nella dannunziana La Gioconda e in Hedda Gabler di Ibsen, prima scrive lettere all’attrice poi si incontrano e discutono sull’arte della Duse in rapporto alla sua trasmissibilità ai posteri. L’ammirazione culmina nell’opera Borea. Romanzo di gente italiana a Pietroburgo del 1938 in cui si leggono coinvolgenti pagine dedicate alla trasferta russa.

La figura più emblematica è sicuramente Tatiana Pavlova, alla quale la Pagani rivolge particolare e luminosa attenzione. Emigrata dalla Russia, si integra nel teatro italiano proprio all’insegna del dusismo; per la Pavlova la Duse costituisce il vertice della perfezione teatrale, soprattutto nell’espressione mimico-gestuale. Significativamente il repertorio della regista-attrice ormeggia quello della Divina: nel 1923 debutta con Sogno d’amore di Kosorotov, che la Duse aveva considerato per il suo rientro in scena nel 1921 e ancor prima per la tournée russa del 1908, cui seguono La locandiera e La signora delle Camelie. Una lettera di Sibilla Aleramo alla Pavlova riconosceva il dusismo coltivato dalla Pavlova quando scrisse che, impegnata nella parte della tormentata Margherita Gauthier, «crea mentre s’abbandona e si dona. Compie un atto di religione insieme, sempre. Carne e spirito in lei non appaiono mai disgiunti, così come la terra baciata dai crepuscoli o dai meriggi è una cosa sola con il cielo. Sensualità profonda ed altra trascendenza si sprigionano nello stesso istante dalla sua gola di colomba e da ogni atteggiamento della persona bella».

Il bel libro della Pagani, pregevole per documentazione e impostazione scientifica, si completa con la considerazione della rivista italo-americana “Il Carroccio” diretta da Agostino De Biasi, in cui sono pubblicate, tra l’atro, poesie per Eleonora scritte da Barbara Young, Deborah Beirne e Louise de Forst Shelton.
Infine è singolare il caso di Maria Korda, attrice ungherese che, per le forti somiglianze fisiche con la Duse, avrebbe dovuto realizzare un film sulla famosa attrice al Vittoriale nel 1934, come si ricava dallo scambio epistolare con d’Annunzio e la figlia Enrichetta Duse.
 

                                     di Massimo Bertoldi

 

Teatro

di Laura Wade
a cura di Valentina Vetri

Imola (Bo), Cue Press, 2022, pp. 93


Laura Wade, commediografa sconosciuta in Italia, riproduce fedelmente il modello del new writer: svolti gli studi universitari a Bristol, matura importanti esperienze formative nella cerchia dei giovani drammaturghi nella fucina del londinese Royal Court Theatre, debuttando quasi ventenne con Limbo nel 1996. Alla proficua collaborazione con la Bbc Radio, segue al Royal Court Upstairs la trionfale messinscena di Posh, sua quattordicesima commedia dalla quale Lone Scherfig ha tratto nel 2014 il film The Riot Club.

Un prelibato assaggio della scrittura della pluripremiata Wade è offerto dagli inediti Più freddo di qui e Cadaveri che respirano, due piccoli gioielli del teatro anglosassone allestiti nel 2005 e ora raccolti nel Teatro pubblicato da Cue Press per la traduzione e la cura di Valentina Vetri. I due testi, dotati di scrittura asciutta ma stilisticamente assai diversi tra loro, condividono il tema della morte declinato da prospettive narrative opposte, tantoché i corrispettivi personaggi vivono situazioni antitetiche.

Nel sorprendente Più freddo di qui è centrale la figura di Myra, da tempo malata di cancro e consapevole di avere i giorni contati. Perciò si impegna a coinvolgere le due figlie e il marito a deviare dalla prassi canonica – il funerale, il rito e il cimitero classico – a favore di un funerale green: la sua ultima volontà è, infatti, una sepoltura in un prato tra gli alberi e i fiori, con il suo corpo adagiato in una bara assemblata artigianalmente, decorata da disegni e sistemata nel salotto di casa.

Lungo le nove scene del dramma si sviluppa con ironia e tenerezza un processo di ricomposizione di questa famiglia della media borghesia britannica composta da anime solitarie, che progressivamente imparano ad ascoltarsi e a guardarsi negli occhi. Si considerano e si riconoscono. I dialoghi sono allusivi, costruiti su frasi non dette e sospese che prima manifestano timore e formalità poi, per effetto delle profonde trasformazioni interiori dei personaggi, diventano espliciti in materia di morte e di dolore, in quanto padroneggiati con consapevole serenità.

L’assunto narrativo di Cadaveri che respirano è completamente diverso. Si tratta di una sorta di thriller animato da tre personaggi uniti dal comune ritrovamento, del tutto occasionale, di un cadavere: Amy, cameriera di albergo, rinviene un morto suicida in una stanza che si appresta a pulire; Jim, proprietario di un magazzino, scopre il cadavere in una cella affittata ai clienti; all’imprenditrice Kate succede, invece, portando a spasso il cane.

Memore della lezione di Sarah Kane e Mark Ravenhill, il linguaggio della commedia esprime violenza trasferita in un sistema di battute aspre e asciutte, taglienti come lame. I dialoghi risultano segnati da continue interruzioni, gli interlocutori non si ascoltano, sembrano parlare a se stessi. Anche se nei tre personaggi la scoperta dei cadaveri avrà ripercussioni significative sulle loro vite, rimane in loro radicata e inalterata la condizione di solitudine e di infelicità. «I cadaveri – spiega la vetri nell’Introduzione – non sono altro che le immagini riflesse dei personaggi vivi, uno specchio terribile di che cosa è l’uomo davanti alla disperazione».

Così Più freddo di qui e Cadaveri che respirano possono essere letti come il rovescio della medaglia dello stesso oggetto-morte che diventa, nel primo testo, tramite per riscoprire e rigenerare una dimensione umana di sana e poetica leggerezza di fronte all’evento funebre il quale, nella seconda commedia, determina invece la cementificazione di una condizione di autoreferenzialità connessa ai personaggi, soprattutto priva di via d’uscita.
 

                               di Massimo Bertoldi

 

Teatro II

di Sergio Blanco
prefazione di Renato Palazzi

Imola (Bo), Cue Press, 2022


Anche la scena italiana, a piccoli passi, sta considerando il repertorio di Sergio Blanco, drammaturgo e regista teatrale franco-uruguaiano pluripremiato e da anni presente in pianta stabile nei quartieri alti del panorama internazionale. Altri segnali di marcato interesse provengono soprattutto dal mondo dell’editoria, segnatamente dall’intraprendente Cue Press di Imola che ha recentemente pubblicato “Teatro II” con luminosa introduzione di Renato Palazzi, preceduto dall’antologia “Teatro” del 2019.
Quello che colpisce della scrittura di Blanco è la sua limpida e originale adesione agli orientamenti drammaturgici contemporanei, riconoscibili nella mancanza di un intreccio canonico e di personaggi autentici che, di contro, sembrano dissolversi e ritrovarsi nelle parole autobiografiche dello stesso autore. Si crea, in questo modo, un sottile e bizzarro gioco di entrata e di uscita dal testo, attraverso frequenti dichiarazioni metateatrali e spiegazioni relative alla genesi dell’opera e alle difficoltà incontrate e ai procedimenti di scrittura.
Si tratta di commedie dall’andamento narrativo imprevedibile e a tratti paradossale, mosse dall’assunto definito dallo stesso Blanco: «Il mio lavoro è mentire la verità». In “Kassandra” (2008) e in “Traffico” (2020), monologhi posti in apertura e in chiusura di “Teatro II”, i due protagonisti si prostituiscono. Sono rispettivamente una migrante che parla di intolleranza e di cultura del diverso rivivendo le stesse sorti della profetessa Cassandra in fuga dalla guerra di Troia; il giovane di “Traffico” si trasforma in un killer della mafia in un crescendo esplosivo di azioni atroci e ripugnanti.
“Ostia” (2013) è un dialogo tra sorella e fratello il quale afferma: «la scrittura trasforma tutto in finzione». Così rimane, per esempio, irrisolto il loro presunto rapporto incestuoso; come è avvolto nel mistero il ritrovamento di un cadavere nella spiaggia, forse il corpo di un desaparecido gettato nel lontano Rio de la Plata, oppure indentificato in quello di Pier Paolo Pasolini. Sono situazioni mentali e paesaggistiche assai ambigue alle quali Blanco non dà alcuna spiegazione perché «la verità è che le domande e le risposte sono dentro di noi».
In “Cartografia di una sparizione” è centrale il tema dell’autofinzione evidente nel personaggio dello Spettro di Alfonso-Blanco. Invitato a Barcellona a tenere una commemorazione dedicata a Joan Brossa, grande esponente delle arti visive, diventa esso stesso il personaggio in oggetto: esplora e rivive il suo pensiero e immaginario artistico in un’ottica strettamente personale. Il testo emblematico di questa preziosa antologia di Cue Press è sicuramente “Quando passerai sulla mia tomba”, vero manifesto di perversione. Il protagonista sta organizzando la propria morte per eutanasia in una lussuosa struttura ospedaliera svizzera; sua volontà è lasciare il proprio colpo insepolto e al servizio di un giovane necrofilo in modo che costui lo possa possedere ogni notte. Il dialogo, sciolto e ordinario, crea situazioni di comicità surreale cui non mancano elementi grotteschi. E l’amplesso postumo diventa un modo per capire se «alla fine, dopo la morte, può esserci ancora qualcosa». Subentra, infine, una coincidenza del tutto emblematica: la camera 228, dove avviene la morte solitaria del paziente, è molto vicina alla villa dove Mary Shelley aveva scritto “Frankenstein”.
 

                        di Massimo Bertoldi

 

Faust
dalla leggenda al mito

di Eudocia, Spies, Marlowe,
Calderón de la Barca, Goethe, Heine, Valéry
a cura di Paolo Scarpi

Venezia, Marsilio, 2021, pp. 565


Faust non è solo il più famoso personaggio del repertorio goethiano. Soggetto paradigmatico della letteratura e della cultura europea, «Faust è indefinibile. È un mare immenso, un oceano vasto e insondabile», come scrive Paolo Scarpi nell’ampio ed esaustivo saggio introduttivo a questo prezioso volume edito da Marsilio i cui sono contenuti i testi più significativi e necessari per coglierne gli sviluppi e i cambiamenti lungo un percorso fortemente legato alle dinamiche alla Storia, che si enuclea dalla leggenda, diventa mito e poi procede verso la sua dissoluzione.

In apertura di volume si legge La storia di San Cipriano e di Santa Giustina dell’imperatrice Eudocia (401-460), racconto agiografico cui compete una sorta di funzione archetipale: la vergine Giustina respinge, nel nome di Cristo, le proposte d’amore prima di Aglaide poi del mago Cipriano, in quale aveva evocato l’aiuto di un demone malvagio introducendo, in questo modo, il tema della passione erotica con sfumature diaboliche.
L’opera cruciale, dalla quale si enucleano rielaborazioni e variazioni del mito, è sicuramente il racconto La storia del dottor Johann Faust pubblicato da Johann Spies nel 1587. Narra come questo «famoso mago e negromante […] si vendette al diavolo». Sospinto dal sogno impossibile di un sapere assoluto, accetta la dannazione eterna pur di superare i limiti della condizione umana.

Nel frattempo, il teologo Filippo Melantone, dichiarando di aver conosciuto a Wittenberg nel 1530 «un tizio di nome Faust, che aveva imparato la magia quand’era studente a Cracovia», si avvale del personaggio a sostegno della Riforma luterana e della polemica antipapale, dipingendo la Santa Sede come luogo abitato da maghi e dissoluti.
Concorre alla negatività della figura di Faust anche il coevo teatro delle marionette (Puppenspiel), sbarcato sul continente dall’Inghilterra attraverso l’Olanda.
Il clima dell’età delle guerre di religione si avverte ne La tragica storia del dottor Faust scritta da Christopher Marlowe nel 1589 al tempo di Elisabetta I. La commedia presenta i contorni di un personaggio che non è solo uno scienziato, ma si qualifica nei panni del viaggiatore, dell’uomo moderno catturato dalla smania del sapere e del dominio. «Decolla – spiega Scarpi – quello che si può considerare l’epopea di Faust, eroe negativo», nonché anima destinata alla dannazione.

Penultimo testo antologizzato è Il dottor Faust di Heinrich Heine del 1851, in cui, tra l’altro, spicca la particolare variante del diavolo al femminile (Mefistofela). Questo Poema danzato si conclude con una scena emblematica: Faust ha cercato rifugio in una chiesa per evitare la morte anche se «appartiene all’inferno, anima e corpo», mentre «Mefistofela […] danza intorno a lui, schermandolo con mille smorfie».
Si arriva alla fase epidemica e il mito di Faust si sgretola in frammenti che connotano la cifra dell’incompiuto, come ne Il mio Faust. Abbozzi, ultima opera di Paul Valery. Si tratta di una riflessione in chiave metaforica sulla presenza del Male nella società riconosciuto nel Nazismo.

La lettura di questa preziosa antologia faustiana curata con rigore scientifico e alto spesso metodologico da Scarpi, che allarga l’attenzione anche alla musica e alle tante altre rielaborazioni letterarie, è impreziosita e agevolata dalle schede dedicate al profilo degli autori e delle opere, da una ricca e aggiornata bibliografia estesa anche alla corrispettiva sitografia.  

                                   di Massimo Bertoldi

 

 

Quaderni di regia e testi riveduti
Aspettando Godot

di Samuel Beckett

Edizione critica di James Knowlson e Dougald McMillan
a cura di Luca Scarlini

Imola (Bo), Cue Press, 2021, pp. 453
 

«Dare forma alla confusione» dice Beckett a proposito di Warten auf  Godot che si accingeva ad allestire per lo Schiller Theater di Berlino nel 1975, ventidue anni dopo il debutto al Théâtre de Babylone di Parigi. Per l’edizione tedesca il drammaturgo-regista rivede e corregge il testo di Aspettando Godot adattandolo al pubblico e agli attori tedeschi. A questi ultimi suggerisce di recitare immaginando di trovarsi su una barca con una falla impossibile da tappare. È quanto riporta James Knowlson, amico e biografo dello scrittore irlandese, nella nota introduttiva a Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot, un volume di fondamentale importanza, per contenuti e rigore scientifico, che conduce il lettore in un labirinto creativo mosso da una visione dinamica e permeabile della parola teatrale.

Si legge una nuova e inedita traduzione, di grande fedeltà al testo originale di Aspettando Godot, impreziosita dalle aggiunte e dai tagli apportati dallo stesso Beckett per l’edizione originale inglese del 1954. La punta di diamante di questa pubblicazione di Cue Press è il Quaderno di regia dello Schiller Theater: sono fogli a quadretti, scannerizzati, scritti con calligrafia rapida e sicura che alterna le parti e le parole del testo in tedesco a descrizioni in lingua inglese dei più piccoli e particolareggiati movimenti degli attori, specificati anche da disegni e schemi circa le loro posizioni e spostamenti in scena. Abbondano le cancellature, con penna nera; non mancano le correzioni e le aggiunte di colore rosso. Significative risultano le didascalie: rivelano silenzi ancora più prolungati e dilatati di quelli canonici, movimenti di millimetrica precisione che riguardano personaggi e oggetti.

Il sofisticato e ricco apparato di note predisposto da Luca Scarlini diventa strumento basilare per cogliere le dinamiche espressive dell’allestimento berlinese, il cui sottotitolo è «una tragicommedia in due atti».

Così questo Warten auf Godot contiene in sé soluzioni sorprendenti e inconsuete. Basta qualche esempio. Nella scena iniziale Vladimir non raggiunge Estragon, è già in scena «a destra vicino all’albero, per metà nell’ombra»; oppure mentre lo stesso personaggio dorme, Vladimir non si muove «irrequieto avanti e indietro», come detta la didascalia del testo originale, ma cammina in senso antiorario lungo un percorso prima seguito da Estragon in senso invece orario.

Si tratta di accorgimenti – annota Knowlson – non banali: rivelano un accurato e minuzioso lavoro di regia basato su «suggestioni piuttosto che affermazioni», creando in questo modo «immagini che si rimandano a vicenda e risuonano nell’immaginazione» animata da anime spoglie guidate dall’ansia di cercarsi e poi distruggersi, appoggiandosi a dialoghi caratterizzati da intercalari secchi e ripetitivi, quasi ossessivi. Prende forma un labirinto teatrale di parole, gesti e movimenti, silenzi e sussulti, espressi da attori quasi grotteschi e imprigionati in una sequenza inconcludente di avvicinamenti e di allontanamenti. Del resto, lo stesso Beckett sosteneva che era «impossibile dipingerli in maniera naturalistica». Ossia Warten auf Godot «deve essere fatto in maniera artificiale, come un balletto» perché «è un gioco alla sopravvivenza».

Questo volume di Cue press è il primo tomo di un ambizioso progetto editoriale che prevede la pubblicazione, tra l’altro fresca di stampa, dei Quaderni di regia e testi riveduti - Finale di partita, edizione critica di Stanley E. Gontarski a cura di Luca Scarlini, per proseguire con L’ultimo nastro di Krapp e gli appunti sui Drammi brevi.


                            di Massimo Bertoldi

 

 

Dario Niccodemi e il teatro italiano del primo Novecento
Con lettere di Pirandello, d’Annunzio, Praga, Martoglio, Verga

di Carla Pisani

Roma, Bulzoni Editore, 2021, pp. 295


Carla Pisani scrive che la figura di Dario Niccodemi è «poco studiata e talvolta ingiustamente sottovalutata da una critica non sempre generosa di lodi e di consensi». Vero è che la sua attività teatrale ha offerto un contributo non trascurabile al rinnovamento della scena italiana di inizio Novecento, come assai bene dimostra e documenta il primo capitolo (Ritratto di Dario Niccoldemi) del libro in oggetto. Tuttavia, nel percorso creativo e culturale di Niccodemi si riconoscono i segni di un timbro “diverso” e “anomalo” rispetto ai canoni dell’epoca.

In primo luogo, Niccodemi matura intellettualmente a Parigi; vi si era trasferito nel 1902 per effetto dell’incontro con la star Gabrielle Réjane conosciuta a Buenos Aires, dove lo scrittore viveva dal 1884 con la famiglia emigrata e dove, poco più che ventenne, aveva avviato importanti collaborazioni giornalistiche come critico teatrale, in parallelo alla stesura delle prime commedie. Il contatto anche sentimentale con la prestigiosa attrice si traduce nella stesura di commedie di successo internazionale, tra le quali Il rifugio, L’Ariette, La Flamme. Lungo la Senna Niccodemi si ricama la figura dell’homme du monde e salottiero.

Nel 1914 si interrompe il rapporto con la Réjane e il “francese” Niccodemi si trasferisce in Italia accompagnato da un’immagine prestigiosa e autorevole di sé, tanto da essere nominato presidente della Società degli Autori, intraprendendo battaglie a favore del capocomicato contro la logica commerciale che stava entrando nelle prospettive manageriali del teatro italiano. L’urgenza delle riforme necessarie per allineare la scena nostrana a quella europea riguarda soprattutto il palcoscenico: nel 1921 Niccodemi fonda la Compagnia drammatica, primo esempio di ensemble guidata da un impresario-direttore che intende depotenziare il dominio del Grande attore di tradizione per creare un gruppo organico e attento alle ragioni e alla drammaturgia del testo piuttosto che all’esibizione di virtuosismi da mattatore.

Con Niccodemi crescono attori del calibro di Vera Vergani, Luigi Cimara, Luigi Almirante, Sergio Tofano, Niobe Sanguineti, Ruggero Ruggeri. Si confrontano con un repertorio vasto ed eclettico che spazia dall’iniziale Romeo e Giulietta alle nuove commedie dello stesso Niccodemi, da Jacques Deval a Victorien Sardeau, da Pirandello a D’Annunzio e altri coevi autori italiani.

Questa fucina di idee e invenzioni, progetti ambiziosi e visioni teatrali, rimbalzano nel ricco materiale raccolto nei Carteggi dell’Archivio di Dario Niccodemi che occupa la seconda parte del libro della Pisani. È interessante lo scambio epistolare con D’Annunzio animato dal 1911 al 1930 che consolida un’amicizia e produce un proficuo sodalizio culturale culminato nella messinscena de La figlia di Iorio.
Con Pirandello, conosciuto durante il periodo bellico, il rapporto si presenta prima complicato e ambiguo poi, via via, si consolida in corrispondenza della condivisione di analoghe impostazioni registiche maturate nell’ambito della celebre rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore.
Il rapporto con l’attore Nino Martoglio si muove sull’alternanza tra momenti di completa armonia e situazioni di inquietudine e tensioni esplose soprattutto nel 1918 all’interno della Società degli Autori.

Nel loro insieme, queste lettere diventano preziose terrese per comporre il complicato mosaico del teatro italiano dell’epoca, con le sue luci e ombre, salti verso la modernità e contraddizioni evidenti anche nell’attività della Compagnia Niccodemi della quale si leggono in appendice i profili artistici degli attori principali, il repertorio del triennio 1921-23 e l’elenco completo delle rappresentazioni del drammaturgo livornese in Italia.
Si tratta di materiali preziosi che arricchiscono la conoscenza del complesso mondo teatrale di Niccodemi che nel libro dela Pisani trova una sua adeguata e completa ricostruzione condotta con rigore metodologico e lucida impostazione interpretativa capace di alimentare nuovi percorsi di ricerca.

 

                                di Massimo Bertoldi

 

Teatro 

Teatro II 

di Aleksandr Nikolaevič Ostrovskij
a cura di Fausto Malcovati

Imola (BO), Cue Press, 2021, pp. 321 e 2022, pp. 293
 

La cultura teatrale italiana ha instaurato un rapporto intermittente con il repertorio di Ostrovskij: in parallelo ai pochi e pregevoli allestimenti di fine Ottocento, preceduti da articoli e pubblicazioni di alcune commedie, e a quelli firmati dai grandi registi del Novecento (tra i quali Tatiana Pavlova, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, Guido De Monticelli), non è corrisposto un adeguato riscontro editoriale, circoscritto alla pubblicazione di qualche singola opera in volume autonomo o miscellaneo.
Questa lacuna è arginata dall’intraprendente e attenta Cue Press con la stampa di due distinte antologie che bene illustrano il lungo percorso creativo dello scrittore moscovita capace di produrre oltre cinquanta titoli.

Sta di fatto che Ostrovskij è l’unico e autentico drammaturgo dell’Ottocento russo, se si considera che Puskin, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj e Turgenev sono, di fatto, poeti e narratori prestati al teatro. Eppure questo non basta perché «In occidente (è) quasi uno sconosciuto», scrive Fausto Malcovati nella sua luminosa ed esaustiva Introduzione in cui si ripercorrono le opere e la vita di questo fondamentale drammaturgo bersagliato dalla censura, assai apprezzato da pubblico e critica, infine promosso alla direzione dei teatri moscoviti.
Tra le tante ragioni, «tutte valide e nessuna convincente», sottolinea ancora Malcovati, si riconoscono il dominio tematico dedicato alla classe dei mercanti, rozzi, ignoranti, brutali nei rapporti domestici, secondo mentalità e stili comportamentali del tutto inattuali per le coeve platee europee; e l’adozione di una lingua diversa dai classici russi, inventata e legata alla sintassi sconnessa dei quartieri popolari di Mosca, caratterizzata da parole alterate, espressioni e esclamazioni esagerate.

In che misura la (presunta) inattualità di un testo non ne comprometta la sua bellezza, costituisce la chiave di lettura di queste commedie in cui prevalgono le donne, giovani sottomesse, ostinate, capricciose, illuse e deluse, di grande forza interiore.

Il primo volume antologizza commedie di costume dominate dal mondo variegato dei mercanti – scaltri piccolo borghesi, funzionari furfanti, artigiani – che godono di pochi diritti civili. Ne La bancarotta un ricco mercante escogita una bancarotta fraudolenta con la complicità del suo impiegato al quale fa sposare la figlia, poi gli intesta tutti i suoi averi per liberarsi dei creditori, per essere infine sconfitto da sé stesso.
Al centro di meschini bisticci matrimoniali c’è una bella fanciulla in cerca di marito, ossia La fidanzata povera in lotta tra sentimento e convenienza. È del 1859 Il temporale, ossia la drammatica storia di Katerina protagonista di un amore peccaminoso e scandaloso per i suoi compaesani, tanto da indurla ad annegarsi nel Volga. Con Cuore ardente, con cui si chiude il volume Teatro (che comprende anche (Due mariti per Avdot’ja e Un buon posto), domina il caos provocato dall’abolizione della servitù della gleba che dà via libera alla corruzione con il denaro.

A partire dal 1873 Ostrovskij abbandona la commedia e si concentra sulla favola in versi, come Lupi e pecore, testo presente in Teatro II (assieme a Il bosco, Colpevoli senza colpa) incentrata sulla figura di una ricca e ipocrita proprietaria terriera con gli abiti della benefattrice poi smascherata da un uomo altrettanto avido ma più lucido e abile stratega. Considerata il capolavoro del periodo, la fiaba Una ragazza senza dote è in balia dei tormenti sentimentali in cui si annidano le ombre tenebrose della società russa; mentre Un’attrice di talento declina nel gioco delle gelosie e degli intrighi una satira amara e pungente del mondo del teatro assai noto al drammaturgo.

In definitiva la lettura di questi due preziosi volumi arricchisce le nostre conoscenze riscoprendo la penna di uno scrittore assai raffinato e abile nella costruzione di un impianto narrativo funzionale alla rappresentazione di personaggi ambigui, contraddittori, mai banali, soprattutto specchio delle trasformazioni della società russa del loro tempo.


                      di Massimo Bertoldi

 

Un grande avvenire dietro le spalle
Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso

di Vittorio Gassman

Imola (Bologna), Cue Press, 2021, pp. 181


Rileggere oggi Un grande avvenire dietro le spalle di Vittorio Gassman, opportunamente rieditato da Cue Press, non trasmette il sapore della banale riesumazione magari pensando alla ricorrenza del centenario della nascita del grande attore; permette piuttosto di (ri)scoprire anche la vena letteraria del suo sorprendente autore che diventa «freddo e rigoroso cronachista dei fatti andati», attivando una sorta di sottile sfida tra sé e il lettore al quale suggerisce la giusta chiave di lettura: «la verità va cercata nel non detto».

Gassman pubblicò il libro nel 1981 presso Longanesi, in un periodo infelice segnato dalla depressione con la quale conviverà per gli ultimi venti anni della sua vita. Alla scrittura – applicata anche alla stesura di poesie, un romanzo e articoli vari – diede un valore e una funzione quasi terapeutica, tanto che dichiarò: «Scrivere questo libro mi ha se non altro aiutato a guarire».    

Tra le pieghe del testo si riconosce un impianto narrativo costruito sui perni ormeggianti una sceneggiatura cinematografica incentrata sulle imprese di un grande mattatore che, mescolando la finzione e la realtà, alzano il sipario, attraverso i continui flashback, su un mondo in cui si annodano storie di tradimenti e grandi amori – come i matrimoni improvvisi con Nora Ricci, Shelley Winters, Diletta D’Andrea – e all’epoca materia di rotocalchi popolari, con luminosi frammenti della carriera di attore teatrale e cinematografico.

Divisa in capitoli dai titoli spiritosi e accattivanti, questa sorta di confessione autobiografica segue un taglio cronologico. Si inizia con il ricordo degli anni vissuti da bambino a Genova e dei periodi calabresi e romani segnati dalla morte del padre; si prosegue con i primi innamoramenti, la rocambolesca parentesi militare con uno sguardo a Roma nei giorni della Liberazione, i trionfi come cestista (Gassman ha giocato nella nazionale di basket). E poi si arriva al teatro, prima con l’iscrizione all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica di Roma, poi con i debutti al fianco di attori carismatici quali Lyda Borelli e la compagnia Adani-Calindri.

A queste esperienze fondamentali a livello artistico, pur condizionate da difficoltà economiche che costrinsero il giovane e intraprendete attore ad alloggiare in squallide e malfamate pensioni, seguono i clamorosi successi, tra cui l’indimenticabile Amleto del 1952 al fianco di Elena Zareschi e Anna Proclemer e, in successione, le grandi interpretazioni degli anni Sessanta e Settanta in parallelo all’intensificarsi del rapporto, pur controverso, con il cinema lavorando, tra i tanti, con De Sica, Risi, Monicelli, Scola.

Si incontrano poi episodi assai significativi per meglio inquadrare i progetti artistici cullati da Gassman. Indicativo in merito è il Teatro Tenda concepito nel 1960 di cui l’attore-scrittore racconta il complicatissimo montaggio del tendone per tre volte scoperchiato da impetuosi temporali che continuavano a rinviare il debutto con Adelchi di Manzoni capace di coinvolgere in scena trenta attori e decine di comparse, nonché sei cavalli veri.

Così la miniera di informazioni quale è Un grande avvenire dietro le spalle, in cui sottotitolo è verosimilmente emblematico (Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso) diventa anche un prezioso e luminoso serbatoio di traiettorie culturali che disegnano significativi segmenti di storia del coevo teatro italiano, con le sue luci e ombre, cui Gassman ha dato un consistente contributo per la sua crescita.


                          di Massimo Bertoldi

 

 

Odio scrivere lettere. I romanzi attraverso le lettere 1838-80

di Fëdor Dostoevskij

a cura di Fausto Malcovati

Imola (BO), Cue Press, 2021, pp. 572


Il titolo è suggerito dallo stesso Dostoevskij: in una missiva del 1878 parla di «terribile, insuperabile riluttanza a scrivere lettere», tanto da aggiungere che «se finirò all’inferno, la punizione per i miei peccati sarà sicuramente quella di scrivere decine di lettere al giorno, non meno». Eppure ne ha scritte un migliaio, molte lunghissime, con una prosa fluida e elegante, capace di sprigionare emozioni e commozioni di grande umanità quale segno di un’anima dolente, schiva e introversa, convinta che «l’uomo è un mistero».

Queste lettere permettono di entrare nei misteri di Dostoevskij come uomo e come scrittore. Ordinate in senso cronologico, costituiscono una sorta di prelibato contorno ai principali romanzi, da Memorie del sottosuolo a Delitto e castigo, da L’idiota a I demoni fino a I fratelli Karamazov. In merito si raccontano le lunghe gestazioni e le difficoltà legate alle pubblicazioni pensando soprattutto al denaro, altro tema molto trattato in queste lettere. Con ossessione e disperazione lo scrittore lotta per la sopravvivenza quotidiana. Anche minacciato da creditori, vive in pensioni assai misere, fugge all’esteri per evitare l’arresto sempre sperando di racimolare il minimo necessario per sposarsi e poi per affrontare i problemi di salute di moglie e figli.

A questo tormentato labirinto, che condiziona non poco la produzione letteraria, si aggiunge la passione morbosa per il gioco. Dalle lettere scritte da Baden Baden, Wiesbaden e Amburgo emergono i racconti di vincite di grosse somme seguite da clamorose perdite. E poi c’è la malattia, l’epilessia, vissuta con malinconica ironia.

Tra le tante, colpiscono le lettere dedicate all’arresto e alla condanna nel 1849 per attività, considerate sovversive, a favore della libertà di stampa e dell’emarginazione dei servi della gleba. «Ho dovuto affrontare i lavori forzati: quattro anni tristi, terribili. Ho vissuto con i delinquenti, con uomini senza sentimenti umani, di falsi principi, pervertiti: non vedevo e non riuscivo a vedere, durante questi quattro anni, niente di consolante, solo la nera, mostruosa realtà».

Non mancano testi ideologici di stampo slavista che declinano il mito della Grande Russia quale guida spirituale dell’Europa in quanto unica e vera depositaria del cristianesimo, come si legge, tra l’altro, nel magnifico discorso pronunciato in occasione dell’inaugurazione del monumento a Puskin nel 1880. 

Abbondano i riferimenti alla letteratura russa a lui contemporanea. È polemico verso Turgenev per la sua posizione di sudditanza verso la cultura francese e tedesca anche se aveva scritto nel 1840 al fratello Michail che «Io Schiller l’ho imparato a memoria, ho parlato con le sue parole, sono diventato pazzo di lui». Ammira ma con un certo distacco e riserva Tolstoj e Ostrovskij.

«Il mio lavoro letterario - scrive Dostoevskij – è l’unico scopo e l’unica speranza della mia vita», indicando, in questo modo, la traiettoria interpretativa per addentrarsi nella lettura di questa splendida raccolta Odio scrivere lettere. I romanzi attraverso le lettere 1838-80 che si completa con un ricco e assai ben documentato apparato iconografico con foto di ritratti dello scrittore russo, della sua famiglia, di amici e letterati, dei luoghi della sua vita, e della riproduzione di diversi manoscritti.
 

                            di Massimo Bertoldi

 

Il traghetto di Piedicastello

di Renzo Francescotti
 


Trento, Curcu e Genovese, 2021, pp. 256
 

Romanzo del Covid 19 o meglio del “lock-down", ossia scritto nel periodo delle chiusure in seguito alla pandemia, Il traghetto di Piedicastello, come giustamente rileva il suo autore - lo scrittore-poeta-drammaturgo trentino Francescotti, autore di moltissime opere dal lontano 1966 quando, giovanissimo, aveva pubblicato Il Battaglione Gherlenda -, «Non è un romanzo propriamente, ma una serie di racconti ambientati nello stesso posto, dove i personaggi ritornano, gli avvenimenti si incastrano: è una specie di romanzo a racconti» (p. 248).

Tasselli di un puzzle, se vogliamo, petali di un fiore, dove comunque il ductus narrativo è sempre presente, non si perde mai il fil rouge legato, appunto “epicamente” al quartiere di Piedicastello, a Trento, il quartiere proletario e in gran parte anche composto da sottoproletari (Lumpenproletariat, dicevano Marx ed Engels, cari all’autore come Lenin, ossia letteralmente “proletariato di stracci”), personaggi spesso rissosi, dediti al alcol, ai margini della criminalità, prostitute etc.

Descrivere ma stando sempre attenti a narrare, secondo il paradigma molto opportuno, rilevato da Gyorgy Lukàcs nei suoi fondamentali Saggi sul realismo, solo che qui, a differenza del realismo ottocentesco, i protagonisti (e le protagoniste, indimenticabili, ossia le figure della maestra Carmela e di Wanda, bellissima ragazza “destinata” a non sposarsi mai a causa della sua condizione sociale, di figlia di una “lavandera”) sono tali solo di una “frazione” del romanzo, di un racconto e non dell'intero romanzo, come avveniva nei grandi romanzi di Balzac, di un Dickens, di un Zola o di Victor Hugo (sempre che consideriamo “realista” un romantico come Hugo, che pure si documentava sempre, per i romanzi e le tragedie, studiando la realtà, nei libri e nel dialogo con le altre persone).

La “baracca rossa”, simbolo di un'unità delle sinistre poi irrimediabilmente perduta, come la stessa esistenza fisica del luogo in questione, i bar d'antan, il traghetto che dà il titolo al romanzo storico(anche nel senso della “nouvelle histoire”, degli Annales, che certo il prof. Francescotti conosce molto bene, ossia di una storia interessata più alla dimensione antropologica, della vita e delle relative credenze che a battaglie e trattati di pace o di “tregua”), oggi sostituito da un ponte che non ha accontentato quasi nessuno, le distruzioni che hanno colpito Trento e in particolare Piedicastello, in una Stilmischung notevolissima tra italiano e trentino, un trentino che, se non fosse per Francescotti e Elio Fox, sarebbe ormai un qualcosa da “insabbiare-dimenticare”, in quanto non più funzionale alle logiche del potere finanziario-tecnologico.


                                   di Eugen Galasso

 

Oreste

di Daniele Timpano


Imola (Bo), Cue Press, 2021, pp. 38
 

Oggi Daniele Timpano – fondatore con Elvira Frosini della compagnia Frosini/Timpano attiva dal 2008 – staziona nei piani alti della drammaturgia italiana contemporanea, motivo per cui è operazione di significativo respiro culturale da parte di Cue Press ripubblicare il testo di Oreste. Scritta nel 2001, l’opera contiene in sé elementi stilistici, frammenti poetici e visioni che caratterizzano il percorso creativo dello scrittore romano.

Oreste di Timpano si confronta con il modello euripideo che, a differenza di Orestea di Eschilo, abbandona l’ambientazione arcaica e sacrale per contestualizzare la vicenda in una dimensione quotidiana dettata dalla ragione umana. Così il timore delle leggi e della politica, come le avverte lo stesso Oreste, sostituisce la voce minacciosa degli Dei.

Timpano mantiene l’ossatura narrativa euripidea: Oreste ha ucciso la madre Clitemnestra, perché colpevole di aver tradito e poi assassinato Agamennone con la complicità dell’amante Egisto; come in Euripide vive appartato dalla città ma Timpano lo veste di abiti contemporanei: il giovane attende il verdetto sulla sua sorte in uno scatolone, ossia in una sorta di prigione-grembo materno, è psichicamente turbato perché attanagliato dal rimorso e dalla paura del futuro, si presenta passivo e inetto tanto da consegnarsi alla sorella Elettra e all’amico Pilade. Analogamente gli altri personaggi timpaniani appaiono incapaci di agire, sembrano marionette ferme e prive di determinazione individuale.

Gli effetti di questa parodia si estendono anche al coro, trasformato in un complessino musicale che dialoga a distanza con i personaggi ed è più volte invitato a contenere il rumore per non disturbare troppo il malato e tormentato Oreste.
Questa lettura innovativa si intreccia con la struttura dei dialoghi che, come in Euripide, seguono lo schema del botta e risposta sostenuto da battute lunghe un verso e soprattutto capaci di garantire al testo ritmo e fluidità espressiva.

La questione del delitto: Oreste, «mai stanco di uccidere femmine», attribuisce la colpa ad Apollo e così non si assume nessuna responsabilità, sostenuto anche dalla fedele Elettra la quale ribadisce, con una battuta finale assai comica e tagliente, che è «tutta colpa di Apollo comunque: fu lui che persuase un figlio a uccidere la madre: impresa non molto popolare».
Di fatto il tribunale popolare assolve Oreste. Viene così a mancare la catarsi tragica e si restaura l’ordine, anche sociale e politico, altrimenti minacciato da un’applicazione corretta della legge. Tra mondo divino e mondo umano si crea una frattura indelebile, un senso di distanza quasi incolmabile, come del resto aveva denunciato lo spesso Euripide.

Ad approfondire questo intrigante Oreste targato Timpano soccorrono due importanti e luminosi contributi firmati da Maddalena Giovannelli (Oreste. Tra le macerie della tragedia) e da Attilio Scarpellini (Daniele Timpano contro l’innocenza della cultura).
 

                              di Massimo Bertoldi

 

 

In principio era il caos

di Cristina Sborgi


Roma, Europa Edizioni, 2021
 

«Itinerarium mentis in naturam»: potremmo definire così, mutuando l’espressione e parafrasandola da San Bonaventura («Itinerarium mentis in Deum») - ma volendo un’altra parafrasi con preciso cambio di segno è nel titolo stesso, dove il Caos sostituisce il Verbo (Logos) dell'incipit del Vangelo giovanneo - la produzione di senso del romanzo di Cristina Sborgi, laureata in lettere, giornalista pubblicista, già autrice di due romanzi prima di questo (Il venditore di tempo e L'identità rubata, Edizioni Guffi, Roma), dapprima addetta alla Presidenza del Consiglio e a Canale 5, ora residente a Merano e attiva nell'ufficio stampa della sede locale del CAI, ma in primis fiorentina, come si vede chiaramente, tra l’altro, dall’uso del verbo spengere (correttissimo, attenzione, nonostante qualche lamentela di qualche iper-purista, evidentemente dimentico del ruolo determinante per la lingua italiana dei grandi scrittori toscani), come anche in genere dalla correttezza grammaticale e sintattica, che sembra essere invece ormai quasi un “optional” per molti autori.

Ductus perfetto, dove crescendo e decrescendo si alternano con intelligenza, sempre seguendo la vicenda umana della giovane protagonista, che da Firenze va a Roma, poi a Milano e poi in montagna, forse in Val Passiria o Venosta, immergendosi nella vita rurale, studiando il tedesco e la cultura sudtirolese. Da rimproverare alla Sborgi solo una piccolissima caduta retorica nell'Epilogo (l'immagine, non la metafora, del «treno che si chiama destino» è abusata al limite dell'insopportabile e ricorda, ma decisamente in senso peggiorativo, A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiara desiderio, capolavoro teatrale anche ben trasposto al cinema di Tennessee Williams), ma in complesso anche il citato rétour è la nature viene proposto senza alcuna forzatura e senza infingimenti di sorta, quale esperienza reale di una persona, di genere femminile, colta quanto disponibile anche al lavoro manuale e alle fatiche delle camminate in montagna, che nel suo “Lebensweg” - itinerarium vitae incontra e si scontra con vari aspetti di ciò che spesso impropriamente chiamiamo “realtà”.

Concludendo, se qualche drammaturgo o sceneggiatore o regista volesse trasporre quest’opera letteraria in una pièce teatrale o in un film, il consiglio eventuale da dare (sempre con tutte le riserve nei confronti dei “consigli”, beninteso) sarebbe certamente quello di virare personaggi e plot in senso surrealistico o altrimenti espressionistico, dato che oggi una “psicologia dei personaggi” non è più possibile, se intendiamo una compiuta caratterizzazione dei personaggi stessi.

Le nostre conoscenze più raffinate in campo psicologico e la nostra concezione anche epistemologicamente fondata del “reale” non consente più di creare “personaggi a tutto tondo” che si muovono in una realtà caratterizzata come tale unitariamente. Il testo in questione, del resto, sembra proprio tener conto di questa impossibilità, facendola propria a livello di trasposizione nella scrittura.

 

                      di Eugen Galasso

 

Pedagogia clinica.
La scienza distintiva
della professione
di Pedagogista Clinico

di Guido Pesci e Marta Mani

Roma, Omega Edizioni, 2021
 

Questo testo, scritto dal fondatore della scienza in questione, la pedagogia clinica e dalla sua collaboratrice Marta Mani, rispetto a un saggio precedente, Pedagogia clinica (di Guido Pesci, Roma, Magi, 2008) e poi anche Pedagogia clinica. La pedagogia in aiuto alla persona (Roma, Omega, 2012) e a vari altri saggi specifici, su metodi e tecniche particolari, ridefinisce la pedagogia clinica stessa. È una scienza nata da un processo di osservazioni e da una attività di ricerca per definire con coerenza e prove certe l'esistenza di condotte socio-educative e culturali ostacolanti la persona, il suo equilibrio e l'inclusione sociale, una persona di cui la Pedagogia Clinica riconosce l'essenza in ogni età e in ogni momento della vita...

Sostenuta da una sempre più decisa esigenza di un cambiamento e mossa dalla prospettiva di un mutamento sociale e da un nuovo modo di sapere scientifico e socio-culturale, la realtà osservata e la scoperta delle leggi di causa ed effetto dei fenomeni, tale scienza spiegava la necessità di impegnarsi per dare alla persona dignità: Ancora: «La pedagogia clinica è una scienza indirizzata al vasto panorama dei bisogni della persona e vuole soddisfarli con modalità educative capaci di ripristinare nel soggetto nuovi equilibri e abilità nel vincere ostacoli e ogni disagio psico-fisico e socio-relazionale» (op.cit., p.57, da un'intervista con il prof. dott. Pesci, pubblicata da "La Nazione" e dal "Resto del Carlino" nel 1998, in occasione dell'istituzione dei corsi per la formazione dei pedagogisti clinici, riuniti nell'ANPEC-Associazione Nazionale Pedagogisti Clinici-formati all'ISFAR-Istituto Superiore di formazione , aggiornamento e ricerca).

Come si può evincere già da queste affermazioni, la pedagogia clinica, che si rivolge a ogni persona, di qualunque età (dunque senza le barriere stadiali poste dalla psicologia dell'età evolutiva piagetiana, fatti salvi i suoi meriti, da compensare, però, con la pedagogia di Lev Vygotskij, che tiene conto adeguatamente della socialità, "rimossa" invece da Piaget), non è "clinica" nell'accezione ospedaliera-sanitaria del lemma, ma vuole , al contrario, riscontrare e valorizzare le capacità e le potenzialità della persona stessa, procedendo sempre, come appunto la scienza (lo vediamo anche in un ambito ben diverso, come quello della virologia, oggi, in occasione dell'emergenza COVID-19) by trial and error, per tentativi ed errori (da superare, ovviamente), dunque con continue verifiche, deduttivamente come anche induttivamente, attingendo alle grandi lezioni teoriche ma anche e soprattutto pratiche di ambiti diversi anche se tra loro sempre collegati come la neurofisiologia, le diverse "scuole" della psicologia e della pedagogia, la sociologia e l'antropologia culturale e sociale, ma non solo, sempre tenendo conto degli incessanti sviluppi di queste scienze, senza dimenticare le grandi lezioni di protagonisti storici anche per lungo tempo dimenticati, come Antonio Gonnelli Cioni, grande innovatore nel campo dell'assistenza ai Sordomuti nel 1800 e a inizio del Novecento, peraltro riscoperto, certo non solo in accezione storico-filologica, da Guido Pesci in due volumi fondamentali, rispettivamente del 1999 e del 2007.

Una serie incredibile di formazioni, accumulate nei decenni dal prof. Pesci, che però sono sempre state volte all'aiuto alla persona, volontà già costantemente presente in Pesci come in altri giovanissimi negli anni Sessanta dello scorso secolo, dove le formazioni umanistiche e scientifiche si fondevano in una pluralità sintetica e sincretistica di saperi, sempre finalizzata appunto all'aiuto alla persona, di qualunque condizione e in qualunque età della vita; esperienza maturate nella Firenze già molto vivace dell'epoca, in collaborazione-scambio con personaggi come i protagonisti di "Testimonianze", padre Ernesto Balducci e don (allora) Arnaldo Nesti, il pedagogista Filippo Maria de Sanctis, ma anche lo stesso storico sindaco della città Giorgio La Pira, pontiere anche nel dialogo tra i due blocchi del mondo d'allora... Un work in progress continuo, quello della Pedagogia clinica, che si sostanzia di metodi e tecniche diversi ma convergenti come il Reflecting, il Bodywork, il BonGeste, la Cyberclinica e altri/e ancora.

 

                         di Eugen Galasso

 

Sturzflüge. Voli in picchiata.
Eine Kulturzeitschrift.
arm, unabhängig, innovativ, frech, italiano, ladino, etc. 1982–2004

di Renate Mumelter

Merano, edizioni alphabeta Verlag, 2021, pp. 272


Verso la fine del 1981, quindi quasi esattamente 40 anni fa, qualcuno in provincia di Bolzano ritenne di cantare con voci diverse dal coro mainstream della cultura locale. Lo strumento era una rivista nuova, alcune già c’erano, ma restava spazio da occupare. Da marzo 1982, col numero zero di Sturzflüge, al 2004, il libero pensiero aggirò gli ostacoli conducendo in porto 53 numeri.

Il volume di Renate Mumelter raccoglie le testimonianze di chi ideò e fondò la rivista e dei tanti autori e autrici che le diedero vita e contenuti. Un libro bilingue, come da tradizione della rivista, con illustrazioni e documentazione, compresa la sua diretta esperienza in Sturzflüge. Qualcuno purtroppo non c’è più, come Georg Engl, ma lo spirito del lavoro corale è reso chiaramente nel volume: farsi interpreti e portatori di un linguaggio diverso, aprire spazi, scendere in picchiata nel panorama culturale per aprire prospettive e svecchiarne i contorni.

La biblioteca provinciale in lingua tedesca “Dr. Friedrich Teßmann” in una delle tradizionali serate culturali di approfondimento, ha proposto il 18 dicembre 2021, con la collaborazione di Edizioni alphabeta Verlag, sostenitore ed editore dell’opera della Mumelter, la presentazione del libro con una ricca lista di ospiti, unendo l’occasione della digitalizzazione della rivista realizzata dalla biblioteca stessa, che rende i contenuti più rilevanti consultabili anche da casa. Renate Mumelter funge da anfitrione presentando al folto pubblico nella sala i vari ospiti, testimoni della lunga strada fatta in redazione o come autori e collaboratori: in primis Dominikus Andergassen e David Casagranda, Gerhard Mumelter, Benedikt Sauer, Benno Simma, Leopold Steurer, Hans Heiss, Paolo Crazy Carnevale, Nina Schröder e altri, che testimoniano anche le varie fasi tecniche in cui è passata la rivista, dalla redazione artigianale all’acquisto di strumenti più moderni, all’avanguardia per l’epoca.

Minimo comune denominatore era presentare al pubblico sudtirolese una serie di contributi alternativi ai punti di vista dei pochi che avevano sempre voce in capitolo. I presenti ricordano episodi chiave, o comici, la storica “casa rossa” al ponte Roma, fucina di esperienze tra Sturzflüge, Graphic Line – il volto tecnico della realizzazione della rivista – radio Tandem, le difficoltà superate dalla tempra testarda dei fondatori, le vicissitudini pratiche e organizzative, per la composizione dei testi, la distribuzione sul territorio, il recapito dei contributi affidato ai tempi postali... poesia, letteratura, poi ancora la possibilità di narrare la storia in altro modo, ricordata da Leopold Steurer – Der Schlern era inarrivabile per giovani storici come loro – la rottura del silenzio sulla questione del nazismo, il successo della scoperta casuale di Franz Thaler nel 1988, il numero 7 della rivista, con lo scandaloso Andreas Hofer nudo in copertina, ripreso ora per quella del volume attuale. Non mancavano le voci di autori italiani, Vittorio Albani, Paolo Crazy Carnevale, giunto col n. 23, che racconta con entusiasmo la sua esperienza. Poi il numero dedicato al ladino, passando per un’attenzione speciale all’illustrazione e alla grafica, all’arte. Fino alla testimonianza sull’ultima fase di Sturzflüge di Nina Schröder, da Berlino, che non comprendeva molto il mondo sudtirolese... Da leggere per rivivere lo spirito e la tenacia di un gruppo di giovani pionieri che hanno contribuito ad aprire gli orizzonti culturali di questa terra.


                            di Maurizio Pacchiani

 

Mario Scaccia

di Michela Zaccaria

 

Roma, Bulzoni, 2021, pp. 321


La storiografia teatrale italiana si sta sempre più arricchendo di studi e monografie dedicati agli attori contemporanei i quali, da impersonali esecutori delle impostazioni artistiche dettate dal regista, sono interpretati come soggetti portatori di cultura maturata seguendo precisi percorsi intellettuali, tali da sprigionare vere e proprie visioni e atteggiamenti critici verso la realtà, sistema teatrale compreso.

Si sono affinate, di riflesso, le metodologie e gli strumenti di ricerca, per meglio inquadrare la figura dell’attore, oltre che nella sua specificità artistica, anche in una dimensione di dialogo interattivo tra il suo essere personaggio di palcoscenico e uomo di società. Il presupposto di partenza è che l’attore sia emblematico, che contenga in sé i segni di un’epoca, oltre che depositario di un pregevole repertorio.

Questi requisiti basilari si riconoscono, tra i tanti, in Mario Scaccia, al quale Michela Zaccaria dedica un libro assai interessante, Mario Scaccia (Roma, Bulzoni, 2021, pp. 321), completo nelle informazioni relative alla carriera, attento all’analisi stilistica della recitazione e del repertorio, non trascurando una attenta e dettagliata ricostruzione storico-culturale della coeva scena teatrale italiana. Lo spessore scientifico della ricerca storica è garantito anche dal supporto di preziosi materiali raccolti in appendice: lettere, poesie e interventi pubblici di Scaccia, la cronologia degli spettacoli teatrali (1946-2010) e di quelli cinematografici, televisivi e radiofonici (1952-2010), la ricca bibliografia e sitografia aggiornata.

La mole di questi strumenti informativi concorre a definire la grandezza artistica dell’attore che la Zaccaria ricostruisce con passione intellettuale, affidandosi ad una scrittura ordinata e coinvolgente che assume i tratti di un saggio delicatamente romanzato.

Attore carismatico, comico, antiretorico, eclettico visionario e ironico, Scaccia ottiene la prima importante scrittura con la compagnia stabile di Venezia guidata da Anton Giulio Bragaglia (1948-49), che lo impegna in testi di San Secondo, O’Neill, Wilder. È soprattutto con la Compagnia dei Quattro – fondata assieme a Glauco Mauri, Franco Enriquez e Valeria Moriconi – che si rivela il talento dell’attore romano, segnatamente ne Il rinoceronte di Ionesco, La mandragola di Machiavelli, il Mercante di Venezia di Shakespeare considerato dalla Zaccaria «uno dei vertici interpretativi». La studiosa si sofferma sulle polemiche di Scaccia con i teatri stabili degli anni Sessanta, dove, a suo dire, «l’elemento meno considerato è appunto l’attore», tanto che nel 1966 fonda una compagnia propria cui collabora anche Gianna Giachetti.

«L’attore autentico è mattatore per natura»: in questa dichiarazione di Scaccia si annida la sua essenza poetica così strettamente congiunta al Grande Attore italiano come gli amati Novelli e Zacconi. Da questo legame con la tradizione, in una fase di rinnovamento del teatro italiano, deriva un senso di solitudine, quasi di isolamento, che poi si riversa nei suoi personaggi teatrali, tra i quali spiccano Bummidge de L’ultima analisi e Chicchignola, i due spettacoli targati Teatro Stabile di Bolzano e  analizzati con cura dalla Zaccaria che bene evidenza lo spessore comico, contaminato di tragico umorismo, che caratterizza anche altre celebri performances, da Aspettando Godot di Beckett a L’avaro di Molière.

Per Scaccia il teatro racconta l’uomo e la vita e, perciò, diventa visione del mondo, pungente e sarcastica. E, a proposito del maestro Petrolini, scrive in un appunto del 1992: «Se non ci fosse stato Petrolini a insegnarci il coraggio di essere stupidi, noi – con un briciolo di sentimento – come potremmo riuscire a sopravvivere in quest’arido deserto di furbizia e d’ignoranza?».
 

                            di Massimo Bertoldi

 

L’uccellino azzurro
Il fidanzamento

di Maurice Maeterlink
traduzione e cura di Annamaria Martinolli

Spoleto (Pg), Editoria & Spettacolo, 2020, pp. 213


«La produzione dell’Uccellino azzurro deve essere concepita con la fantasia pura di un bambino di dieci anni. Deve essere ingenua, semplice, luminosa, piena di gioia di vivere, allegra e immaginativa come il sogno di un bambino e allo stesso tempo maestosa come l’ideale di un genio poetico e pensatore». Così scriveva Konstantin Stanislavskij nel 1908 in occasione del suo allestimento al Teatro d’Arte di Mosca della commedia di Maurice Maeterlinck, pubblicata nello stesso anno.
Quella del celebre regista russo è una delle tante interpretazioni che hanno accompagnato la fortuna scenica e cinematografica di un testo dall’andamento fantastico, onirico, altamente simbolico e imbevuto di elementi magici.

I protagonisti della commedia sono due poveri bambini, Tyltyl e Mytil, fratello e sorella. In una notte, nella loro camera da letto, ricevono la visita della fata Berylune che li coinvolge nella ricerca dell’uccellino azzurro della felicità, il solo capace di guarire la sua nipotina da una grave malattia. Inizia il viaggio in un mondo fantastico durante il quale i due fratelli entrano in contatto anche i loro nonni morti da tempo e il loro fratellino non ancora nato; con loro agiscono la Luce, il Fuoco, il Pane, lo Zucchero, il Cane, il Gatto. Il ritrovamento del misterioso volatile, che si rivelerà un animale comune, permetterà di capire il senso della felicità interiore e spirituale e ci fare luce sugli aspetti positivi e negativi della vita.

Riletto oggi, L’uccellino azzurro rimane un’opera aperta in cui si possono «trovare rispecchiate le proprie convinzioni, immergersi in un mondo di fantasia e uscirne più sereno, vedere riflesse le proprie paure e magari superarle, e, soprattutto, trovare una ragione per andare comunque avanti». È quanto sostiene, e non a torto, Annamaria Martinolli nell’Introduzione a questo prezioso volume edito da Editoria & Spettacolo e assai pregevole per impostazione culturale e informativa: oltre a presentare una traduzione aggiornata de L’uccellino azzurro propone al lettore Il fidanzamento, commedia che rivede e innova quella precedente, tradotta per la prima volta in lingua italiana. Inoltre il libro è corredato da un ricco apparato critico dedicato alle due opere in questione e dall’Appendice in cui prova posto il saggio Sulla morte di un cagnolino dello stesso Maeterlink, in cui analizza il rapporto tra l’uomo, gli animali e la natura.

Tra le tante interpretazioni rivolte alla drammaturgia dello scrittore belga, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura edizione 1911, colpisce quella di Émile Fagnet del 1911: «Il teatro di Maeterlick è misterioso e singolare. I personaggi sembrano usciti dal mondo dei sogni. Si esprimono con parole sibilline, su un palcoscenico avvolto dalle nuvole, in una scenografia crepuscolare, Oppure, come li vedo io, sono anime infantili in corpi da adulti, ed esprimono pensieri appena abbozzati nel balbettio di parole vaghe».
 

                                di Massimo Bertoldi

 

Premio Hystrio, giovani da 30 anni

a cura da Ilaria Angelone e Claudia Cannella
 


Imola, Cue Press, 2021, pp. 133


Il volume Premio Hystrio, giovani da 30 anni pubblicato da Cue Press non è solo un album dei ricordi dedicato alla ricorrenza della trentesima edizione della prestigiosa manifestazione nata nel 1989 come “Premio Europa per il Teatro” con sede a Montegrotto Terme grazie alla lungimiranza di Ugo Ronfani, fondatore e direttore della rivista “Hystrio” dal 1988 al 1998; successivamente ribattezzato in “Premio Hystrio” nel 1999 e coordinato dalla Cannella, il progetto si trasferisce a Milano, prima al Teatro Litta, poi al Patenti e dal 2010 all’Elfo Puccini. Dalla lettura della precisa e colorita ricostruzione storica proposta in apertura di volume da Claudia Cannella – attuale direttrice della rivista “Hystrio” –, impreziosita da aneddoti e curiosità, e dalla scorsa dei nomi dei tanti premiati – attori, registi, drammaturghi – emerge uno spaccato degli orientamenti, gusti e percorsi artistici del teatro italiano degli ultimi trent’anni.

È quanto emerge dai vari contributi pubblicati in questo scorrevole e accattivante volume miscellaneo.
In ambito attorale, spiega Giuseppe Liotta, si è passati dal mattatore di tradizione al performer con il suo approccio destrutturato alla partitura testuale come, in parallelo e di riflesso, anche la regia declina variegati linguaggi scenici, dall’ermeneutica al visionario, secondo quanto emerge dal contributo di Sara Chiappori.

A questa concatenazione di trasformazioni partecipa anche la drammaturgia attraverso la crescita di filoni espressivi che Diego Vincenti riconosce soprattutto nel Teatro di Narrazione, nelle contaminazioni della parola poetica e nella frammentazione del corpo testuale propria del teatro postdrammatico. Sono molti gli attori under 30, e lo ricorda puntualmente Laura Bevione, per i quali la vittoria del “Premio Hystrio” è stata un vero e proprio trampolino di lancio; discorso analogo vale anche per gli autori under 35, quali emergono dallo scritto di Ilaria Angelone.

Oltre a questi pregevoli interventi, tanto brevi quanto incisivi per completezza di informazione e spunti culturali, il libro di Cue Press presenta un ricchissimo e assai documentato apparato fotografico che diventa articolato racconto attraverso le immagini dei primi trent’anni di attività della manifestazione, che via via ha saputo ritagliarsi un ampio spazio di credibilità e notorietà nel panorama italiano, tanto da proiettarsi nel futuro con un progetto ambizioso e complesso: «A partire dal 2022 -  annunciano Angelone e Cannella – vogliamo realizzare un sogno che ci frulla in testa da qualche anno: un Hystrio festival interamente dedicato al teatro under 35 […], vorremmo selezionale e proporre i migliori spettacoli di giovani compagnie, leggere pubblicamente copioni di giovani autori, organizzare masterclass per giovani operatori, critici e addetti stampa».

   
                                 di Massimo Bertoldi

 

Akropolis

di Stanisław Wyspiański

 

a cura di Andrea Ceccherelli e Katarzyna Woźniak
Imola, Cue Press, 2020, pp. 112

 

Akropolis di StanisÅ‚aw WyspiaÅ„ski è noto per la messinscena laboratoriale realizzata da Jerzy Grotowski nel 1962, che aveva trasformato l’originale carattere storico-agiografico del dramma in una performance capace di ricreare l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz attraverso una serie di azioni fisiche dal ritmo variabile culminate nell’entrata dei personaggi nei forni crematori costruiti da loro stessi nel corso dello spettacolo.
L’ambientazione è pretestuosa: il regista polacco intendeva trasferire «in un lager tutti i miti che rappresentano la civiltà europea» e, di riflesso, intendere Auschwitz come luogo emblematico del “giudizio” sui valori occidentali. È quanto sostiene Darisz KosiÅ„ski nella postfazione Il lager come punto zero del teatro. “Akropolis” di Jerzy Grotowski pubblicata in questo prezioso volume edito da Cue Press che presenta per la prima volta la traduzione italiana del testo di WyspiaÅ„ski.

Scritto fra il 1903 e il 1904, Akropolis è un complesso dramma in versi visionari e marcatamente simbolici in cui si intrecciano e si rincorrono materiali attinti dalla cultura classica greco-romana, ebraica, polacca. Il contesto narrativo è localizzato nella collina del Wawel di Cracovia, il principale sacrario della memoria nazionale e residenza dei re polacchi, dove si animano surreali dialoghi tra statue e dipinti della cattedrale della città, in cui solitamente occupano posizioni poco visibili al visitatore oppure sono strati rimossi e trasferiti altrove.

Questi antimodelli, privi di spirito patriottico, creano un cortocircuito tra passato e presente, tra civiltà e culture diverse. Così, nel secondo atto Cracovia e Troia si fondono nel dialogo amoroso tra Paride e Elena, e nell’ostinazione di Ettore a combattere per la gloria; il terzo atto è incentrato sulla storia biblica di Giacobbe; il quarto, come il primo, si svolge all’interno della cattedrale è si consuma intorno alla figura di Davide, il «re cantore», e al Salvatore, in una prospettiva poetica di sintesi religiosa.

In questo tappeto di sequenze narrative si annodano i fili di un disegno unitario declinato nel fantasmagorico e, soprattutto, finalizzato al recupero sincrono di tutta «la Storia della cultura, sacra e profana, biblica e pagana, antica e contemporanea, polacca e universale», secondo quanto scrive Andrea Ceccherelli nella corposa introduzione Per leggere (e capire) Akropolis che, oltre ad essere uno strumento di lettura fondamentale per addentrarsi nell’universo intellettuale del drammaturgo e pittore polacco, offre una chiave di lettura di Akropolis modernamente accattivante: «poiché il “teatro enorme” di WyspiaÅ„ski nasce da un’immaginazione quasi cinematografica, che unisce luoghi, persone, cose, tempi in un insieme in movimento che la Decima Musa […] potrebbe realizzare in modo efficace, chissà che Akropolis, le cui qualità cinematografiche erano già state notale dal regista Teofil TrzciÅ„ski, che l’aveva messa in scena nel 1923, non possa un giorno farne una sceneggiatura intrigante anche per un film d’animazione, realizzato naturalmente al computer».


                               di Massimo Bertoldi

 

Antologia del grande attore

di Vito Pandolfi
prefazione di Goffredo Fofi

 


Imola (Bo), Cue Press, 2020
 

Per meglio inquadrare l’importanza dell’Antologia del grande attore è necessario connotare il suo autore: figura poliedrica, Vito Pandolfi si distingue nel Secondo dopoguerra in qualità di regista di grandi attori, commediografo, critico teatrale, fondatore della compagnia “I comici della strada” –  composta, tra gli altri, dai giovani Tino Buazzelli, Rossella Falk, Paolo Pannelli, Arnoldo Foà –  e autore di libri fondamentali come La commedia dell’arte (1956), Il teatro drammatico dalle origini ai giorni nostri (1959), Teatro tedesco espressionista (1965), Teatro borghese dell’Ottocento (1967), Regia e registi nel teatro moderno (1973).

Spetta a Cue Press il merito di aver rieditato un testo in parte dimenticato ma fondamentale come è l’Antologia del grande attore (1954) che Goffredo Fofi nella sua Prefazione definisce: «Il monumento che Pandolfi ha eretto alla nostra tradizione attoriale, alle sue figure più rappresentative, alle sue varianti, alle sue potenzialità di ieri e, indirettamente, per quanto hanno consegnato e in vario modo insegnato alla storia dello spettacolo, di oggi». Il volume in questione è un’opera di grande erudizione e di ampia conoscenza delle variegate declinazioni e evoluzioni artistiche dell’attore come si sono manifestate dall’Ottocento alla meta e oltre del Novecento che l’autore ripercorre attraverso una sequenza di voci monografiche relative ai vari protagonisti della scena modellate con il ricorso agli scritti degli attori, a testimonianze di spettatori autorevoli e personaggi e critici illustri come Gramsci e Gobetti, Bracco e Marinetti, d’Amico e Simoni, Alvaro e Zavattini.

Quello che emerge è la storia della figura del grande attore, dalla sua affermazione al suo declino, lungo un intrigante percorso che si enuclea da estratti dalle lezioni di declamazione d’arte drammatica di Antonio Morrocchesi agli scritti e lettere del mazziniano Gustavo Modena alle pagine di Anton Giulio Bragaglia dedicate al napoletano Antonio Petito.
Sono esemplari le pagine tratte dai Ricordi e studi storici di Adelaide Ristori a proposito di Mirra di Alfieri, suo cavallo di battaglia; come colpiscono per profondità analitica le parole di Tommaso Salvini su Re Lear e sul carattere di Jago.  

Dopo fondamentali attori del calibro del napoletano Edoardo Scarpetta, Ermete Novelli, Virgilio Talli, Ermete Zacconi, si incontrano Eleonora Duse descritta da Pirandello («in lei tutto è interiormente semplice, spoglio, quasi nudo»), il trasformista Leopoldo Fregoli immortalato dall’autorevole Silvio d’Amico, e Ruggero Ruggeri che segna l’inizio del declino del vecchio interprete («ci dà l’immagine di un passato svanito, è come uno specchio offuscato», sostiene lo stesso Pandolfi), con Giovanni Grasso e Angelo Musco si entra in contatto con il teatro siciliano.
Se Ettore Petrolini sposta il baricentro dell’attenzione sul versante dell’ambito romano, Raffaele Viviani ci fa conoscere il varieté di stampo napoletano.

L’Antologia del grande attore si conclude con una serie di documenti che indicano, da un lato, l’esaurirsi del filone del teatro di prosa di tradizione e interpretato dal grande attore, dall’altro lato, la parallela affermazione del musical-hall e del cinema, come indicato dall’attività artistica de I Fratellini, di Totò raccontato da Cesare Zavattini, dalle dichiarazioni di Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Anna Magnani di cui parla Corrado Alvaro.


                          di Massimo Bertoldi

 

Il teatro dei gesuiti.
La pedagogia teatrale,
la scena europea,
il teatro di evangelizzazione

di Giovanni Isgrò


Bari, edizioni di pagina, 2021, pp. 228.


In parte oscurato, a livello storiografico, dallo spettacolo rinascimentale e barocco, il teatro dei gesuiti manifesta una sorprendente vitalità artistica e creativa che concorre a definirlo come «il fenomeno più complesso e ricco di varianti del panorama europeo (e non solo europeo) dei secoli XVI e XVII e di parte del XVIII». È da questa considerazione che si enuclea la meticolosa e puntuale ricerca condotta da Giovanni Isgrò.

A partire dalla sua fondazione, la Compagnia di Gesù capisce che il teatro, piuttosto che demonizzato e vietato, può diventare un mezzo e strumento formativo potentissimo per l‘educazione morale, spirituale e morale.
Non sorprende, quindi, trovare la voce teatro nelle sua varie declinazioni negli studi curricolari dei collegi d’Europa, veri e propri epicentri culturali e sorta di “laboratori permanenti” di pratiche legate alla drammaturgia testuale e a quella performativa attraverso esercizi di memoria e di recitazione di dialoghi e commedie.

Assumendo spunti e indicazioni dagli Esercizi spirituali del fondatore Ignazio di Loyola, gli attori, come i danzatori e i figuranti, filtrano il personaggio di competenza in un processo di interiorizzazione spirituale che rivive il Verbo divino, diventando motus animi. È questo il grande impulso innovativo prodotto dalla pedagogia teatrale gesuitica, che Isgrò segue nelle sue manifestazioni organizzando una sorta di avvincente viaggio storico-geografico.

La partenza è fissata al Collegio Mamertino di Messina, dove fu allestito nel 1558 il Philoplutus di padre Francesco Stefano, uno spettacolo embrionale perché ricco di ingredienti e soluzioni estetico-formali poi diffuse e approfondite a Palermo, in parallelo a quanto si stava affermando in Spagna. Qui i gesuiti si concentrano maggiormente sullo spettacolo all’aperto e dettato dalle ricorrenze religiose, tra le quali domina la festa del Corpus Christi.

La diffusione capillare dell’ordine in Italia e in Europa alimenta lezioni teoriche e espedienti scenici tanto originali quanto eterogenei: perciò si avverte la necessità di disciplinare i vari linguaggi attraverso precisi e canonici riferimenti teorici e pratici. In merito, come bene spiega Isgrò, risulta fondamentale il ruolo epicentrico assunto dalla scuola gesuitica del Collegio Romano.

Per capire meglio in che modo il teatro gesuita si dimostri permeabile e capace di radicarsi nel territorio, assumendone i linguaggi dello spettacolo in uso e poi rivisitandoli secondo i propri canoni espressivi e spirituali, è utile leggere le tante testimonianze seicentesche raccolte nel corso del Seicento in Spagna, Italia, Francia, Germania, Polonia, Portogallo. Indicano la grande capacità di compiere azioni missionarie anche in modo itinerante elaborando, di volta in volta, sofisticati ed efficaci sistemi comunicativi e di persuasione, sempre legati al linguaggio dello spettacolo, diffusi nelle piazze, campagne, quartieri popolari.

Non meno trascurabile e significativa si presenta la declinazione del teatro nel progetto di evangelizzazione e conversione dei popoli del mondo extraeuropeo che Isgrò segue lungo un percorso che considera il contatto dell’ordine con gli Indios in Mexico, in Perù e Paraguay.
Se in America l’esperienza dell’Ordine di Gesù, oltre che spirituale e religiosa, fu anche culturale e assistenziale, contribuendo ad alleviare in parte la povertà delle classi popolari, ben diverso e assai tormentato risulta il bilancio dell’impatto con il Giappone, culminato nei primi anni del XVII secolo nel martirio di migliaia di religiosi e nella distruzione di tutti gli edifici deputati all’esercizio delle fede cattolica.


                             di Massimo Bertoldi

 

Anne-Marie La beltà

di Yasmina Reza
traduzione di Ena Marchi e Donatella Punturo


Milano, Adelphi, 2021, pp. 70
 

Commediografa e scrittrice francese, la pluripremiata Yasmina Reza staziona ormai stabilmente nell’Olimpo della drammaturgia contemporanea. Sui palcoscenici italiani le sue commedie godono di una considerazione ancora parziale mentre maggiore considerazione è riscontrabile in campo editoriale, segnatamente da parte di Adelphi che annovera nel suo catalogo testi teatrali – Il dio del massacro, «Arte» (recensito da «Il Cristallo»: https://www.altoadigecultura.org/recensioniLibriNew.php?idT=41&argo=&mate=N),
Bella figura – e due splendidi romanzi (Felici e felici e Babilonia).

A queste pubblicazioni si aggiunge Anne-Marie La beltà, un monologo intenso e coinvolgente, tutto giocato sul flusso della parola torrenziale che intreccia il realismo alla lucida follia, l’ironia alla malinconia, le banalità quotidiane ad un tessuto di riflessioni profonde, ponendo la girandola dei personaggi su una scacchiera dove le pedine fanno mosse ora banali ora imprevedibili.

Realtà e finzione, in un gioco ormeggiante la formula del teatro nel teatro, definiscono la loro forza interattiva a partire dall’imput narrativo: una anziana ex attrice di fantasia, Anne-Marie Mille, immagina di essere intervistata da giornalisti inesistenti in occasione della morte della celebre collega Giselle Fayolle, chiamata Gigi, conosciuta in un teatro parigino a diciannove anni e con la quale aveva recitato, tra l’altro, Berenice di Racine.

Ora Anne-Marie, vedova di un marito noioso e petulante, ha al ginocchio una protesi, sente sempre freddo, si lamenta della pressione alta e della mancanza di nipoti; tuttavia le sue parole sprigionano vitalità, disegnano illusioni, ritagliano dalla memoria frammenti di positività alternata alla tristezza simile allo spleen. «Ho le ali ai piedi. Quasi», anche a teatro «aspetti per tanto tempo la tua ora, può perfino capitare che arrivi giusto per un po’ prima che la ruota giri e faccia di te un’ombra». Sono le parole di un’attrice sempre impegnata in ruoli secondari ma legata da una sorta di cordone ombelicale al mondo artistico del teatro e alle sue dinamiche relazionali, fino a confondere il piano della vita con quello del palcoscenico.

Nel suo impetuoso procedere monologante, l’attrice racconta, per esempio, il grigiore quotidiano della cittadina mineraria in cui è nata, ravvivata da una piccola e dilettantesca compagnia teatrale locale che per lei risulta di abbagliante seduzione a partire dal direttore di cui scoprirà la tomba in occasione del funerale dei suoi genitori.
Questa ragazzina triste e sognatrice, che ritaglia le foto di Brigitte Bardot dai giornali, cerca la fortuna al Théâtre de Clichy della capitale francese, dove continuerà a nutrire il gioco delle illusioni con il riso beffardo del fallimento ma non della sconfitta, tanto che alla fine, quasi a voler chiudere il cerchio della sua esistenza e ponendo il teatro come antidoto contro la morte – ricorda tutti i nomi degli attori di provincia applauditi negli anni dell’infanzia. Ecco perché la commedia si intitola Anne-Marie La beltà.
 

                            di Massimo Bertoldi

 

Quello strano rumore

di Manuel Raise

 

Romagnano al Monte (SA), BookSprint, 2020


Quello strano rumore di Manuel Raise è un romanzo che assembla esperienze e fatti di vita, ricordi, pensieri, sogni, prospezioni verso il futuro, possibilità lasciate cadere ma almeno inconsciamente esplorate/vagliate, da parte di un musicista (autore dei testi di canzoni, cantante suonatore di tromba) che fa anche altro, che si avvicina al mezzo secolo di vita, che ha un rapporto interrotto con la moglie e due figli, ormai maggiorenni, nato e cresciuto in Alto Adige, tra Bolzano e Laives, cittadina che ingiustamente molti considerano ancora "quartiere dormitorio" di Bolzano/Bozen (la definizione non è "antica" ed è di un operatore culturale).

Si tratta di un monologo interiore, insomma, che però a differenza dei classici del genere (la Recherche proustiana, l'Ulysses di Joyce, le opere teatrali ma anche i romanzi di Samuel Beckett, in parte  L'uomo senza qualità di Robet Musil, i romanzi italiani di Italo Svevo, Ottiero Ottieri, Giuseppe Berto) è estremamente leggibile. Non comporta né difficoltà lessicali, dato che il linguaggio è molto vicino a quello parlato e gergale-consueto, evitando nel modo possibile termini delle microlingue (scientifiche, psicoanalitiche, filosofiche e altre) né di tipo sintattico, essendo nettamente prevalente in esso la struttura paratattica (proposizioni principali, discorso diretto) e invece quasi assente quella ipotattica (proposizioni subordinate, anche solo di primo grado), né lunghe riflessioni di tipo esistenziale, tipo quelle di autori e autrici che, come si suol dire, "riflettono considerando solo il proprio ombelico".

Forte la problematica personale, quella familiare, pochi ma certo non assenti gli accenni alla socialità (da parte di un autore sempre attento) agli "ultimi", assente la "politica" come la intendiamo in genere (e la intende anche Cenerentola, sempre impegnato in iniziative di solidarietà come durante il terremoto in Emilia nel 2012), in un'opera nella quale la quotidianità non esclude la riflessione sull'esistenza o meno (propendendo, tra l'altro con una certa per la seconda opzione) di Dio, riproponendo in forma "popolare" l'antica questione/querelle di Agostino d'Ippona e poi di Leibniz (ma non solo loro) "Si Deus, unde malum" (Se Dio c'è, da dove proviene il male), dove il "male" in questo caso non è tanto la colpa (peccato, per i cristiani) ma anche proprio la concreta sofferenza fisica, la malattia.

Stile che non allontana, anzi risulta accattivante, dove l'inserzione peraltro molto "limitata" di lemmi popolari, assurdamente considerati "volgari" (almeno da Pasolini in poi in Italia, dove invece l'Ulysses joyciano di "gros mots-parolacce" aveva già fornito un vasto campionario in inglese o meglio nel plurilinguismo del grande autore irlandese e poi nelle traduzioni, ma non solo e comunque non esiste un terminus a quo, la letteratura ha saputo includerli nella scrittura, ad onta di assurdi moralismi) problematiche certo specifiche (ogni persona ne ha di proprie, necessariamente, dato che nessuna persona è uguale alle altre, quanto al "vissuto") ma in gran parte condivise e condivisibili da parte di molti/e.

Quello strano rumore di Manuel Raise è in altri termini un "romanzo", leggibile anche staccando i vari "racconti", ossia inframezzando delle pause, anche alternando questa lettura ad altre. Dove "quello strano rumore", ma è quasi inutile ribadirlo, in quanto il lettore (la lettrice) lo capisce da sé, è il "perturbante" (das Unheimliche, Sigmund Freud dixit), quanto sfugge alla razionalità e alla logica corrente dell'Io, ossia della coscienza.

 

                        di Eugen Galasso

 

Dire luce.
Una riflessione a due voci sulla luce in scena

di Cristina Grazioli e Pasquale Mari

 

Imola (Bo), Cue Press, 2021


Nell’ambito della storiografia delle discipline dello spettacolo sono veramente pochi gli studi dedicati all’illuminazione scenica. Probabilmente incide il prevalere storico della concezione testocentrica che orienta l’attenzione primaria sulla parola e sul movimento degli attori all’interno di una cornice scenografica. Tuttavia nel corso del Novecento sono maturate fondamentali esperienze artistiche che hanno trasformato il supporto illuminotecnico da accessorio a componente drammaturgica nella sintassi dello spettacolo (per esempio i percorsi creativi di Josef Svoboda, Robert Wilson, La Fura del Baus).

Da queste sommarie indicazioni deriva in un certo senso Dire luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena, un libro importante e assai originale perché a scriverlo sono Cristina Grazioli, docente di Storia ed Estetica della Luce in Scena e Teatri di Figure all’università di Padova, e Pasquale Mari, affermato Disegnatore Luci e Direttore della Fotografia. I due autori, l’uno da una prospettiva storico-teorica e l’altro da un’ottica pratica, animano una sorta di dialogo di ascendenza platonica per riflettere e argomentare in che modo la “grammatica del vedere” sia strettamente legata alla “grammatica della rappresentazione”, e come la luce e il colore producano, nella loro impaginazione estetica, uno stretto rapporto di interdipendenza, capace di rendere autonomo lo spettacolo visivo.

Il tema della luce si declina in dodici ‘voci’ in corrispondenza dei mesi dell’anno con i loro effetti cromatici in quanto, come afferma il menzionato V. Pogacar, “le interpretazioni del colore percepito […] interferiscono con il campo delle valutazioni psicologiche e simboliche che hanno principalmente origine dalle nostre esperienze e raffronti con i cicli naturali quotidiani e annuali”.
In questo modo queste ‘voci’ – Invisibilità, Materia, Scrittura, Polvere, Buio, Colore, Movimento, Voce, Trasparenza, Atmosfera, Botanica, Aria – rinviano a corrispettive situazioni di uso della luce sul palcoscenico.

Il libro è corredato da un imponente e fondamentale apparato iconografico con riproduzioni fotografiche di materiali di varia natura che bene e con coerenza visualizzano il discorso dei due autori: sono opere d’arte, oggetti, fotografie di spettacoli di prosa, di lirica e cinematografici, anche locandine.

Dire luce è un libro interdisciplinare che pone le arti visive su una scacchiera con le pedine che si muovono continuamente, animando un lucido e intrigante gioco capace di abbattere i confini dei vari ambiti dello spettacolo e nel contempo creare una rete di brillanti connessioni espressive.
 

                     di Massimo Bertoldi

 

Neanche gli Dei

di Isaac Asimov

 

Milano, Mondadori (Urania Collezione), 2021, pp.
 

Partendo da un'affermazione del grande poeta e drammaturgo del primo Ottocento Friedrich Schiller, secondo la quale contro l’imbecillità e l'ignoranza non possono nulla, neppure gli dei, lo scienziato- scrittore Isaac Asimov (1920-1982), autore di tante importanti opere di letteratura fantastica e “gialli”, ma sempre “hard”, ossia con un deciso ancoraggio scientifico e anche di saggi di alta e altissima divulgazione scientifica, non solo nel campo della biochimica, qui realizza un’opera che è quintessenziale per la sintesi tra letteratura e scienza: se nella prima parte (il romanzo si può leggere come un trittico di tre racconti anche, volendo, autonomi-a sé stanti) si ha la messa in discussione delle falsità nella scienza, che si muove notoriamente “by trials and errors” (per tentativi ed errori), ma poi raggiunge, appunto falsificando e verificando (per esprimersi in termini popperiani), una verità dimostrata, nella seconda lo scienziato, formato dalle “scienze dure” ipersperimentali ci parla, simpaticamente di psicologia o meglio di neurofisiologia, mostrando come le due metà cerebrali con la loro relativa prevalenza, quella addetta al ragionamento logico, al linguaggio (parte sinistra, emicefalo sinistro) e quella creativa (emicefalo destro) possano felicemente convivere e fondersi, mentre nella terza ed ultima sezione si ha una sintesi, anch'essa oltremodo felice, tra le due prime parti e sezioni, con un invito alla tolleranza reciproca tra culture e dunque mentalità diverse (quella terrestre e quella lunare) con un uso straordinario dello humor, del resto ereditato dalla sua cultura d'origine (era un ebreo russo, prontamente emigrato con la famiglia negli States) ma poi sviluppato in forma straordinaria.

Il fondatore delle tre leggi della robotica, l'autore del ciclo di romanzi della “Foundation” e di quello dei robot, in questo romanzo “extraciclico”, quasi un “cuneo” tra le opere “fondative”, riscoperto di recente e corredato nella traduzione italiana da un bel saggio di Sandro Pergameno, che sa contestualizzare biograficamente ma anche storicamente l’opera dell'autore, dimostra ancora una volta di saper fondere narrazione e rigore scientifico in maniera impeccabile, tanto che anche chi è meno addestrato al pensiero scientifico troverà qui un intelligente accesso (peraltro importante in tempi di crisi della cultura tout court anche a causa della pandemia, come dimostrano rilevazioni e tests effettuati sia nelle scuole medie superiori sia all'università) al sapere e alla conoscenza globalmente intesa. E scoprirà un autore che, senza riguardi di carattere metafisicheggiante o para-teologico afferma, peraltro in continuità con la tesi cosmologica invalsa da Giordano Bruno fino a Stephen Hawking, che “una volta avute le prove che esiste anche un secondo universo, allora è possibile che ne esistano in numero infinito” (Neanche gli Dei, op.cit., p.230).
 

                       di Eugen Galasso

 

Il segno di Ustica
L’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità

a cura di Andrea Mochi Sigismondi

 

Imola (Bo), Cue Press, 2021, pp. 319

Il segno di Ustica è un libro molto importante e per diversi motivi: da un lato, conserva la memoria del 27 giugno 1980 quando un Dc-9 dell’Itavia con 81 persone a bordo precipita in mare non per “cedimento strutturale” ma per essere stato abbattuto nel corso di un’azione di guerra tra aerei di diverse nazioni, alcune alleate con l’Italia; dall’altro lato, dà voce e respiro alla stessa memoria attraverso L’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità come recita il sottotitolo del volume curato con maestria da Andrea Mochi Sigismondi, una delle anime assieme a Fiorenza Menni di questo fondamentale progetto condiviso con l’Associazione dei parenti delle vittime guidata dalla caparbia Daria Bonfietti.

“L’incontro con la strade di Ustica – afferma il curatore – è una di quelle esperienze che sono in grado di cambiare la prospettiva attraverso cui guardi il mondo”. Ed è la stessa sensazione che si avverte via via leggendo i tanti e variegati contributi di questo libro correlato da un eccellente apparato iconografico. L’impaginazione assembla materiali divisi per sezioni tematiche, per “costruire immagini mentali”, perché “per percepire l’enormità dell’accaduto bisogna accostarsi a un relitto composto da migliaia di frammenti recuperati a 3700 metri sotto il mare”, sottolinea ancora Mochi Sigismondi.

La prima sezione del libro, preceduta da una luminosa intervista alla sociologa Daria Bonfietti, si apre con il percorso indirizzato a “Il Museo per la Memoria di Ustica” allestito a Bologna e inaugurato nel 2007 e dove trova ospitalità l’installazione permanente di Christian Boltanski. All’intervista alla semiologa Patrizia Violi, che spiega come l’arte e la cultura possano sviluppare nuove interpretazioni su Ustica, seguono quelle al sociologo Roberto Grandi e alla storica dell’arte Maura Pozzati.

In “Il teatro, la musica e la danza”, la parte più corposa del volume, si raccolgono gli spettacoli legati alla vicenda di Ustica avviati nel 1992 dall’azione collettiva Le Antigoni della terra creata da Marco Baliani. A raccontarli sono gli stessi ideatori e interpreti attraverso la formula della conversazione. Tra i tanti, spiccano i nomi di Marco Paolini con il suo Canto di Ustica e I-TGI Racconto per Ustica, Giovanna Marini, Pippo Pollina, Virgilio Sieni con Di fronte agli occhi degli altri, Marta Cuscunà, Motus.

Di rilievo è anche il ricco materiale raccolto nel capitolo dedicato a “La poesia”, con le dichiarazioni di nomi di spicco quali Francesca Mazza, Mariangela Gualtieri, Enzo Vetrano, Elena Bucci e Marco Sgrosso, fino a Roberto Latini, che ricordano le undici edizioni della manifestazione Notte di San Lorenzo tenuta di fronte al Museo per la Memoria di Ustica con la partecipazione di prestigiosi poeti.

Significativa è anche la partecipazione de “Le arti visive”, a dimostrazione dell’urgenza comunicativa avvertita dagli artisti contemporanei italiani come bene spiegano Lorenzo Balbi – direttore dell’Area Arte Moderna e Contemporanea dell’Istituzione Bologna Museo – e Tomaso Mario Bolis, che introducono i lavori creativi illustrati da Flavio Favelli, Giovanni Gaggia, Giuseppe De Mattia, Lamberto Pignotti.

Simili al coro di una tragedi greca, il  susseguirsi di queste voci -  di attori, cantanti, ballerini, fotografi, studiosi, poeti, artisti, musicisti – rivela in maniera trasversale il contributo fondamentale dell’arte e dello spettacolo per la conservazione della memoria di quella maledetta strage, di quel volo spezzato, del suo precipitare negli abissi indefiniti, per poi trovare quella “insepoltura”, che l’immaginario alimentato dalle arti sceniche e performative può rendere inimmaginabile per mantenere viva la coscienza civile unita alla rabbia di fronte alle tante menzogne dette e scritte.

               
               di Massimo Bertoldi

 

Piccola trilogia della morte

di Maurice Maeterlick

 

a cura di Luca Scarlini
Imola (Bo), Cue Press, 2021, pp. 55

 

Indiscusso maestro del simbolismo, Maurice Maeterlinck è noto soprattutto per Pelléas et Mélisande (del 1892, poi tradotta in musica da Debussy) e L’uccellino azzurro (1909) che, tra l’altro, gli hanno permesso di ottenere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1911. Si tratta di opere maggiori che preludono a certe visioni e linguaggi sperimentali praticati nel Novecento, da Samuel Beckett a Tadeusz Kantor, da Jan Fabre a Jon Fosse.

Il laboratorio dello scrittore belga aveva già prodotto una sorta di antefatto quando fu pubblicata la raccolta di tre atti unici La piccola trilogia della morte. Era il 1891. In un periodo dominato dalle commedie tardo romantiche e dalle commedie di stampo naturalistico, questi testi sembravano delle meteoriti arrivate dal nulla «anche se le primattrici dell’epoca fecero di tutto per rappresentarli», ricorda Luca Scarlini nell’introduzione del volume da lui stesso curato e tradotto.

Il tessuto narrativo è dominato da dialoghi sospesi e pregni di attesa, animati da personaggi in bilico tra l’umano e l’etereo, immobilizzati e ansiosi, sospinti dal volere vedere la fioca luce di una candela in un universo buio.
osì il protagonista de L’intrusa è un cieco veggente: «io vedo cose che voi non vedete», urla ai suoi famigliari raccolti nella sala «molto scura in un vecchio castello» e angosciati per le sorti di un parto complicato, frutto di matrimonio consanguineo, che mette a rischio la vita della donna. I personaggi sibilano le parole, domina il silenzio della morte, dall’esterno si percepiscono rumori e suoni sinistri.

In un’atmosfera dal sapore bruegheliano si consuma il secondo dramma, I ciechi: in una foresta, di notte, un gruppo di ciechi guidati da un prete aspetta l’arrivo di qualcuno che li riporti nell’ospizio. Il reticolato dei simboli inserisce nei loro dialoghi di attesa e speranza, paura e smarrimento, il volo di uccelli migratori, i tuoni e il vento impetuoso che porta la neve. Anche se il prete muore, sembra che l’arrivo improvviso del cane dell’ospizio costituisca la salvezza per questi non vedenti, tuttavia a ogni loro piccolo movimento fisico segue il dolore provocato dai rovi circostanti fino a quando sopraggiunge un imprecisato essere minaccioso e funesto.

Non ci vedono nemmeno Le sette principesse del terzo e conclusivo atto unico. Dormono, colpite da un misterioso morbo tenendosi per mano «in abiti bianchi con le braccia nude […] sui gradini [della sala di marmo] adorni di cuscini di seta pallida». Le osservano il Re, la Regina e il Principe azzurro giunto da lontano con l’intento di sposare una di loro, Ursule. La scena è in chiaro scuro, i personaggi sembrano fantasmi, la parola disegna traiettorie di ossessioni e di smarrimento. Grazie all’azione del Principe, tutte le dormienti si svegliano ad eccezione di Ursule. «Un sipario nero cade bruscamente», informa la didascalia conclusiva.

Opera visionaria e a tratti fiabesca, caratterizzata da sottili e delicati interscambi tra suoni e parole, La piccola trilogia della morte parafrasa la sconfitta dell’eroe moderno declinata in un ventaglio di azioni frustrate da nemici e ostacoli superiori e invisibili. Ed è questo il tratto della sua sorprendente modernità.

 

                          di Massimo Bertoldi

 

Itinerari della critica teatrale italiana del Novecento

a cura di
Mariagabriella Cambiaghi
e Gianni Turchetta

 

Roma, Mimesis, 2020, pp. 230

Oggi la critica teatrale è prevalentemente relegata ad una posizione marginale. Nelle testate giornalistiche è concentrata in piccoli spazi simili a finestre di un grande palazzo, quale può essere l’insieme degli elementi che definiscono un spettacolo. Eppure dalla lettura del volume Itinerari della critica teatrale italiana del Novecento curato da Mariagabriella Cambiaghi e Gianni Turchetta emergono nomi di recensori illustri mossi da visioni, poetiche e lucidi tagli interpretativi che derivano dai corrispettivi registri culturali.

Si definisce, in questo modo, un percorso letterario coerente allo sviluppo di una tradizione di straordinaria fecondità e bellezza impreziosita da firme prestigiose della cultura italiana, qui assemblate in due generiche categorie: da un lato gli «scrittori-recensori che restano profondamente letterati e che quindi puntano sulle risorse del testo», ossia i «testi centrici»; dall’altro lato gli «spettacolisti» attenti invece alle componenti materiali della messinscena.

Dai sette campioni monografici, ordinati in senso cronologico, emergono gli stili della critica, le tendenze, le prospettive analitiche che concorrono a dipingere il quadro della storia novecentesca del teatro italiano.

Si inizia con Marco Praga affrontato da Mariagabriella Cambiaghi che evidenzia, a partire dallo spoglio delle recensioni raccolte nelle Cronache teatrali (1919-1928), la concezione del «teatro al servizio del testo» cui si intreccia il riconoscimento della nascente regia. Interessano a Praga – drammaturgo e direttore della Compagnia Stabile del Teatro Manzoni – anche le reazioni del pubblico-lettore inteso come componente imprescindibile della comunicazione teatrale.

Da un uomo di teatro si passa con il saggio di Laura Piazza al poeta Vincenzo Cardarelli, collaboratore dell’“Avanti!” (1910-11) e poi de “Il Tempo” (1917-19). Sostenitore della centralità del testo, via via assimila nelle sue analisi lo sguardo sulle operazioni di regia e sulla drammaturgia scenica dell’attore. Convinto del magistero del classici, Cardarelli polemizza a più riprese con gli autori contemporanei, colpevoli di «non saper parlare, non della vita, ma dell’arte».

Spicca la figura di Enzo Ferrieri, fondatore nel 1920 de “Il Convegno. Rivista di letteratura e di tutte le arti” e a Milano del Piccolo Teatro del Convegno successivamente trasformato in Teatro del Convegno. Nell’ambito di queste attività, spiega Silvia Tisano, si sviluppano fondamentali traiettorie culturali finalizzate al rinnovamento della scena italiana attraverso l’apertura e l’assimilazione delle lezioni europee.

La prosa “poetica” e seducente di Angelo Maria Ripellino è al centro del contributo di Lorenzo Cardilli. Critico eclettico e noto saggista, intende la recensione come una «ricreazione» verbale dello spettacolo derivata dalla meraviglia e dagli effetti delle emozioni, come si legge nei suoi luminosi articoli pubblicati su “L’Espresso” dal 1969 al ’72.

Luca Gallarini si addentra nella cultura teatrale di Alberto Arbasino trasmessa nella raccolta monstre Grazie per le magnifiche rose: vicino all’elzeviro, la scrittura, che privilegia l’opera lirica e la rivista, elabora un tipo di recensione ricca di humour ma soprattutto si rivela sostenuta da «curiosità onnivora» verso il testo, il pubblico, la scenografia, fino alle città ospitanti per raccontare la mondanità post spettacolo.

Chiude questo interessante e intrigante volume l’attività di Giovanni Raboni concentrata nella raccolta Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro. Come bene argomenta Luca Daino, il poeta-saggista-traduttore declina l’idea di teatro come atto effimero e performativo che perciò deve essere raccontato nel suo linguaggio d’insieme, a partire dalla sintassi della regia là dove l’approccio è di tipo testo centrico.

Prezioso e indispensabile è l’Appendice che contiene l’intervento di Alberto Bentoglio Materiali per una biografia di Giovanni Pozzo critico teatrale e musicale e l’Antologia di recensioni dei critici studiati nel vari saggi.
 

                        di Massimo Bertoldi

 

La staffetta cooperativa
Esperienze vissute, motivazioni per il futuro

di Alberto Stenico
e Oscar Kiesswetter

 

Bolzano, Praxis edizioni, 2021
 

Fresco ottimismo e tenace memoria storica percorrono le pagine di questo libro che l'editrice Praxis manda in libreria, opera di Alberto Stenico, ex sindacalista ed ex presidente di Legacoopbund il primo e di Oscar Kiesswetter esperto di innovazione e studioso di economia di impresa, il secondo. I due aprono uno sguardo inconsueto sulla realtà altoatesina/sudtirolese nelle sue svariate pieghe partendo dal punto di osservazione apparentemente settoriale della realtà cooperativa, ma esprimendo poi una interpretazione complessiva del modello politico e sociale dell'Alto Adige.

La staffetta che essi vogliono proporre è appunto quella che guarda al futuro, alle nuove generazioni che dovranno assicurare il ricambio sia della società che delle associazioni cooperative che hanno, tra l'altro, questo aspetto tra i principi fondativi. Una realtà che interessa molte centinaia di cooperative e che raccoglie circa 150.000 soci in provincia. Quasi un terzo della popolazione provinciale è a vario titolo membro di una cooperativa, di cui in qualche modo controlla il bilancio, gode degli utili, esercita una forma di democrazia economica che sfida, diciamo così, le leggi ferree del mercato.

Nei vari capitoletti del libro, che corrispondono alle tante esperienze vissute coronate da successo ma anche rimaste, in qualche caso, problemi aperti da rilanciare nel futuro, i due autori offrono una carrellata sui molti campi diversi in cui le cooperative operano in Alto Adige: da quello dell'edilizia abitativa a quello delle Tagesmütter, del credito, dei contadini e allevatori, delle imprese educative e culturali, del sociale, del consumo alimentare, del mercato "equo e solidale" ecc. Molti sono nomi noti: ad esempio la Mila nei prodotti del latte, o la Cle nelle costruzioni edili, o la Oasis nel sociale, per non parlare delle grandi cooperative della frutta, delle assicurazioni e del credito. Non manca, in questa ricostruzione, il continuo riferimento alla storia delle origini, che ha dato il connotato di fondo al movimento: permettere anche agli esclusi di accedere ai beni primari dell'esistenza, surrogare e integrare i servizi sociali che il sistema pubblico non forniva. Scopriamo così che anche Giuseppe Mazzini e Sandro Pertini furono promotori del modello cooperativo (distinguendosi da Marx...), come in area germanica e austriaca Wilhelm Raiffeisen e, sempre nell'Ottocento, esponenti trentini e sudtirolesi e ladini, appartenenti al clero delle valli di montagna; le motivazioni erano la emancipazione umana e il riscatto dalla povertà, visti in senso evangelico e di dignità umana.

Le condizioni di oggi non sono più quelle dell'Ottocento, ma l'esigenza di impostare con autonomia, con libertà e con spirito di eguaglianza il lavoro, la produzione ed il consumo sono valori ancor oggi, e forse ancor più oggi, essenziali e ricercati. E questo spiega il crescente successo della forma di impresa cooperativa che, mentre in passato è stata soffocata dai regimi totalitari, ha invece ottenuto un pieno riconoscimento nella Costituzione italiana e nelle leggi regionali e provinciali.

Stenico e Kiesswetter riconoscono i rischi che ha corso nel tempo il movimento cooperativo, quello di dividersi per colore politico, di prestarsi a forme di collateralismo politico e partitico, quello di essere infiltrato da interessi commerciali e finanziari opachi ed egoistici; anche quello di contrapporsi etnicamente, nel contesto sudtirolese, o di finire per essere solo le filiali provinciali delle potenti centrali cooperative nazionali. Ma il processo di maturazione ha permesso di superare questi scogli e di raggiungere oggi una dimensione autonoma e pragmatica, libera da interferenze istituzionali e politiche. Insomma, dicono gli autori, è ora che la stampa (e anche la opinione pubblica) smettano di etichettare la cooperazione come bianca o rossa o verde, perché si tratta di etichette ormai senza senso.

Stenico e Kiesswetter integrano la loro narrazione nelle due lingue, rendendo così non solo fruibile la lettura ad un vasto pubblico, ma dimostrando soprattutto che queste "esperienze vissute" e queste "motivazioni per il futuro" sono un patrimonio comune ai lavoratori e ai cittadini di tutti i gruppi linguistici della provincia. E un tema che poteva essere oggetto di un arido saggio di sociologia o economia ha trovato nella loro scrittura un linguaggio discorsivo, quasi narrativo, accompagnando il lettore in un "viaggio di esplorazione" che riesce a sorprendere. Come? grazie ad uno stile che mescola felicemente episodi, ricordi, richiami storici a spunti di analisi oggettiva, riflessioni sul sistema politico ed economico locale, proposte per il futuro.

 

                               di Carlo Bertorelle

 

In forma di quadro. Note di iconografia teatrale 

di Renzo Guardenti

 

Imola (Bologna), Cue Press, 2020, pp. 279
 

La confezione editoriale del volume In forma di quadro. Note di iconografia teatrale di Renzo Guardenti presenta 148 pagine che raccolgono saggi compilati dallo studioso fiorentino lungo vent’anni di ricerca e poi un corpo di 167 figure di supporto non decorativo, ma funzionale in quanto strumento necessario per lo studio dei rapporti intercorrenti tra teatro e arti figurative. Si tratta, in primo luogo, di capire il valore testimoniale delle fonti iconografiche, pur considerando la loro autonomia creativa in fase di rielaborazione figurativa dell’oggetto teatrale che si sostanzia - con il supporto di variegate tecniche artistiche - nella carta, nella tela, nella lastra dell’incisore, fino ai manufatti delle arti plastiche, nelle fotografie e nelle moderne riproduzioni visive.

L’indagine di Guardenti si articola lungo un percorso storico che procede dal Seicento al Novecento. La ricognizione inizia con le attrici della Commedia dell’Arte: fino all’ultimo ventennio del XVII secolo godono di modesta ma non insignificante presenza iconografica; successivamente si diffondono copiosi i loro ritratti singoli, dai quali è possibile congetturare il richiamo ad una certa e possibile dimensione scenica.
L’intreccio tra drammaturgia del testo, esercizio dell’attore e sedimentazione figurativa orienta l’osservatorio analitico di Guardenti sul versante francese, segnatamente nel perimetro culturale della prima Comédie Italienne e nei contributi pittorici di Claude Gillot e di Jean-Antoine Watteau, cui segue una puntigliosa analisi delle raffigurazioni della Commedia dell’Arte diffuse nel Settecento.

Il discorso cambia quando l’attore, a cavallo tra XVIII e XIX secolo, inizia ad affermarsi come entità sociale e culturale. L’attore si mette in posa, statuaria e teatrale, come dimostra François-Joseph Talma immortalato, con limpidi riferimenti al suo linguaggio performativo, nei panni di Nerone da Eugène Delacroix nel 1853.
Luminose sono le pagine che Guardenti dedica a Sarah Bernhardt, la «prima vera diva della storia dello spettacolo in grado di fare tendenza non solo nel teatro ma anche in termini di costume e stile di vita» (p. 122). Immortalata da diverse centinaia di fotografie, diventa presto modello figurativo per la coeva generazione di attrici che ne assumono pose, gesti e abbigliamenti, come l’austriaca Adele Sandrock.

In forma di quadro si conclude con una minuziosa e intrigante analisi delle prime regie di Luchino Visconti, dall’opera lirica La Vestale di Gaspare Spontoni allestita nel 1954 a Parenti terribili di Jean Cocteau (1945) e La vita del tabacco di Erskine Caldwell (1945). Il realismo del regista attraversa sia la connotazione dei personaggi, tanto melodrammatici quanto teatrali, che il linguaggio figurativo dell’impianto scenografico, come emerge con chiarezza dalle foto di scena.

 

                     di Massimo Bertoldi

 

Fuori dai cardini
Il teatro italiano negli anni del primo conflitto mondiale

di Armando Petrini

 

Novara, Utet, 2020, pp. 155


«Questo studio – spiega Armando Petrini – non si propone di descrivere ciò che accade nel teatro durante la Prima guerra mondiale ma di verificare se e quali siano le assonanze, i rimandi, le intersezioni fra le trasformazioni epocali che la Grande guerra porta con sé e il mutare del teatro nel primo Novecento». Quelli attentamente esaminati, sono anni di rotture e di contrasti tra il vecchio e il nuovo di pensare e realizzare l’allestimento che rimbalzano dalla drammaturgia (Pirandello, i Futuristi, Chiarelli) ai processi produttivi dello spettacoli, dall’emergere di una nuova generazione di critici (Gramsci, Gobetti, d’Amico) al contatto inedito tra cinema e teatro.

La guerra provoca scosse telluriche nel già traballante sistema teatrale italiano e innesta nuovi percorsi strettamente legati alle temperie belliche. In merito Gramsci nel 1916 scriveva: «Si ha l’impressione che il mondo sia uscito dai cardini e sia sospeso a mezz’aria». Inevitabili sono il calo di pubblico e la riduzione degli incassi, la chiusura delle sale e, aspetto non trascurabile, l’arruolamento di molti attori, tanto da compromettere l’esistenza di diverse compagnie, soprattutto minori, unitamente ai decreti governativi che ostacolano non poco la già precaria prassi itinerante. Lo Stato promuove nel 1917, caldamente, il cosiddetto Teatro del soldato, ossia recite nelle zone di guerra: in diverse località del Carso i militari si raccolgono intorno ad un palcoscenico ligneo sul quale recitano attori di grido come Ermete Novelli, Tina di Lorenzo, Ermete Zacconi, Ruggero Ruggeri, Leopoldo Fregoli.

Esaurito questo quadro generale, Petrini focalizza l’attenzione sull’attore, individuando le figure più rappresentative di una grande trasformazione in atto che si muove dal graduale declino del Grande Attore di tradizione ottocentesca. Questo avviene a partire dalla recitazione naturalistica di Zacconi basata sulla manipolazione testuale a uso mattatoriale che la guerra rende, in un certo senso, inattuale e quindi aspro bersaglio da parte della critica militante. Scrive, tra i tanti, Gobetti: «Il teatro di domani dovrà essere diretto da poeti dispotici, che sappiano ridurre gli attori a strumento il più possibile passivo».
La sobrietà espressiva di Ruggero Ruggeri rappresenta invece una sorta di dialettica tra continuità e discontinuità: la sua poetica della sottrazione diventa cifra estetizzante, evidente nelle interpretazioni dannunziane e shakespeariane in cui la sensibilità lirica convive con la misura del gesto e della parola.

Attrice «colta» e «intellettuale», Emma Gramatica si distingue per una presenza scenica intensa e energica vicina al realismo, dal tono malinconico di derivazione cerebrale. Il suo è un atteggiamento di resistenza romantica all’ammodernamento e all’industrializzazione della scena italiana.
Febo Mari si qualifica come attore poliedrico e specchio del suo tempo, nel suo impegno tra cinema e teatro dove si si rivela come applaudito attore di opere dannunziane, segnatamente de Il ferro considerato da Petrini un passaggio decisivo per la sua pur breve carriera artistica.
Infine incontriamo la centralità della poesia propria di Ettore Petrolini, espressione di libertà performativa nell’interpretazione delle sue figure parodistico-grottesche. Controcorrente, si sarebbe detto una volta, al tempo del teatro militante.

Fuori dai cardini è un contributo scientifico importante per cogliere i cambiamenti in atto nella società italiana al tempo della Prima guerra mondiale, non solo dalla prospettiva analitica dello spettacolo ma anche del sistema culturale nel suo insieme, con le sue contraddizioni e ambiguità connesse alle tensioni verso il cambiamento.

 

                        di Massimo Bertoldi  

 

Dacci oggi il nostro desiderio quotidiano

di Roberto Alonge

 

Bari, edizioni di pagina, 2021, pp. 297

Dacci oggi il nostro desiderio quotidiano: alla base del titolo, accattivante e velatamente misterioso, si riconosce il percorso analitico tracciato da Alonge: indagare i «desideri dell’uomo e i desideri della donna, sullo sfondo di un antagonismo fra i due sessi», sviluppando sorprendenti percorsi che si snodano lungo il teatro, la pittura, il cinema, la letteratura.

L’antagonismo in questione segue traiettorie millenarie tanto da essere vero e proprio «Scontro di civiltà», come recita il primo capitolo del libro, in cui lo studioso ripercorre le trasformazioni della società patriarcale, da quella greca dove «per l’uomo il matrimonio è un affare sostanzialmente sociale, non ha rapporto con il desiderio» come emerge da Medea euripidea o da Oreste di Eschilo, a quella moderna, passando attraverso Shakespeare (rilevanti le pagine dedicate a Amleto) e l’eversione libertina del Settecento francese di matrice aristocratica. Assai poco frivola, perché sopraffatta dall’etica del lavoro, la borghesia ottocentesca acuisce la lotta tra i sessi, in seno alla quale si animano le prime ribellioni protofemministe. In merito Alonge schiera di ring della contesa emblematiche figure tratte da Ibsen, Strindberg, D’Annunzio, cui affianca l’erotismo ribelle delle donne di Klimt e, sull’onda del ’68, Ultimo tango a Parigi di Bertolucci.

Da questo quadro d’insieme si diramano prospettive tematiche in corrispondenza delle molteplici espressioni del desiderio sessuale, che definiscono il susseguirsi delle pratiche e delle concezioni proprie delle varie epoche storiche.

La rassegna si apre con il desiderio di maternità inteso come realizzazione di sé a scapito o in contrapposizione alle pulsioni erotiche, e trova fonti significative nella pittura (Klimt e de Hooch), nei testi teatrali (segnatamente gli ibseniani Spettri e Pirandello) e nel cinema (Bergman). Ancora la pittura (Hammershøi, van Hoogstraten), la drammaturgia pirandelliana, il romanzo Belle de jour di Kessel e la successiva trasposizione cinematografica di Buñuel, L’immagine allo specchio di Bergman e Eyes wide shut di Kubrick dalla novella Doppio sogno di Schnitzler, conducono il letture nel labirinto in cui si agitano figure femminili frustrate dal desiderio sessuale inappagato per via di indelebili condizionamenti sociali, in primis la sottomissione al dispotismo maschile.

Si prosegue con un altro aspetto fondamentale: «Il desiderio triangolare», titolo del quarto capitolo del libro di Alonge, raccontato attraverso l’analisi minuziosa di splendide scene del molieriano Tartufo ovvero L’Impostore, de La moglie di campagna di Wycherley, dal romanzo breve L’eterno marito di Dostoevskij, includendo, tra l’altro, Una casa di bambola di Ibsen e il pirandelliano Il giuoco delle parti.

I due capitoli conclusivi - «Il fascino discreto della pedofilia» e «Il mostro dell’incesto» -, oltre ad alzare il sipario su situazioni prevedibilmente scabrose, convergono l’uno nell’altro in quanto condividono la paura dell’uomo verso la donna adulta, esorcizzata con «il vagheggiamento delirante dell’eterna giovinezza, pratica atavica del maschio che rapina o razzia».

Uno dei tanti pregi di questo libro di Alonge - studioso raffinato e erudito - è l’adozione di una vasta gamma di materiali assemblati e raccontati in modo interattivo e sottoposti a sofisticate analisi, dalle quali emergono particolari fondamentali e sfumature testuali altrimenti nascoste dal flusso narrativo. Adottando la lente d’ingrandimento, nella sua funzione esploratrice, si svelano, in questo modo, inediti e appassionanti scenari interpretativi necessari per capire la declinazione dei desideri nell’uomo contemporaneo e nel suo percorso storico.

 

                              di Massimo Bertoldi

Teatro

di Rémi De Vos

 

Imola (Bo), Cue Press, 2020, pp. 153

«De Vos scrive testi scottanti sul declino dell’Occidente, sui problemi del lavoro, sulla violenza razzista, maschilista e omofobica e sulla disgregazione della coppia borghese […], passati al setaccio dell’umorismo e del grottesco, rivelando l’assurdità delle ideologie dominanti». Così Siro Ferrone introduce questa interessante raccolta di testi del francese Rémi De Vos, che vanta un lusinghiero successo internazionale (è tradotto in quindici lingue) a fronte di una assai modesta considerazione italiana.

Spetta al centro di produzione teatrale Pupi e Fresedde del Teatro Rifredi di Firenze la prima nazionale di Alpenstock (2005) per la regia di Angelo Savelli. Al centro della commedia, con cui si apre questa preziosa antologia, si pone una giovane coppia che abita nell’immaginario paese montano di Kirilo. L’armonia coniugale è prima turbata poi lacerata dall’arrivo di Yosip, l’immigrato di fantomatica nazionalità balcano-carpato-transilvana. Esplode il razzismo del marito acceso sostenitore di valori di purezza di razza contaminati da maschilismo, che uccide l’intruso, forse metaforicamente perché il morto resuscita e, in modo grottesco e farsesco, si ripresenta più volte.

In finché morte non ci separi (2003) risvolti altrettanto grotteschi e demenziali si intrecciano in una catena di sequenze narrative apparentemente lineari ma di fatto folli: un’urna funeraria, contenente le ceneri dell’anziana madre di Madelaine, cade dalle mani di Anne, amica del figlio Simon, e si rompe: per rimediare il disastro, il ragazzo dice alla madre di aver regalato il macabro oggetto alla ragazza come segno di fidanzamento e di aver disperso in contenuto in giardino. Manca l’elemento tragico, le tensioni sono aggirate da passaggi narrativi esilaranti che rendono i personaggi segni di esistenze assurde.

Una scrittura veloce e asciutta caratterizza Occidente (2004), testo presentato al pubblico italiano nella seconda edizione di Face à Face-Parole di Francia per scene d’Italia nel 2011 (regia di Silvie Susnel). Tra una coppia si anima un dialogo violento e nevrotico, pieno di reciproci insulti, per recuperare un’identità smarrita anche a livello erotico. Lui è uno «sporco fascista, alcolizzato e impotente» tanto che nelle sue parole si annidano evidenti veleni razziali contemporanei.

L’ossessione oscura è il tema dominante di Tre rotture (2012) vissute da una coppia in crisi in tre distinti quadri: nel primo, una sontuosa cena culmina con «io ti lascio» detto dalla moglie, cui segue la scena in cui la donna, legata ad una sedia, è imboccata dall’uomo con la carne del cane per poi rivelare i reciproci tradimento; nel secondo, il marito dichiara la propria omosessualità scoperta a seguito di un incontro con un pompiere conosciuto in palestra. L’inconsistenza interiore dei due personaggi produce un gesto violento, declinato in modo grottesco e surreale: l’uomo abbandonato versa un bidone di benzina addosso alla donna, accende e spegne più fiammiferi… Nel terzo quadro le relazioni familiari sono complicate da un figlio viziato e violento visto che «È lui a decidere», dice la donna, in merito alla ipotizzata separazione della coppia.

I personaggi di De Vos sono maniacali e ossessionati da paure che li rendono banali e soprattutto diffidenti. Si aggrappano, nel vuoto del pensiero, a soluzioni reazionarie con cui declinano la violenza fisica e verbale. Incarnano, in definitiva, molti individui d’oggi, planetari, catastrofici, assurdi.

 

                       di Massimo Bertoldi

 

Lo spettacolo asservito
Teatro e cinema in epoca fascista

di Pasquale Iaccio
prefazione di Guido D’Agostino

Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2020, pp. 158


È sulla gestione dello spettacolo che il fascismo definisce e consolida la politica del consenso attraverso forme di maneggiamento e controllo palese o occulto, comunque efficace. I meccanismi della censura, da un lato, e di promozione della retorica di regime, dall’altro, attraverso la forza comunicativa e partecipativa di teatro, cinema e radio, costituiscono l’oggetto di ricerca di questo fondamentale e accattivante contributo di Iaccio che segue l’evoluzione storica del processo evidenziando le difficoltà operative e le tante contraddizioni sottese agli obiettivi del totalitarismo culturale.

I passaggi decisivi sono due: nel 1931 alle prefetture locali viene limitata l’azione censoria sempre più indirizzata verso una dimensione centralizzata tanto che nel 1935 è direttamente gestita dal Ministero della Stampa e Propaganda. Il destino di drammaturghi, attori e capocomici era di fatto nelle mani dell’infaticabile censore Leopoldo Zurlo, ex prefetto non completamente asservito al regime («lo guardava con una sorta di aristocratico distacco», scrive Iaccio) e dotato di un’ampia conoscenza in campo teatrale, soprattutto lettore attento di oltre diciassettemila testi valutati dal 1931 al 1943. Si trattava prevalentemente di lavori di dilettanti, di produzioni minori di teatro regionale e popolare, spesso bocciati per eccesso celebrativo oppure per scarso valore letterario. Zurlo cancella dai testi le scene relative a suicidi, incesti, omosessualità, aborti, postriboli.

Anche il pubblico, adeguatamente addestrato, poteva diventare un attendibile ed efficace censore, con fischi e intimidazione durante gli spettacoli. Per drammaturghi affermati e compagnie primarie, il controllo funziona attraverso l’elargizione dei contributi statali; oppure la censura si attiva tramite l’emarginazione “vigilata” se il soggetto in questione è una celebrità anche all’estero. È il caso del napoletano e sincero oppositore al regime Roberto Bracco, al quale Iaccio dedica uno splendido capitolo: l’arma è la sua esclusione da qualsiasi attività pubblica, dal teatro al giornalismo, come dimostrato dalla tormentate vicende legate alla rappresentazione della commedia I pazzi avvenuta solo nel 1947 o al progetto naufragato de Il Piccolo Santo cui ambiva il giovane Peppino de Filippo.

Se il teatro fascista realizza progetti e spettacoli di massa a fini educativi e propagandistici (Il Sabato Teatrale, I Carri di Tespi, ecc.), analoghe finalità sono demandate anche al cinema prossimo ad affermarsi come industria in concorrenza con il teatro. In merito Iaccio segue lo sviluppo del processo storico-culturale a partire dal declino del cinema regionale rappresentato soprattutto dal pionierismo napoletano dei fratelli Troncone e proseguito da Vincenzo Scarpetta e Elvira Notari. Di fatto i prodotti del cinema di regime, inteso come cassa di risonanza dei valori e dei miti della dittatura, sono frammentari e deludenti a livello artistico, come Vecchia Guardia di Alessandro Blasetti o Camicia Nera di Giovacchino Forzano.

Significativamente Iaccio dedica un capitolo piuttosto interessante al poeta Alfonso Gatto, critico cinematografico tra il 1937 e il 1938 per la rivista fascista “Il Bargello”. Sulla scia del neonato rapporto tra grande schermo e letterati (diversi diventano all’occorrenza sceneggiatori come Pirandello o D’Annunzio), Gatto rappresenta la figura dello scrittore-recensore non apertamente schierato: dotato di uno stile alto e raffinato, matura infatti un atteggiamento critico libero e fedele al suo gusto estetico capace di cogliere le peculiarità dell’opera.

Lo spettacolo asservito, oltre a qualificarsi come ricerca di alto valore storico e scientifico, ha la forza di sprigionare domande e riflessioni anche sul nostro presente circa la sopravvivenza di frammenti, grandi o piccoli, ereditati dal Ventennio fascista.
 

                                di Massimo Bertoldi

 

 

Romolo Valli

di Daniela Montemagno

Roma, Edizioni Sabinae, 2020, pp. 411

«Era soprattutto un grande umanista, indifferente alle mode soprattutto della politicizzazione del teatro. Le sue scelte derivano sempre da un impegno di vita prima che ideologico. Era un artista puro, vivo, legato alla realtà, ma non alle mode del reale. La sua era aspirazione verso una libertà assoluta».

Il personaggio in questione è Romolo Vialli e le parole sono di Fantasio Piccoli. Si leggono, assieme ad altre preziose voci nella sezione “Hanno detto di lui” che seguono i “Ricordi e Testimonianze” (tra i tanti di Anita Bartolucci, Gianna Giachetti, Anna Maria Guarnieri, Giulia Lazzarini, Giorgio Treves). Questo ricco e documentato apparato costituisce la seconda parte dell’appassionante volume Romolo Valli di Daniela Montemagno, nuovo omaggio al grande attore preceduto da Romolo Valli. Ritratto d’attore di Guido Davico Bonino (Il Saggiatore, 1983) e da Romolo Valli. L’attore che parla di Maria Laura Loiacono (Book Publishing, 2015).

Nella prima e corposa parte del libro l’autrice ripercorre, affidandosi ad una ricostruzione rigorosamente cronologica, la vita di Valli a tutto tondo, dalla carriera come attore alle sue amicizie e relazioni professionali, lungo un percorso articolato con chiarezza narrativa impreziosita da aneddoti e curiosità utili per completarne la conoscenza.

Appassionato di canto sin da bambino, poi attivo nella nativa Parma in qualità di critico teatrale e cinematografico, regista e attore in erba, Valli si aggrega quasi per caso alla compagnia itinerante del Carrozzone di Piccoli, con la quale fonda nel 1950 il Teatro Stabile di Bolzano con il concorso, tra gli altri, di Adriana Asti, Valentina Fortunato, Giancarlo Galassi Beria e Ugo Bologna. Il regista e talent scout Piccoli scopre subito le potenzialità dell’enfant prodige Valli, tanto da impegnarlo in ruoli importanti negli allestimenti del biennio 1950-52, dalla shakespeariana La dodicesima notte al Miles gloriosus di Plauto, da Zio Vanja di Cechov a Il ballo dei ladri di Anouilh.

Questi spettacoli diventano un vero trampolino di lancio, tanto che il giovane attore viene scritturato al Piccolo Teatro di Milano diretto da Paolo Grassi e Giorgio Strehler che lo impegna in diciotto ruoli tra primari e secondari e facendolo recitare al fianco di interpreti del calibro di Tino Carraro, Sarah Ferrati, Ivo Garrani.

La svolta della carriera coincide con il sodalizio artistico e umano con Giorgio De Lullo: assieme a Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri e Tino Buazzelli, Valli fonda nel 1954 la Compagnia dei Giovani, destinata a scrivere pagine fondamentali nella storia del teatro italiano e che la Montemagno mette bene a fuoco quando si sofferma sui tanti spettacoli basilari di cui l’attore figura come protagonista: la rivelazione Il diario di Anna Frank, gli allestimenti shakespeariani, goldoniani e cechoviani, a dimostrazione di grande versatilità di un artista in grado di esprimere tutta la potenzialità del suo talento espressivo soprattutto nel confronto con la drammaturgia pirandelliana – Sei personaggi in cerca d’autore, Il gioco delle parti, Così è (se vi pare).

Ampio e doveroso spazio è riservato ai frequenti e produttivi rapporti di Valli con la radio e la televisione, e in modo particolare con il cinema vissuto al servizio di importanti registi come Visconti (Il Gattopardo, Morte a Venezia), De Sica (Il giardino dei Finzi Contini), Bertolucci (Novecento). Analogamente la Montemagno non trascura le dote manageriale e organizzative particolarmente evidenti negli anni Settanta e nell’ambito e dimostrati nell’ambito della direzione artistica assunta al Festival dei Due Mondi di Spoleto.

C’è, infine, una pagina in questa interessante monografia agile nella lettura e scritta con grande passione che, in un certo senso, contiene in sé il segreto della poesia intima di Valli e la sua proiezione nel mondo attraverso una sua poesia scritta a Reggio Emilia nel 1945 all’età di vent’anni:

«Ho trovato uno scrigno di cielo
dove a celare andrò l’ultima lacrima.
E quando sarò uomo la vedrò
la fronte inumidire dell’aurora».

 

                                     di Massimo Bertoldi

 

 

 

Il nostro debutto nella vita

di Patrick Modiano

 

Torino, Einaudi, 2020, pp. 55

«Dopo tutto questo tempo mi riconosceresti? Spesso ci illudiamo di rimanere identici… […]. Ogni giorno lotto contro la solitudine». La battuta è di Jean, personaggio centrale de Il nostro debutto nella vita di Patrick Modiano, Premio Nobel per la Letteratura edizione 2014.

Le sue parole, che chiudono la commedia, stabiliscono il punto di arrivo di un percorso di vita giocato sul binario di contrapposizione tra passato e presente, tra sogno e realtà.

Il testo, datato 2017, inizia con Jean ventenne: ambisce a diventare scrittore, ha un atteggiamento morboso con il proprio manoscritto tanto da custodirlo in una valigetta che, per ossessiva timore di furto tiene ammanettata al polso. Dominique è la sua ragazza, coetanea, vuole fare l’attrice, perciò è impegnata nelle prove de Il gabbiano di Cechov, ovvero il dramma-manifesto dei giovani vittime del loro dolore esistenziale e degli adulti che faticano ad accettare l’inesorabile trascorrere degli anni. La scelta non è casuale perché la malinconia cechoviana si sostanzia come segno indelebile nel flusso delle parole e della catena delle azioni che si consumano principalmente di un anonimo teatro parigino, ossia nel metaforico spazio di anticamera alla vita stessa, alla ricerca di poterla interpretare sul palcoscenico del teatro-mondo.

Vicino ai due protagonisti agiscono altri personaggi: la madre di Jean, attrice anche lei (tra l’altro come nella biografia dello stesso Modriano) frustrata e dal fare assillante; il suo compagno, lo stolido scrittore Caveaux. Sono soggetti contemporaneamente tragici e minacciosi.

Il tempo narrativo risulta sospeso, è popolato di sogni, ricordi smarriti nel nulla, frammenti di giovinezza, girandole di figure femminili incorporee. Il continuo girovagare nella memoria si trasforma in sottile piacere di smarrirsi e di ritrovarsi. Dove, come e con chi, poco importa.

«Ho l’impressione – sussurra Jean a Dominique – che la data delle prove generali segnerà il nostro debutto nella vita». La data è il 19 settembre 1966. Trascorrono gli anni e Jean è diventato scrittore. La madre e il suo compagno non esistono più. Non si sa da quanto tempo e perché. Le due figure ritornano di notte, nella fine alternanza di buio e di luce che si anima sul palcoscenico, come se fossero vivi e capaci di muovere antichi e irrisolti risentimenti.

A questo punto non si capisce chi sia vivo e chi sia morto. Forse Dominique si è affermata come acclamata attrice, forse è morta anche lei; magari è uno spettro che cerca di risentire le voci del suo passato probabilmente appartenenti agli attori del repertorio cechoviano.

La magia de Il nostro debutto nella vita, oltre al misterioso fascino della trana dal sapore a tratti beckettiano, sta nell’adozione di una scrittura morbida e delicata che rimbalza come una pallina da ping pong dal dialogo realistico a quello rarefatto, per diventare specchio dell’identità fluttuante dei personaggi pennellati con maestria da Modiano.

 

                                di Massimo Bertoldi

 

Nostalgia di Dio

di Lucia Calamaro

 

Torino, Einaudi, 2020, pp. 99

Nostalgia di Dio di Lucia Calamaro inizia con una partita a tennis tra amici. Nell’economia della commedia la sfida è importante: detta i ritmi e gli scambi delle battute – ora a velocità sostenuta ora con modalità lente simili a un lungo palleggio da fondo campo senza la schiacciata vincente sotto rete –, e definisce la struttura dell’impianto narrativo.

Ne sono protagonisti persone semplici e ordinarie, unite da un’amicizia dall’andamento reticolare: Francesco, «40-45 anni sportivo, dubbioso su tutto» come lo presenta la Calamaro, è in grande difficoltà nell’assumere il ruolo del padre separato, vorrebbe ritornare a casa e perciò troppo tardivamente cerca di riabilitarsi al cospetto della moglie Cecilia, «35 anni antropologa vitale», la quale si barrica dietro la maschera di un’apparente serenità ed emancipazione inventandosi una strana catalogazione dei rumori.

Intorno a questa coppia si muovo Simona, «45 anni, maestra, single, vuole un figlio», alla confusa ricerca di sé, e Alfredo «45 anni, prete, esistenzialmente provato», che vive la vocazione nel segno della rinuncia e del sacrificio.

Sono anime fragili e irrisolte, a disagio in un mondo abitudinario e convenzionale, che, tuttavia, rispecchia la loro stessa indole. Non c’è ribellione, si avvertono sussulti inesplosi; dai dialoghi zampillano i loro tormenti interiori, si aprono gli orizzonti di un passato di fallimenti che attanaglia il loro presente, con leggerezza e pesantezza.

Da questa coralità prende forma un colorito tappeto di dialoghi di ampio respiro, a tratti spigolosi, simili a un palleggio tennistico che, però, in certi momento spinge il singolo personaggio a distaccarsi dal gruppo per liberare i propri pensieri e raccontare se stesso, con delicatezza e intensità interiore.

Nella commedia le vicende si concentrano in pochi passaggi narrativi: al citato campo da tennis subentra una divertente e contorta cena collettiva in casa e infine si passa ad una strana gita notturna-pellegrinaggio per sette chiese romane organizzato da Alfredo.

Quest’ultimo movimento si collega direttamente al titolo della commedia, anche se la Nostalgia di Dio non va intesa in senso strettamente religioso, bensì metaforico. Si tratta di un percorso alimentato da una sottile e invisibile-visibile nostalgia mossa dalle assenze del presente e che si colma con la tensione e la ricerca del senso dell’infinito in un gioco sospeso tra volontà di rinascita e epifania esistenziale. Entra in gioco il mistero della vita, nelle sue più nascoste sfaccettature.

Perciò rientra nella dinamica di questo smarrimento l’adozione di un linguaggio diretto e quotidiano, a tratti verboso, come se volesse esprimere il flusso implosivo-esplosivo di interiorità strozzate e inascoltate.

Dopo gli applauditi allestimenti di La vita ferma, L’origine del mondo e Si nota all’imbrunire, la Calamaro – anche regista e attrice – con Nostalgia di Dio (che ha debuttato nel 2019 al Teatro Goldoni di Venezia per la regia di Antonio Latella) si conferma esponente di primo piano della drammaturgia italiana contemporanea.

                              di Massimo Bertoldi

 

Gli sposi

di David Lescot

 

Imola, Cue Press, 2020, pp. 69

Gli sposi del titolo della commedia di David Lescot sono Nicolae Ceausescu e Elena Pitrescu, ossia l’ex presidente della Repubblica Socialista di Romania in carica dal 1967 al 1989 e la moglie, la vera eminenza grigia del regime. Nel testo del drammaturgo francese – anche qualificato regista e musicista legato al prestigioso Théâtre de la Ville – i due personaggi assumono i nomi generici di LUI e di LEI e animano una sequenza di ventotto dialoghi che seguono il percorso storico della loro vicenda umana e politica.

Il linguaggio del testo modella battute scarne, essenziali, funzionali alla creazione di uno spinoso tappeto narrativo giocato sul rimbalzo continuo tra la dimensione pubblica della politica e la sfera delle relazioni private. Nella gestione del potere ricadono i capricci e le manie di una coppia mascherata, la cui azione produrrà il deragliamento drammatico della Romania socialista. La scrittura di Lescot lambisce le sponde del teatro civile, non esprime posizioni ideologiche: tesse un reticolato di immagini cariche di ferocia e di ironia dalle quali emergono i profili di due figure grottesche, a tratti sinistre e ordinarie, deboli e forti.

Aleggia il rimando allo shakespeariano Macbeth nelle dinamiche interpersonali caratterizzate dall’influenza di una donna determinata e capace di sottomettere il marito trasformandolo in invisibile-visibile burattino. Alla fine del loro percorso storico, culminato con la fucilazione di TimiÈ™oara, Gli sposi diventano essi stessi inquietanti burattini della Storia.

Il racconto cronologico si enuclea da quando la coppia si è conosciuta all’inizio della militanza politica nel Partito Comunista, dalla presa del potere di Ceausescu alla morte. In mezzo ci sono quadri di grande forza narrativa che completano la cornice storica ricordando, per esempio, la Primavera di Praga del 68, a proposito della quale LEI chiede:

«Ti decidi o no? Lasci che l’alfiere si faccia mangiare dalla torre senza muovere un dito? Condanni pubblicamente i Russi o condanni vilmente i Cechi?».

Oppure, altrettanto emblematico è un passaggio del quadro 23. Siamo nel 1983.

LEI Allora, cos’è il socialismo?
LUI Non lo so.
LEI È una stanza nera nella quale bisogna cercare un gatto nero.
LUI Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! È veramente buona! Ah! Ah! Ah!
LEI Ma no, non è finita. È in tre parti.
LUI Ah d’accordo.
LEI Seconda domanda: cos’è il socialismo multilateralmente sviluppato?
LUI Non lo so.
LEI È una stanza nera nella quale bisogna cercare un gatto nero.
LUI Non è finita ancora? Non c’è ancora da ridere? Ce n’è ancora una parte?
LEI Sì, ce ne manca una parte: che cos’è la Romania?
LUI Non lo so.
LEI È una stanza nera in cui tutti cercano un gatto nero anche se sanno benissimo che non sta là dentro.
LUI È finita?
LEI Sì.
LUI Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! sì bellissima! Ah! Ah! Ah!

Si arriva alle batture finali che culminano nel processo sommario e nella fucilazione de Gli sposi che, dice la didascalia, «rimangono morti per un po’ di tempo, poi si rialzano» e, come due fantasmi, si interrogano su dove possano essere sepolti i loro corpi.

Finalista del Premio Ubu 2019 come migliore spettacolo straniero, il testo di Lescot è stato allestito nel 2018 da Elvira Frosini e Daniele Timpano, ai quali compete la cura e la bella postfazione di questo volume pubblicato dall’intraprendente Cue Press, che si completa con l’introduzione di Attilio Scarpellini, anche autore della traduzione di questa intrigante a appassionante commedia inedita per il lettore italiano.

 

                             di Massimo Bertoldi

 

         Il teatro
ai tempi della peste
 Modelli di rinascita

di Alberto Oliva

 

Milano, Jaka Book, 2020, pp. 196

Concepito durante il lockdown primaverile, questo libro nasce «in risposta all’urlo disperato di moltissimi lavoratori dello spettacolo che si sono trovati all’improvviso senza lavoro e si sono sentiti i primi della Storia millenaria del Teatro a vivere un simile destino». Ma Oliva – regista teatrale, scrittore e giornalista – dimostra di fatto che sono gli ultimi di una lunga serie in corrispondenza delle tante e drammatiche epidemie esplose in passato e ricostruite con grande finezza storica nel primo capitolo del libro.

Dalla grande peste di Atene del 430 a.C. a quella di Roma del II secolo, dalla Peste nera del ‘300 a quella del 1630, fino al colera nella Russia ottocentesca che vede il medico Anton Cechov in prima linea e all’influenza spagnola del 1918, emerge una costante declinata in varie forme: alla morte segue il rifiorire delle creatività artistiche nel quadro di una feconda resilienza teatrale.

Intorno al nesso inscindibile di morte-rinascita si sviluppa il secondo capitolo del libro in cui primeggiano gli attori «sempre capaci di sopravvivere anche alle epoche del disprezzo e della censura», spiega l’autore. La sua ricognizione storica, lucida e rigorosa, ne segue il destino oscillante tra gloria e infamia, riconoscimento e censura, lungo un intrigante percorso storico che si enuclea dall’antichità greca e romana, prosegue con le condanne ambigue della Chiesa in età medievale, incontra il dilettantismo rinascimentale e la nascita del professionismo con la Commedia dell’Arte fino ai grandi mattatori dell’Ottocento, preceduti dai protagonisti del melodramma settecentesco, in primis castrati e dive.

«La tecnologia salverà il mondo?». Intorno a questa domanda, che dà il titolo al terzo capitolo del libro, Oliva prende in considerazione le piattaforme, i canali youtube, streaming, che hanno supplito in questi mesi lo spettacolo dal vivo e ricorda, sempre sostenuto da inequivocabile documentazione storica, che il teatro «fin dalla sua nascita, si è sempre avvalso di tecnologia». Soccorrono, a titolo esemplificativo, i sofisticati meccanismi inventati dai greci, le fantasmagorie barocche, la rivoluzione apportata dall’avvento dell’illuminazione elettrica, le sperimentazioni delle avanguardie di inizio Novecento per arrivare all’avvento del digitale.

«Non è mai successo nella storia – dichiara Oliva – che un nuovo sistema artistico potesse innestarsi nella società senza che ci fosse un sostegno istituzionale e finanziario direttamente proporzionale al suo successo». La constatazione contiene in sé idee e proposte per la rinascita del teatro del futuro post-pandemico. Il discorso passa attraverso la considerazione dei progetti di Milo Rau e le riflessioni di direttori artistici di area milanese, Marco Maria Linzi e Antonio Syxty.

Quando Oliva chiama in causa la politica, soggetto da lui considerato fondamentale per azioni di rilancio in sinergia, si aprono scenari complicati e prospettive che, lette in una dimensione europea, tradiscono unità di intenti. Se il premier Conte dichiarava a maggio di non voler dimenticare «neppure» la cultura e «i nostri artisti che ci fanno tanto divertire e ci fanno tanto appassionare», la cancelliera Merkel spiegava che «gli eventi culturali hanno importanza massima nella vita […] perché nell’intenzione degli artisti con il loro pubblico ci aprono prospettive completamente nuove»; non diversamente il francese Macron ribadiva il «bisogno di un’Europa della cultura ancora più forte».

Quindi: assistenzialismo a pioggia oppure rifondazione della funzionale della cultura. Sembrano essere queste le risposte di oggi, rispetto alle quali Oliva propende per l’interazione costruttiva tra il politico che sostiene con intelligenza e visioni lungimiranti lo spettacolo, l’impresario capace di organizzare con efficienza e la forza innovativa e creativa dell’artista. Non si tratta, a ben vedere, di una novità come si legge tra le pagine di questo Teatro ai tempi della peste. Tra gli esempi spiccano il sostegno dato allo spettacolo pubblico da parte di Pericle, il finanziamento della regina Elisabetta I a favore, tra i tanti, di Shakespeare, e in tempi più recenti la triade formata dal sindaco Antonio Greppi, il sovrintendente Antonio Ghiringhelli e il maestro Arturo Toscanini, artefici nel 1943 della riapertura de La Scala e, di riflesso, della rinascita dello spettacolo milanese, poi proseguita da Paolo Grassi e Giorgio Strehler con la fondazione del Piccolo Teatro.

 

                         di Massimo Bertoldi

 

Il Verbo

di Kaj Munk
a cura di Franco Perrelli

 

Imola, Cue press, 2020, pp. 59

Il verbo di Kaj Munk è considerato uno dei testi più importanti del teatro scandinavo, tanto da permette all’autore di essere avvicinato a Ibsen e Strindberg e di ambire al premio Nobel. Autore di una settantina di commedie, Munk è un personaggio drammaticamente particolare: convinto Pastore protestante attivo dal 1924 in un piccolo villaggio rurale dello Jutland occidentale, si dimostra in questi anni vicino a idee filofasciste poi diventa sostenitore della Resistenza tanto da essere assassinato dai nazisti nel 1944 durante l’occupazione della Danimarca.

Scritto in pochi giorni nel 1925 e rappresentato solo nel 1932 (regia di Betty Nansen) per via delle indecisioni del Teatro Reale di Copenhagen che lo aveva richiesto, il testo fece molto discutere, dividendo pubblico e critica come bene ricorda Fanco Perrelli, cui compete anche la traduzione, nell’introduzione al volume pubblicato da Cue Press. In ambito nordico il tema dominante di questo dramma inedito per l’Italia era verosimilmente sentito: il conflitto accesso tra contrastanti correnti interne al protestantesimo, unitamente allo scontro, altrettanto vivace, tra medicina e fede, trasferiti da Munk nella tenuta del vecchio Mikkel Borgen dove, oltre a problematiche legate ad un matrimonio negato sempre per divergenze spirituali, si vive un’esperienza tanto incredibile quanto emblematica.

La moglie del primogenito inaspettatamente muore per parto ma nel corso della cerimonia funebre si rialza dalla bara per effetto della richiesta avanzata da Johannes, studente di teologia mosso da profonda convinzione religiosa ma da tutto considerato estremo, pazzo. Scattano i meccanismi dell’ambiguità finemente geniale e paradossale che alimenta due opposte vedute: quella del miracolo divino e quella del dottore sostenitore di una manifestazione di morte apparente. Si anima un dialogo di poche battute che non risolvono il dilemma.

Molto legato alle idee radicali di Soren Kierkegaard e al dramma Al di là delle forze di Bjørnstjerne Bjørnson, Il Verbo fu tradotto in film da Carl Theodor Dreyer nel 1954-1955 che in un certo senso oscurò il successo del testo di Munk. Ricorda il regista, dopo essere stato affascinato come spettatore di una rappresentazione teatrale: «Mi incantò anche la disinvoltura con cui l’autore esprimeva le sue idee paradossali». E aggiungeva: «Bisogna rispettare Kaj Munk e al tempo stesso liberarsene […]; capire Kaj Munk fino in fondo e poi dimenticarlo».

Capire Munk oggi non è facile, tanta è la distanza che ci separa dalla complessità di quelle problematiche teologiche e spirituali, eppure la lettura de Il Verbo appassiona non poco per la forza e la delicatezza della parola, cruda ed evocativa, mistica e di brutale realismo.

 

                               di Massimo Bertoldi

 

Teatro

di Robert Musil


a cura di Massimo Salgaro
Cue Press, Imola, 2020, pp. 145

Riflettendo sulla composizione delle novelle e del dramma I fanatici, Robert Musil ne rivelò il principio narrativo: «l’ho chiamato quello dei ‘passi motivati’. Non far accadere nulla (oppure: Non far nulla) che sia interiormente di valore. Ciò significa anche: Non far niente di casuale, niente di meccanico».

Questo assunto, che mette i discussione il dominio della casualità fondando una visione antimetafisica del mondo, attraversa i tre testi pubblicati in questo prezioso volume tradotto e curato da Massimo Salgaro, che nell’introduzione affronta tematiche cruciali per capire la drammaturgia musiliana solitamente interpretata come «unspielbar», ossia inadatta alla scena tanto da conoscere all’epoca fallimentari allestimenti di contro alla felice rivalutazione odierna. Calato nel suo contesto storico-culturale, l’autore de L’uomo senza qualità prende le distanze dalla protesta giovanile del coevo espressionismo che, a suo dire, avrebbe prodotto arte del tutto priva di idee incisive, vuote e banalmente urlate.

Eppure questo confronto, polemico e di distacco, con l’avanguardia attraversa i tre testi raccolti in volume, a partire dall’inedito per il lettore italiano Preludio al mélodrame. Lo zodiaco scritto nel 1920, «una specie di requiem, al teatro espressionista», sostiene Salgaro, dal quale assume, per esempio, il tema del viaggio, in questo caso di Uomo durante l’inverno. Incontra, nel corso di una violenta bufera di neve, figure allegoriche – la Morte, il Freddo, la Miseria, la Tempesta –, soggetti antagonisti tipici dell’epoca guglielmina – il Politico, il Giudice, il Professore –, e figure femminili quali la Celeste, una Donna, la Madre. Alla fine Uomo sarà condannato a morte per il suo torbido passato e giacerà ricoperto da un manto nevoso.

Protagonista de I fanatici, l’opera più importante di Musil scritta tra il 1908 e il 1920, è la forza della menzogna intorno alla quale si sviluppa una trama scarna, puntellata da torbide relazioni vissute da sognatori coinvolti in un gioco ambiguo di sopraffazioni e di annientamenti. Il dramma si ambienta in una lussuosa casa di campagna abitata da Thomas, affermato scienziato, e dalla bella moglie Maria. Ospitano Regine, sorella di Maria sposata con Josef e vedova tormentata di Johannes, il ricercatore di dubbio valore Anselm e la signorina Mertens, ai quali si unisce il detective Stader che, ingaggiato da Josef, smaschera Anselm dimostrando il suo essere seduttore e impostore che non gli impedisce di convincere la stessa Maria a fuggire con lui. Nel testo dominano dialoghi intensi e profondi, capaci di scavare nelle viscere psicologiche e esistenziali dei vari personaggi.

Completa il volume Vinzenz e l’amica degli uomini importanti. Scritta nel 1922 e presentata in prima assoluta nel 1923 al Lustspielhaus di Berlino, la farsa presenta uno spaccato della società borghese simile a una fiera di vanità animata da bizzarri soggetti imbevuti di narcisismo e superbia. Intorno ad Alfa, moglie del dottor Apulejus-Halm, si agitano una schiera di ammiratori-corteggiatori e l’ex fidanzato e amico d’infanzia Vinzenz, ingaggiato dal marito per rivelare i tanti tradimenti della donna. Anche lui si rivela un mentitore, anche se le sue fantasie corrispondono alla realtà e proietta le vicende in una visione che lambisce il teatro dell’assurdo, perché in sé «i fatti sono fantastici».

Così diversi e così simili i personaggi di queste tre commedie condividono il loro essere pallide nudità decorosamente vestite da pensieri finemente profondi e destinati al nulla; quel nulla che parafrasa la fine del mito dell’Austria felix che il dotto e geniale scrittore di Klagenfurt racconta all’interno della sua opera.

                           
                                      di Massimo Bertoldi

 

Sandro Boato. In memoria di un Verde ecologista, urbanista e poeta

a cura di Marco Boato

 

Edizioni Verdi del Trentino / Europa Verde, 2020, pp.159

Il libro raccoglie molti scritti che delineano un ritratto veritiero e a tratti commovente di Sandro Boato, scomparso a Trento il 3 dicembre 2019. Il fratello Marco, noto ex parlamentare, sociologo e leader del movimento studentesco, ha curato in pochi mesi questa preziosa edizione in cui si susseguono le testimonianze di personaggi diversi: familiari, uomini politici, letterati, giornalisti, personalità varie del Trentino e non solo. Nella antologia, ricca di immagini e di ricordi, sono compresi anche alcuni scritti in prosa di Sandro Boato, per lo più introduzioni o commenti alle proprie raccolte poetiche.

Sandro, personalità veramente versatile e di talento, era infatti anzitutto un poeta e un traduttore di poesia, che aveva dato alle stampe varie liriche per lo più in dialetto veneziano («lingua doppiamente poetica che si suole chiamare dialetto», scrive Adriano Sofri), ma anche in italiano, spagnolo ed inglese; e che si era dedicato alla traduzione di un centinaio di poeti europei ed americani (del nord e del sud) nei due volumi In forma di parole.

In lui assai acuti erano la sensibilità per il fatto linguistico come creatore di senso e il motivo della trasversalità degli echi semantici che si potenzia nell'espressione lirica e nell'intreccio interlinguistico. Giuseppe Colangelo ha dedicato nel libro le pagine più esaurienti per illustrare la inclinazione letteraria di Boato e il suo itinerario poetico nel corso dei decenni, mettendo in luce come la «musa civile» gli abbia dettato molti dei motivi poetici. Nel primo volume di In forma di parole del 2011 Boato cita una osservazione di Paul Klee: «L'arte non ripete il visibile; piuttosto, essa rende visibile». E nell'intestazione del volume, che riporta un significativo «Poetare e pensare», non si può non cogliere un richiamo a quel "pensiero poetico» o «pensiero poetante» che è stato riferito a tanta parte della poesia moderna, e in particolare a Leopardi, e che ispira anche la sua poetica.

Ma Sandro Boato è stato anche molto altro, come ben documenta il libro. Soprattutto urbanista e politico. Dalla nativa Venezia (dove era nato nel '38) arriva a Trento e partecipa alla prima coraggiosa stesura, negli anni Sessanta, del piano territoriale voluto dal neo Presidente Bruno Kessler, che aveva chiamato alla rinascita del Trentino i migliori esperti d'Italia e si era avvalso della stretta collaborazione della neonata facoltà di Sociologia. Diverse le pubblicazioni di Sandro su pianificazione territoriale, salvaguardia dei centri storici, parchi naturali e verde urbano.

Dall'impegno urbanistico per dare forma moderna al territorio scaturisce in modo diretto l'impegno politico. Sandro Boato viene eletto nel Consiglio Provinciale dal 79 all'83 con la Nuova Sinistra (le sue origini di militanza politica sono con i movimenti del dissenso cattolico e con Lotta Continua), e poi vi torna nel 1988 - 93 con i Verdi, battendosi soprattutto sui temi ambientalisti e sociali. A questa fase appartiene ad esempio il pamphlet Proteggere la terra dagli umani? che ha larga eco e diffusione; a questa lunghissima stagione di impegno politico, mai abbandonato, appartengono anche, accanto agli impegni istituzionali, la presenza nelle strade, i volantinaggi, i contatti e i rapporti con le persone che la figlia Giulia ricorda nelle pagine del libro.

Non si può dimenticare di ricordare lo strettissimo legame di Sandro Boato con Venezia. Pur avendo trascorso la maggior parte della vita a Trento ed avendo amato questa città diventata indubbiamente sua, la città lagunare torna incessantemente soprattutto nel segno intimo della lingua poetica. Dai versi iniziali di Co rivo rivo, Tera e aqua, Piovaessol che cantano la bellezza dei luoghi della città e della laguna alle più sconsolate poesie che dicono lo sgomento di fronte al progressivo degrado urbano, all'incuria e all'assalto soffocante del turismo: «procession sensa soste e sensa sal / da l'Asia, da l'Australia, da le Americhe, / Ê¿sta sità la sta mal / consumada e magnada come pan / e l'anema desfada» e di fronte alla "Metamorfosi" delle acque di Venezia («... Aqua / sta qua xe aqua? /la scola / sbròdega / la spussa / stá½¹mega / la stagna / sá½¹fega // Aqua no aqua / sensa più nome / sensa più vose / e sensa luse / sensa / la trasparensa / aqua sporca / aqua nera / aqua morta / scoassera / aqua gera»).

Il ritratto che esce dal libro ci restituisce una figura umana aperta e attenta alla vita in tutte le sue forme, amante dell'arte, della musica e della bellezza non meno che del necessario impegno per un mondo migliore.

 

                         di Carlo Bertorelle

 

 

Il Camposanto Teutonico

di Marco R. Bettoni Pojaghi
con la collaborazione di Cristina Cumbo

 

Roma, Pagine, 2019, pp. 192

Il giardino segreto del Vaticano: alla scoperta del Campo Santo Teutonico «E serbi un sasso il nome / e di fiori odorata arbore amica / le ceneri di molli ombre consoli» (vv. 38-40); così nel carme Dei Sepolcri Ugo Foscolo augurava al defunto che «lascia eredità d’affetti» il degno riposo eterno, perché «non vive ei forse anche sotterra, quando / gli sarà muta l’armonia del giorno / se può destarla con soavi cure / nella mente de’ suoi? Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani» (vv. 26-31). L’ideale cimitero evocato dai versi di Foscolo, dove gli uomini e le donne che vi sono ospitati possono riposare «all’ombra dei cipressi» e perpetuare il loro nome impresso sulla pietra, esiste davvero e si trova a Roma: è il Campo Santo Teutonico, segreto gioiello del Vaticano nascosto all’ombra di San Pietro. Alte mura preservano e proteggono quest’oasi di pace e di silenzio dalla frenetica caoticità della vita cittadina; un hortus conclusus dove il verde rigoglioso di cipressi, di palmizi e di odorose infiorescenze mitiga la severità dei marmi tombali, creando un sublime connubio tra la vita e la morte: qui può veramente realizzarsi la goethiana Wanderung, la passeggiata tra le rovine antiche del poeta romantico alla ricerca di sé stesso.

Marco R. Bettoni Pojaghi, germanista e direttore della Biblioteca Italo-Tedesca di Roma, in collaborazione con l’archeologa Cristina Cumbo, ci porta alla scoperta di questo luogo arcano e suggestivo con un libro unico, Il Camposanto Teutonico, il solo in lingua italiana che affronta tutti gli aspetti, dall’archeologia alla storia, dall’arte alle biografie delle personalità illustri ivi tumulate, necessari per uno studio del sito a tutto tondo, finora lasciato ai soli interpreti tedeschi. Il saggio, di lettura piacevole pur nell’accuratezza critica, è rivolto indifferentemente all’esperto, di germanistica come di storia dell’arte o di archeologia, e al semplice appassionato, curioso di esplorare le bellezze della Roma segreta: una guida maneggevole, un piccolo manuale dotato di un ricco apparato iconografico, che promuove la conoscenza di questo luogo poco noto e certo ne invoglia una visita diretta. Da Nerone a oggi: cenni storici su un’istituzione poco conosciuta, meta di pellegrinaggio dal Nord Europa già nell’alto Medioevo, in particolare fiammingo e tedesco, e tappa romana obbligata del Grand Tour a partire dal Settecento, il Campo Santo Teutonico è situato in territorio italiano ma gode del particolare statuto di extraterritorialità in favore della Santa Sede, come la contigua e più moderna Aula Paolo VI.

La specificazione di “teutonico” del Campo Santo suggerisce fin da subito l’appartenenza identitaria della comunità al quale esso offre ultima ospitalità: il comune denominatore è la provenienza dall’area germanica, o la parentela con qualcuno di tale origine. La Confraternita di S. Maria della Pietà, la quale si occupa della gestione del Campo così come della regolamentazione che definisce i soci della stessa, specifica i requisiti necessari per la sepoltura nel cimitero: essere di madrelingua tedesca e aver risieduto per un lungo periodo a Roma. Si tratta infatti della più antica istituzione germanica nella Città eterna. La sacralità e la destinazione cimiteriale hanno origini antiche: le ricognizioni archeologiche, pur condotte in modo sporadico e parziale, confermano la sua collocazione nell’area del Circum Neronianum (già parte degli horti di Agrippina Maggiore, madre di Caligola, ma terminato da Nerone) dove, secondo la tradizione, ebbe luogo il martirio dell’apostolo Pietro, tra il 64 e il 67 d.C.; il circo, abbandonato verso la metà del II sec. d.C., venne interrato e occupato da sepolture.

Ma è con la Schola Francorum, fondata come sembra dallo stesso Carlo Magno o comunque legata alla sua figura, che si pongono le basi per la nascita dell’attuale complesso del Campo Santo. Menzionata per la prima volta nel 799, essa non era che una delle numerose Scholae peregrinorum straniere che si costituivano nei pressi della tomba di Pietro, istituzioni adibite all’accoglienza dei pellegrini provenienti da ogni angolo dell’Impero carolingio. Ogni Schola non solo offriva asilo ai propri connazionali ma provvedeva anche a dare loro degna sepoltura in caso di morte a Roma. La Frankenschola altomedievale, guidata da chierici, comprendeva in particolare una o due chiese, un ricovero per pellegrini e un cimitero. Nel XV secolo l’areale era ormai caduto quasi in disuso e versava in condizioni precarie; fu un cittadino tedesco, Friedrich Frid, che si assunse l’onere di contrastare tale declino, intorno al 1440: restaurò la chiesa e si occupò della gestione del cimitero; grazie alla sua attività iniziale sorse quella Confraternita che si sarebbe sviluppata fino a divenire ufficialmente nel 1597 l’Arciconfraternita di Nostra Signora.

L’area attuale del Campo Santo ha una estensione di circa due chilometri quadrati e comprende, oltre al cimitero, il Collegio per sacerdoti studiosi della Chiesa e delle discipline a essa collegate (nato nel 1876), e la Chiesa di S. Maria della Pietà, alla quale si può accedere solo dall’interno. Alcune illustri personalità che riposano al Campo Santo «A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti [...] e bella / e santa fanno al peregrin la terra / che le ricetta» (vv. 151-154). Di nuovo risuonano calzanti i versi foscoliani mentre il prof. Bettoni Pojaghi e la dott.essa Cumbo ci conducono in una passeggia immaginaria attraverso i sepolcri del Campo Santo Teutonico. Qui riposa un numero sorprendente di illustri personalità del mondo germanico ma romane d’adozione, tra artisti, poeti, eruditi, ecclesiastici, studiosi di arte e di archeologia, nobildonne di vasta cultura.

La vera ricchezza di questo luogo consiste proprio nelle infinite scoperte che il visitatore attento può fare vagando tra le tombe: ogni nome inciso sulla pietra evoca grandi storie, memorie d’altri tempi, vicende umane private e pubbliche. Per questo molte pagine de Il Camposanto Teutonico sono dedicate a diversi personaggi qui sepolti, offrendo non solo una mera rievocazione biografica ma un dettagliato quadro d’insieme sul contesto storico e culturale nella quale essi vissero e operarono. «L’unicità del Teutonico sta forse proprio in questa magica fusione di storia e natura, ove veramente sembra di respirare per alcuni momenti un clima interamente tedesco, di raccoglimento cioè e di pensiero interiore, uniti però ad un senso di etereo, quasi goethiano, congiungimento con la dolcezza e la delicatezza del solare paesaggio italiano» (p. 75). L’armonioso connubio tra italianità e germanicità che si realizza al Campo Santo ricorda la poetica di una corrente artistica ottocentesca, quella dei Nazareni, gruppo di pittori tedeschi che proprio a Roma poterono creare un’arte libera dai canoni del classicismo vigente, rinnovata in senso religioso e patriottico e ispirata al Quattrocento italiano. È emblematica in questo senso la famosa Italia e Germania, opera che raffigura le allegorie femminili delle due nazioni, del caposcuola dei Nazareni, Friedrich Overbeck (1789-1869). Sebbene il monumento funebre dell’artista si trovi nella chiesa romana di S. Bernardo alle Terme, la moglie Anna Schiffenhuber-Hartl e i figli riposano proprio al Campo Santo Teutonico.

L’arte è ben rappresentata al piccolo cimitero del Vaticano da molti artisti, tra i quali spiccano il pittore paesaggista Joseph Anton Koch (1768-1839), di origine tirolese e conosciuto per i suoi affreschi a tema dantesco nel Casino Massimo al Laterano, Othmar Brioschi (1854-1912), altro pittore paesaggista discendente di un’importante famiglia viennese di pittori scenografi, e Heinrich Maxilimilian Imhof (1795-1869), scultore svizzero e direttore delle Belle Arti presso i musei di Atene, le cui opere sono esposte in tutta Europa. Il mondo letterario e librario non è da meno: spiccano i nomi di Johannes Urzidil (1896-1970), poeta ebreo praghese membro del sodalizio letterario Prager Kreis (di cui facevano parte anche Franz Kafka e Max Brod), di Stefan Andres (1906-1970), scrittore tedesco osteggiato dal governo nazista per la libertà espressiva e per la moglie ebrea, e della famiglia di librai Immelen-Regenberg, che portarono avanti l’eredità culturale di Attilio Nardecchia e della sua celebre libreria antiquaria di Roma. Infine colpiscono le personalità di alcune grandi donne che qui riposano: suor Pascalina Lehnert (1894-1983) che fu la segretaria personale e amministratrice di papa Pio XII per decenni, fin dalla nunziatura di quest’ultimo a Monaco negli anni Venti, e figura attiva nella comunità tedesca a Roma anche dopo la morte del pontefice; la principessa polacca Carolina von Sayn-Wittgenstein, donna di grande cultura musicale, che fu amante del pianista Franz Liszt; Sybille Mertens-Schaaffhausen (1797-1857), detta la “Principessa tedesca”, archeologa e collezionista, che tenne un famoso salotto nel suo Palazzo Poli a Fontana di Trevi al quale partecipò persino Goethe; Hermine Speier (1898-1989), archeologa ebrea di Francoforte, che fu la prima donna assunta dai Musei Vaticani, durante il pontificato di Pio XI, per i quali condusse importanti studi e ricerche, (famoso il ritrovamento della testa di cavallo appartenente al frontone occidentale del Partenone). Sulla sua tomba il verso goethiano «Leben ist Liebe» (la vita è amore) e sassolini lasciati da chi le rende omaggio: secondo la tradizione ebraica simboli della memoria e della persistenza, del ricordo che non appassisce come un fiore. «Serbi un sasso il nome».

                           di Letizia Aggravi

 

L’Italia di Dante.
Viaggio nel Paese della Commedia

di Giulio Ferroni

 

Milano, La nave di Teseo e Società Dante Alighieri, 2019, pp. 1226

 

Dante e Ferroni, viaggiatori d’Italia. Considerazioni su un libro recente

È ancora fresco il ricordo dei difficili mesi del confino eccezionale entro le mura domestiche; e la recente riapertura non ha potuto del tutto dissolvere la straniante inquietudine, il senso di alienazione e disagio, anche per l’ambiguità delle soluzioni e i pareri discordanti verso un nemico invisibile che non pare tuttora sconfitto. In questo tempo incerto attualissimo appare il tema del percorrere lo spazio, della libera mobilità attraverso i luoghi d’Italia. Così il libro di Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel Paese della Commedia giunge anticipando di pochi mesi il famigerato lockdown; oggi la sua lettura, nell’evocazione di tanta bellezza artistica e naturale, nel comunicare il piacere del viaggiare, si apprezza particolarmente e ci invoglia a ripercorrere e fruire gli spazi ivi evocati, memori dei vicini e strani giorni in cui ciò ci era precluso.

Ma il recente volume esce anche in un momento in cui è vivissimo l’interesse per l’opera dantesca: il 2020 è stato l’anno del primo Dantedì, giornata nazionale dedicata al poeta, mentre si avvicinano ormai le celebrazioni per il settimo centenario della sua morte (1321-2021). Nel segno della grande tradizione dei viaggi in Italia riassunti in scrittura – da Montaigne a Montesquieu, da Goethe a Stendhal, fino a Guido Piovene – l’autore compie un Grand Tour nel “bel paese dove ’l sì suona” sulle tracce dei luoghi nominati nel poema eccelso che è simbolo della letteratura e della cultura italiana, la Divina Commedia: un’opera voluminosa quella di Ferroni, ma di fluida e appassionata scrittura, resoconto o diario, narrato in prima persona, di una serie di viaggi da lui compiuti tra il 2014 e il 2016, le cui tappe sono sempre occasionate e scandite dalla parola dantesca.

 

I viaggi di Dante, reali e letterari

D’altronde è lo stesso Dante l’autore di uno dei primi “viaggi in Italia”, seppur solo mentale: nel De vulgari eloquentia egli percorre i “boschi e i pascoli” della penisola alla ricerca di quella sfuggente “pantera” che è il perfetto volgare letterario (decentiorem atque illustrem Ytalie venemur loquelam, I xi 1), notando, tra le altre cose, con grande lungimiranza, il variare delle lingue nel tempo e nello spazio. È poi la Commedia anch’essa il racconto in prima persona di un viaggio, quello mistico attraverso i regni ultramondani del viator in cammino dalla selva del peccato verso la redenzione e il ricongiungimento con Dio; pellegrinaggio tutto spirituale che pure non tralascia la notazione degli aspetti più concreti del viaggiare: la fatica, il sonno (“[...] stava com’om che sonnolento vana”, Pg XVIII 87), le difficoltà lungo il cammino, gli imprevisti (la “via [...] rotta” nelle Malebolge, If XXI 114), gli ostacoli naturali (“noi salavam per entro ‘l sasso rotto, / e d’ogne lato ne stringea lo stremo, / e piedi e man volea il suol di sotto, Pg IV 31-33), i mezzi di trasporto (memorabile il volo sulle “spallacce” di Gerione, If XVII, o la discesa nel fondo dell’Inferno nelle mani del gigante Anteo, If XXXI).

È tipico di Dante spiegare luoghi e situazioni dei regni ultraterreni riconducendoli al nostro mondo, alla quotidianità che tutti gli uomini possono comprendere; in ciò si realizza una delle più originali cifre dantesche: poesia che ammette in perfetto connubio lo spirito e la corporalità, e che in fondo ne rimarca la sua autentica anima medievale. Il protagonista della storia (quel Dante il cui nome risuona un’unica volta nel poema, Pg XXX 55) rappresenta allo stesso tempo l’allegorico Everyman e Dante Alighieri, dal vissuto umano unico e irripetibile. Nella storia universale del poema emerge potente quella particolare dell’autore e del mondo coevo: gli eventi politici, l’attualità, i personaggi, gli ideali. E così anche il viaggiare, che ebbe parte importante nella vita del poeta; non solo il doloroso ramingare nel tempo d’esilio, quando provò “sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale” (Pd XVII 58-60) ma anche prima, quando l’impegno politico e ideologico alla causa di Firenze lo portò a partecipare a varie ambascerie e battaglie in più luoghi della Toscana e nei suoi dintorni.

Pertanto, la notazione dei più diversi luoghi d’Italia, conosciuti direttamente o indirettamente, per fama letteraria o per altre vie, ha tanto spazio nell’opera dantesca; tutta la Commedia, infatti, è gremita di citazioni di città, luoghi naturali, siti di battaglie, opere architettoniche e artistiche dell’Italia contemporanea o antica che la straordinaria immaginazione di Dante utilizza per dare concretezza e verosimiglianza all’Oltremondo: di qui parte Ferroni nel suo viaggio dantesco.

 

Il viaggio di Ferroni, tra dantistica e odeporica

Giulio Ferroni, professore emerito della Sapienza di Roma, ormai libero dagli impegni accademici, realizza un suo antico desiderio: viaggiare attraverso i luoghi danteschi, dove l’eco della poesia – voce assoluta ma al contempo recante il segno della sua età – si congiunge al vario sovrapporsi delle epoche passate, determinandone la presenza odierna in una continuità, quando equilibrata e armonica, quando lacerata e contrastata; “nel nome di Dante la cultura e la lingua italiana segnano il loro incardinarsi nei luoghi d’Italia, si pongono come un dato vitale che ha animato nel tempo l’ambiente e il paesaggio d’Italia, le sue bellezze naturali e gli infiniti splendori dell’arte, dell’architettura, dell’urbanistica, del vario e contraddittorio fare umano” (p. 18).

Percorrere gli spazi del nostro paese sulla scorta della parola dantesca è anche “affermare la reale riconoscibilità dell’Italia”: molti secoli prima che esistesse una nazione italiana, Dante già attribuiva una determinata identità storica, linguistica e geografica all’ “umile” patria virgiliana; e oggi è tanto più importante ricordarlo, contro tutte le divisioni, le ambiguità e i contrasti della politica e della cultura odierne (così che riecheggiano sempre attuali i famosi versi della “serva Italia, di dolore ostello”, Pg VI 76 e segg.). Ferroni ci racconta un’Italia proteiforme, dove la disarmante bellezza della natura e dell’arte convive con le brutture e l’artificialità della società del consumo, dove la civiltà e l’ingegno degli uomini passati e presenti lottano contro gli egoismi moderni, il ricordo persistente degli orrori della guerra, la violenza e la volgarità.

Emblema di questa ossimorica condizione appare una città come Napoli, luogo del riposo di Virgilio e di Leopardi, “grande capitale caduta e fatiscente” nella quale si alternano “bellezza e violenza, intelligenza e ignoranza, decoro e degrado, impegno razionale e volgarità camorrista”, ma in cui persiste l’ “eco di voci e di luci antiche, di sole e di mare d’altri tempi, di magie segrete, di esistenze, popoli, linguaggi che sembrano traspirare dal fondo della terra, dalle stesse minacciose esalazioni vulcaniche” (p. 26); a Roma, invece, “nel cuore della Cristianità, nella fucina del sacro, in uno dei luoghi che più miracolosamente hanno saputo coniugare il sacro con il bello”, i siti di richiamo turistico come i Musei Vaticani sono contaminati dalla “mediocre e povera sciatteria che contorna la bellezza”, la varia e banale paccottiglia delle bancarelle di souvenir per vacanzieri distratti, che fruiscono di quella bellezza in maniera superficiale. Vi è infatti una sottile critica a quel “turismo standardizzato e plastificato” che deturpa l’autenticità del luogo, trasformandolo in platinato spettacolo per il consumo delle folle; come Venezia, divenuta “simulacro di se stessa” o Alberobello che “ha totalmente perduto la propria ragione interna, è come svuotato e riempito di altro, lustrato in funzione dello sguardo estraneo” (p. 284).

Per converso, ci sono invece luoghi che sembrano sfuggire alla caotica modernità, protetti dal silenzio e preservati nella loro autentica identità: come l’alpina Ostana, dove ogni cosa reca “il segno di una concretezza di vita, di una disposizione umana che non si è ancora piegata alla virtualizzazione dell’esperienza” (p. 958), o Sovana, in Maremma, “segreto resto di Medioevo approdato nel nostro tempo”. Vi sono poi nell’opera di Ferroni le tante ecfrastiche descrizioni dei capolavori dell’arte e dell’architettura, di cui il nostro paese è così ricco; la magnificenza delle case di Dio, la perfetta maestria delle forme di dipinti e sculture sono raccontate con la passione del viaggiatore che vive fino in fondo l’esperienza della visita, fruisce dell’opera profondamente, penetrandone l’essenza. In ciò è decisivo il filtro della cultura, conoscitrice della storia dei luoghi e sensibile al richiamo degli echi letterari, non solo danteschi. Così a Lucca, di fronte al sepolcro di Ilaria del Carretto, Ferroni definisce l’opera di Jacopo della Quercia “immagine di solitudine, di impossibile persistenza della bellezza nella morte, come in un sussulto di fragilità del marmo”, ricordando le parole di Pasolini e Quasimodo che, come lui, rimasero affascinati dalla commovente avvenenza di quel perfetto viso marmoreo. Infine, l’autore si rivela anche osservatore attento ai più quotidiani dettagli – le persone incontrate, i luoghi di soggiorno, i cibi tipici – che restituiscono grande concretezza al racconto di viaggio; nonché l’attenzione all’attualità talvolta conduce a più larghe riflessioni sui tempi correnti: colpisce l’immagine della sfera di Arnaldo Pomodoro, nel cortile della Pigna in Vaticano, come “emblema del nostro mondo corroso” che “non può del tutto nascondersi nella lucida apparenza dei suoi artificiali simulacri”.

Dalla lettura del libro di Ferroni riscopriamo così la bellezza del viaggio culturale: visitare i luoghi d’Italia riscoprendone la loro autentica sostanza, la ricchezza dei significati che essi custodiscono e moltiplicano nel corso del tempo, creati dal passaggio di uomini e donne, dagli imprevedibili andamenti della storia. Parlare di viaggio oggi, nelle incertezze e paure del tempo presente, per di più ci fa riflettere sulla libertà del movimento, che fin ora potevamo dare per scontata; nel pensare a Dante, alla sua finta libertà che lo costrinse ad andare per il mondo, noi moderni per converso abbiamo vissuto la costrizione di una sorta di libertà condizionale: un esilio invertito di senso.

 

                                di Letizia Aggravi

 

La porta sull'estate

di Robert A. Heinlein

 

Milano, Urania, 2020

Finalmente pubblicato in versione italiana, questo romanzo del 1956 di un grande autore della cosiddetta "Hard Science Fiction", ossia della "fantascienza" (ma il lemma italiano che contamina il fantastico con la scienza non rende l'originale inglese che contempla invece la "narrazione scientifica", volendo "il racconto sulla scienza") cosiddetta "dura", come anche in italiano si designano le scienze esatte almeno per approssimazione continuiamo a chiamarle così, nonostante che Prigogyne, Stengers e altri abbiano messo in dubbio la "verità" o almeno la "verità assoluta" di tali scienze). Insignito con premi Hugo e con una pletora di premi d'altro tipo, rende ragione della problematica di questo autore, di formazione scientifica (ingegnere aeronautico), nato a Butler nel Missouri nel 1907, di origini germaniche, scomparso in California, che nelle sue opere esprime la sua "fede" nella scienza, senza però nasconderne i pericoli, nel caso la scienza venga manipolata e/o piegata a scopi politici mai chiaramente espressi, certo reconditi ma non meno chiari, nelle intenzioni di chi si propone di realizzarli.

Qui il tema è quello di un ingegnere made in the USA, che (come l'autore) aveva prestato servizio nella marina militare, che poi si propone, con successo, come inventore (nel romanzo si parla più di robotica che di informatica, peraltro) e che, per amore di una donna e per fiducia nell'amicizia di un (presunto) amico, si ritrova invece in una condizione particolare: da "crioconservato" per forza (era già convinto di sottoporsi al "sonno freddo", risvegliandosi 30 anni dopo, nella fattispecie nel Duemila.

Tuttavia i due amici-soci lo obbligano a questa scelta, fra l'altro riducendola in una condizione finanziaria che rasenta la bancarotta. Il protagonista saprà "giostrare" i suoi movimenti o meglio i suoi spostamenti nel tempo, senza esitare, arrivando ad una conclusione, very american style, che volgarmente definiremmo "happy end". Individua la vera donna della sua vita e realizza in pieno i suoi progetti scientifici e di vita, con positive ricadute economiche.

Ispirata palesemente a When the Sleeper Wakes (Quando il dormiente si sveglierà), racconto di H. G. Wells scritto e pubblicato dapprima dal 1898 al 1899 a puntate, poi come romanzo unitario nel 1910, l'opera di Heinlein non ha però l'ampiezza epico-politica dell'opera di Wells. Si concentra piuttosto, a parte i rilievi scientifici che interessano anche in particolare chi si occupa di scienza e di tecnologia, sulla componente psicologica e "lirica", per riprendere una definizione dell'estetica romantica, ovvero sulla soggettività e sull'individualità del protagonista Daniel Boone Davis, lo scienziato "truffato" e vilipeso, per non dire, dostoevskijanamente "umiliato e offeso"...

Il tema dei viaggi nel tempo, che per esempio in Stephen King ha avuto applicazioni nel campo della storia controfattuale (a proposito dell'omicidio di John Fitzgerald Kennedy in 22.11.63 (11.22.63 nell'originale inglese) e con esiti forse contrastanti ma interessanti, nell'opera di Heinlein raggiunge punte di notevole interesse, in particolare quando accenna al décalage tra le varie epoche storiche del ventesimo secolo, fino all'approdo, nel 2000, che nell'autore non ha alcuna risonanza di tipo apocalittico, ma viene concepito come un futuro complessivamente positivo senza essere in alcun modo "perfetto" ma, al contrario, ancora decisamente "perfettibile".

La porta sull'estate è un'opera che si colloca tra le più significative dell'autore di Double Star (Stella doppia), anch'essa del 1956, di Starship Troopers (Fanteria dello spazio, 1959), di The Moon is a Harsh Mistress ( luna è una severa maestra, 1966), mostrando come la letteratura "fantastica", a suo tempo molto ben studiata da Tvetan Todorov, possa offrire spunti di riflessione che vanno ben oltre il mero "divertimento", ammesso che si sappia definire che cosa si intenda con questo termine.

                                    di Eugen Galasso

        

Le Donne della Merlet. Eine Meraner Industriegeschichte

a cura di Sonja Steger, Enzo Nicolodi, Toni Colleselli

 

Merano, Edizioni alphabeta Verlag, 2019, pp. 144

Questo libro ci ridà un pezzo di storia artigianal-industriale del Südtirol/Alto Adige, narrandoci, con testimonianze delle stesse operaie, racconti che le “riproducono” con la tecnica del racconto scritto che “media” quello orale (operazione realizzata da Enzo Nicolodi), poesie, introduzioni storiche e altro ancora. Si tratta di una storia che, dagli anni 1920 in poi, fino all’inizio del Secondo Millennio, ossia alla chiusura della fabbrica, ha segnato un pezzo importante della vita produttiva di questa provincia-regione.

Bilingue la fabbrica, prevalentemente (ma non unicamente) di lingua italiana le lavoratrici, con assoluta dominanza femminile (si tratta di confezionare , tra l’altro, il famoso Loden, anche nella memoria recente di tutti in quanto il “capo” più esibito dall'ex-premier iperliberista Mario Monti...), emerge un pezzo di storia sociale e sindacale di questo paese strano che si lascia chiamare “Tirolo del Sud”, “Suedtirol”o tout court “Tirol”, “Haute Adige” etc. Ci si richiama di volta in volta alla fondazione da parte dei Reti (che un presunto storico, qualche decennio fa, identificava senz’altro con gli Etruschi, a loro volta quasi equiparati ai Romani...), all’alto patronato di Michail Gaismayr, di Andreas Hofer, di qualche principe-vescovo, senza considerare come, a livello economico ma anche sociologico e antropologico (penso all'impatto di vari settori della popolazione rurale “improvvisamente”, comunque forse troppo rapidamente trasformati in albergatori o in persola alberghiero), abbia agito sull'immediato ieri e sull'oggi l'industrializzazione , certo insieme al turismo nella sua versione tardonovecentesca.

Sono autori/autrici, oltre alle operaie, Enzo Nicolodi, Walter Christanell quale parte in causa (imprenditore/anche direttore amministrativo della Merlet), i sindacalisti Christian Troger (UIL/SGK), Pino Giordano (CISLSGB-anche autore di una poesia all’epoca dell'occupazione della fabbrica nel 1982) , Giusi Giarrizzo, (CGIL/AGB) che ha avuto a disposizione l'archivio della Camera del Lavoro meranese. Anche l'ex-consigliera provinciale Maria Grazia Barbiero De Chirico ha scritto un testo più che interessante in questo volume, contestualizzando il cosiddetto episodio Merlet non meno di quanto abbia fatto Nicolodi nel suo testo introduttivo.

La frase più significativa quanto emblematica è quella di August Bebel, amico di Friedrich Engels, scritta all'inizio del 1900 e citata da Troger: “Wenn die Arbeiterinnen etwas unternehmen, dann müssen die Unternehmer arbeiten” (Quando le operaie intraprendono qualcosa, sono gli imprenditori a dover lavorare). Suggerisce che un conto sono le proteste operaie maschili, un altro (decisamente più preoccupante per chi detiene le proprietà delle fabbriche) quelle femminile, in quanto, notoriamente, per un complesso di condizionamenti culturali, a protestare sono dapprima gli uomini e solo successivamente le donne. Questa, almeno, era la situazione in un passato anche recente, che le lotte operaie delle donne in tutta Europa e dunque anche in Sudtirolo hanno in gran parte superato.

 

                                di Eugen Galasso

 

Bolzano nel segno dei tempi

di Claudio Calabrese

 

Bolzano, Edizioni Praxis Verlag, 2020, pp. 176

 

Claudio Calabrese, scrittore e giornalista, versatile in pittura come ritrattista, si presenta anche come narratore di luoghi con questo Bolzano nel segno dei tempi, che fa seguito ad una prima prova dedicata a Merano tra una sorpresa e l'altra, uscita un paio di anni fa.

La ricca bibliografia e l'indice dei personaggi citati testimoniano l'ampiezza delle fonti di riferimento. L'autore si è documentato a tappeto su molte opere storiche e architettoniche che hanno raccontato in passato la città. Poi però c'è la sua sentita partecipazione affettiva: egli fa propri e rielabora creativamente tutti quei dati informativi. Ne esce una esposizione piana e coinvolgente, anche se didascalica, che accompagna il lettore nell' ideale itinerario per tutta la città. La mappa copre infatti tutto il territorio, tracciando un ritratto non convenzionale che restituisce dignità ad ogni parte di Bolzano, sia quella più antica che quella più recente, novecentesca, fin dentro ai giorni nostri.

Nel primo capitolo si immaginano nove giorni d'estate, dedicati ad altrettanti quadri di vita bolzanina vissuti prevalentemente nell'area del centro città, mentre nel secondo capitolo si incontra la parte della città nuova, al di qua del Talvera, con i numerosi riferimenti storici al periodo del ventennio fascista e ai tentativi del regime, anche urbanistici e architettonici, di italianizzare il capoluogo. Il terzo capitolo si dedica a raccontare aspetti bizzarri e inaspettati di diverse zone della città, da Gries al quartiere di Don Bosco alla Zona industriale, sempre densi di ricordi, aneddoti e curiose novità che Calabrese registra con spirito di scoperta e di sorpresa.

Naturalmente il libro non è una guida turistica dove il viaggiatore possa trovare le segnalazioni pratiche per la canonica visita di un centro urbano. Leggerlo è un piacere soprattutto per chi è già inserito nella città e la ama, ne conosce già molti angoli e spazi di vita e gode nel riviverli narrativamente. La dimensione diacronica permette di cogliere le stratificazioni nel tempo dei vari luoghi della città. Qualche concessione alla cronaca e al gossip smorza lo sviluppo didascalico tipico della guida alla città, riportando anche leggende metropolitane di cui a Bolzano si parla.

Un'avvertenza: il visitatore che si voglia mettere alla (ri)scoperta di Bolzano con la "guida" di Calabrese sappia che deve calcolare diversi giorni di movimento. Calabrese non fa selezione, non si accontenta dei punti panoramici o spettacolari o storici più in vista, ma macina e accumula dati in quantità. Nel comunicarci la sua passione per questa città "da vedere, vivere, osservare, amare" - come dice - non sa resistere alla tentazione di dirci proprio tutto.

 

                                 di Carlo Bertorelle

 

Teatro

di Sergio Blanco

 

Imola (Bo), Cue Press, 2019, pp. 131

 

La caratteristica principale della drammaturgia spiazzante di Sergio Blanco, commediografo e regista teatrale franco-uruguaiano, è esposta dall’attore cui compete il ruolo del Figlio nella commedia Il bramito di Düsseldorf: è «l’incrocio delle narrazioni reali e delle narrazioni di fantasia» che si concretizza «nell’autofinzione», regolata da un «patto con la menzogna» e ne «il lato oscuro dell’autobiografia» fondata invece «su un patto di verità».

Di fatto la figura di Blanco pare essere sempre presente nei suoi testi, distribuendo le sue molteplici sfaccettature di uomo e di artista nelle peculiarità dei suoi personaggi. Non importa scoprire il confine tra finzione e realtà, chiedendosi se l’autore sia veramente omosessuale o dissoluto nella vita per abuso di droghe, se intenda convertirsi all’ebraismo oppure se in lui sia presente un (in)conscio desiderio di uccidere il padre. Questa è la sostanza narrativa dei suoi testi, spigolosi e violenti, poetici e inquietanti, eppure capaci di raccontare il lato oscuro e tenebroso della nostra anima.

In Tebas Land, primo testo antologizzato nel volume di Cue Press, uno scrittore e drammaturgo si reca in carcere – o meglio, nel campetto da basket del carcere – dove incontrare Martino, un parricida, per scrivere un copione teatrale della sua vicenda personale. Inizialmente il ruolo del parricida è concepito per essere interpretato dallo stesso assassino, creando, in questo modo, il gioco dell’identificazione tra il protagonista della storia vera e il protagonista del dramma letterario. In un secondo momento subentra un vero attore che sulla scena si presenta con il suo nome anagrafico (Samuele) come interprete di sé stesso e, al contempo, nel ruolo del parricida Martino.

Le dinamiche relazionali tra il drammaturgo e i due personaggi (il parricida e l’attore) sviluppano un percorso lineare, cui si incrociano significativi richiami letterari e culturali, come Dostoevskij, epilettico come il parricida, I fratelli Karamazov per quanto riguarda il senso del delitto, e San Martino da Tours, santo che condivide il nome del parricida in questione, che pure lui visse un rapporto tormentato con il padre.

Enigmatico e emblematico per il concetto di autofinzione è anche L’Ira di Narciso (2015), commedia interpretata dall’amico e drammaturgo Gabriel Calderón. Nel testo figura infatti un personaggio dal nome di Sergio Blanco: è invitato dall’Università di Lubiana a tenere una conferenza sul tema dello sguardo, che affronta analizzando il mito di Narciso. Mentre prepara la relazione, si dedica a corse nei parchi, a conversazioni con i colleghi e ai dialoghi con la madre via Skype, soprattutto a incontri sessuali con Igor, giovane sloveno conosciuto in un sito di appuntamenti dove scopre l’inquietante presenza di alcune macchie di sangue sulla moquette della sua stanza d’albergo. il finale è agghiacciante.

Il citato Il bramito di Düsseldorf, testo inedito per l’Italia, ruota intorno alla morte del padre ricoverato in una clinica di Düsseldorf, città in cui l’autore si trova per scrivere il catalogo di una mostra d’arte su Peter Kürten – l’infame serial killer tedesco dell’inizio del XX secolo, conosciuto con il soprannome di “vampiro di Düsseldorf”; oppure per firmare un contratto come sceneggiatore di film porno per una delle più grandi società di produzione cinematografica settore; o ancora perché votato alla conversione al giudaismo attraverso la circoncisione nella famosa sinagoga di Düsseldorf.

Da queste tre possibili ipotetiche motivazioni scaturiscono analisi sui limiti dell’arte, la rappresentazione della sessualità e la ricerca di Dio.

 

                                    di Massimo Bertoldi

 

Parola di Václav Havel
Teatro, Rock e resistenze
Dietro il muro di Berlino


di Paolo Verlengia

 

Chieti, Solfanelli, 2020, pp.200

«Parlare di Havel è difficile, e forse per questo non lo si fa», scrive Paolo Verlengia a proposito del primo presidente della Cecoslovacchia post comunista nel 1989 e poi primo presidente della Repubblica Ceca nel 1993. Tuttavia «è necessario per una meditazione maturata sul crollo del comunismo e della guerra fredda a cui sono riconducibili molti fenomeni d'oggi (come l'immigrazione di massa) [...], strumentalizzati dalla vulgata politica».

In questo quadro storico si colloca l'esperienza di Havel come uomo politico ma prima ancora come scrittore e uomo di teatro. Ed è sulla base di questo intreccio inscindibile che Verlengia fonda l'intreccio che unisce la pratica teatrale, declinata nelle sue molteplici forme e intesa come motore per l'analisi della realtà, e in senso dell'azione politica, come del resto aveva suggerito lo stesso Havel in un testo autobiografico del 2006, Un uomo al Castello.

Dalla minuziosa ricostruzione storico-letteraria emergono i meccanismi di controllo e di censura del regime affidati alla DILIA (Ufficio Letterario e Teatrale di Stato), che colpì a più riprese Havel, ma anche le isole di resistenza artistica come il Teatro alla Ringhiera di Praga, noto per avanguardistici allestimenti beckettiani. Non mancano situazioni contraddittorie e di respiro kafkiano soprattutto quando il drammaturgo Havel inizia a suscitare un certo interesse presso la prestigiosa Royal Shakespeare Company di Londra, tanto che Vera Blackwell, figura fondamentale per la diffusione europea del repertorio, traduce Festa in Giardino.

Con Memorandum, seconda commedia, si entra nella dimensione dell'assurdo ma riconducibile alla logica delle relazioni politiche dell'epoca: il National Theatre di Londra si rifiuta di produrre il testo mentre la severa DILIA lo protegge, considerandolo patrimonio nazionale da lanciare all'estero. Per effetto dell’invasione russa del '68 scatta la repressione, dura e spietata, che colpisce anche Havel, intanto tradotto e pubblicato in Germania da Rowohlt. Al mercato tedesco il drammaturgo propone L'Oper dello Straccione ma nessuno è interessato, forse per la presenza ingombrante de L'Opera da Tre Soldi di Brecht e Weill. Tuttavia il capolavoro debutta nel 1975 in forma clandestina presso il praghese Teatro in Movimento, dove avviene il varo anche de L'Udienza.

Il rapporto tra politica e teatro vive un altro passaggio cruciale nel 1977 quando Havel lancia la Charta 77, il documento sottoscritto da molti intellettuali che dimostra il mancato rispetto dei diritti umani da parte del governo, pur sottoscritti nei trattati di Helsinki. Havel finisce in carcere per quattro mesi. Intanto il suo successo aumenta negli Stati Uniti: dopo i trionfali allestimenti di Memorandum al Public Theatre di New York nel 1966, che trasforma l'autore in un'icona hippy alternativa e pacifista, e di Difficoltà di Concentrazione al Lincoln Center, nasce un'amicizia profonda e duratura con Tom Stoppard. In questa girandola di relazioni, a tante altre soni ben raccontate da Verlengia, si muovono gli ingranaggi della guerra fredda con retroscena culturali che sanno di spionaggio e di resistenze civili al regime comunista, come del resto lo stesso Havel ha palesato nei suoi testi teatrali costruendo storie vagamente ascrivibili al genere del Teatro dell'Assurdo.

Nella seconda parte del libro Verlengia sceglie il tema del rapporto tra intellettuale e potere per guidare il lettore alla conoscenza di tre testi esemplari: L'Udienza (1975), Largo Desolato (1984), Tentazione (1986). Che importanza abbia avuto la musica rock nella cultura e azione politica del futuro presidente, segnatamente Velvet Underground e Fugs, Verlengia lo spiega nell’ultimo e illuminante capitolo di questo libro importante, assai documentato, scritto con passione trasferita in un linguaggio tra il saggio e il romanzesco, capace di riportare alla memoria un grande personaggio troppo presto dimenticato e assai poco rappresentato sui palcoscenici italiani.

 

di Massimo Bertoldi

 

Berlino
Tra passato e futuro

di Sotera Fornaro

 

Imola, Cue Press, 2019, pp. 71

Assumendo a paradigma la programmazione della Volksbühne, il teatro per antonomasia della Ddr assieme al Berliner Ensemble, Sotera Fornaro scrive: «sembra che si voglia neutralizzare l’aspetto politico» anche per soffocare la possibile «nostalgia dell’Est» e, di riflesso, dare maggiore importanza alla Schaubühne, il teatro simbolo della Berlino occidentale. Questo depotenziamento identitario, via via progredito dopo il crollo del Muro, oltre ad essere un progetto politico nei riguardi del passato, risponde alla vocazione della capitale tedesca sempre più votata al piatto ma conveniente turismo globalizzato.

Pari a chiese e musei, palazzi e piazze, anche gli edifici teatrali occupano una posizione di rilievo negli itinerari tracciati per le «persone di transito». Questo pregevole libro-guida Berlino. Tra passato e futuro recupera il senso della cosiddetta “passeggiata per Berlino”, ricorrente nella letteratura e nella filosofia nel XIX secolo e poi codificata da Walter Benjamin, per raccontare i tanti e celebri teatri, intesi come potenziali contenitori di cultura dello spettacolo e di Storia nelle sue fasi salienti, prima e durante la tormentata repubblica di Weimar, all’epoca del nazismo fino alla situazione attutale, passando attraverso gli Anni di Piombo e la riunificazione delle due Germanie.

L’itinerario ragionato parte dal Mitte, il centro della capitale, dove si trova il mitico viale Unter den Linden che dalla porta di Brandeburgo conduce ad Alexanderplatz e lungo il quale hanno sede l’Akademie der Künste e la Komische Oper, confiscata dai nazisti, bombardata e ricostruita nel 1965-1966. Sul Gendarmenmarkt troneggia il Konzerthaus edificato nel 1776 al tempo di Federico II e diretto nel 1796 da August Wilhelm Iffland, leggenda del teatro tedesco; affidato alla direzione del celebre attore Gustaf Gründgens, fu l’unico teatro funzionante durante il nazismo, mentre all’epoca della Guerra fredda si contrapponeva alla nuova Philarmonie nella Berlino occidentale. Sulla Bebelplatz, il luogo del rogo dei libri nel 1933, si affaccia la Staatsoper Unter den Linden e nei paraggi si incontra il Maxim Gorki Theater, prima Accademia di Canto poi dal 1952 teatro ribattezzato dai russi.

Quando si arriva al Beliner Ensemble, la Fornaro omaggia Brecht con pagine di delicata sobrietà nel sottolineare la personalità culturale e la grande lezione teatrale ereditata da Helene Weigel, straordinaria interprete delle grandi figure femminili del repertorio brechtiano, da Heiner Müller fino a Claus Peymann. Altro teatro analizzato con grande attenzione è il Deutsches Theater già diretto da Otto Brahm e poi da Max Reinhardt che nel primo ventennio del Novecento lo trasformò nel luogo delle arti sceniche più importante di Germania, per poi essere sequestrato dai nazisti, quindi riaperto nel 1945 e diretto da personaggi del calibro di Wolfgang Langhoff e Alexander Lang.

L’incidenza delle trasformazioni storiche emerge anche nell’Est End, a ridosso della Porta di Brandeburgo e della linea del Muro. Questo quartiere – «vuol far concorrenza alla Broadway newyorkese o al West End di Londra», spiega la Fornaro – è animato da teatri di intrattenimento, cabaret, danza e spettacolo leggero.

L’Epilogo del libro è strepitoso: si chiama in causa il Parco di Weinberg, dove sorgeva già nel 1852 un Circus-Theater poi trasformato, durante la Prima guerra mondiale, in teatro di varietà, il Walhalla Theater, al fianco del quale nel 1927 sorse il Chaplin del Weinberg, successivamente raso al suolo dai bombardamenti del 1944. Teatro tanto dimenticato quanto simbolico quindi, poiché «di sicuro qualche fantasma di quelle scene popolari qui si aggira ancora», si confonde fra le persone che «prendono la rincorsa e saltano su un bus. […] Verso il futuro». Così si conclude Berlino. Tra passato e futuro, un libro-guida rivolto a turisti-visitatori sensibili alla cultura dello spettacolo e interessati alla storia della città, scritto con passione e di agile lettura, sicuramente da mettere in valigia nel prossimo soggiorno in una delle capitali mondiali dei teatri.


                             di Massimo Bertoldi

 

Teatro contemporaneo 1989-2019

di Valentina Valentini

 

Roma, Carocci editore, 2020, pp. 195

«Il fenomeno che chiamiamo “teatro”, è diventato un termine anacronistico, sostituito nell’ultimo decennio con “arti performative” che, con dizione conciliante e leggera, oltre il teatro, convoca la performance, la danza e la musica». Così scrive Valentina Valentini in apertura di questo interessante studio dedicato al teatro degli ultimi trent’anni, durante i quali si afferma questo intreccio drammaturgico ed espressivo di forme trasversali, quale prodotto della crisi identitaria delle varie discipline coinvolte.

Nella cornice del declino dei pilastri ideologici e culturali ante 1989 – la lotta di classe, le utopie rivoluzionarie, l’arte intesa come tramite per prospettare un mondo diverso – e con la successiva affermazione delle tecnologie digitali e del neoliberismo globale, il linguaggio teatrale si enuclea dal rifiuto della rappresentazione della realtà, continuando a percorrere quella strada di decostruzione del personaggio e del contesto tracciata dalle avanguardie nella seconda parte del Novecento. Oggi, in un’epoca caratterizzata dal dominio del tempo del presente, è legittimo e più appropriato parlare di «soggettività frammentata e moltiplicata».

Venendo meno il concetto di unità narrativa, si sviluppano variegati percorsi di ricerca espressiva che la Valentini ordina e analizza proponendo una mappatura di fondamentale utilità per seguire le varie traiettorie secondo gli esiti degli artisti interessati.

Una di queste è l’assunzione della dialettica tra storia personale e storia collettiva fondata su inchieste relative a fatti storici, sociali e di cronaca, attraverso il ricorso a testimonianze dirette, secondo la linea seguita, tra i tanti, da Robert Lepage, Teatro delle Albe, Alvis Hermanis. Precisa la Valentini che non si tratta di teatro documentario perché il materiale letterario è filtrato nell’esperienza rivissuta dal soggetto.

Si passa poi alla verifica del teatro quale potenziale oppositore alla realtà contemporanea. L’attenzione cade sull’America latina, dove gli spettacoli affrontano questioni legate alla storia locale per denunciare le violenze dei governi (Pinocchio della compagnia La Troppa). Posizioni di dissenso politico attraversano anche il linguaggio degli artisti russi, da Lev Dodin a Eimuntas Nekrošius, e da Oskara Koršunovas, per poi diramarsi in Polonia con Krystian Lupa.

In questo appassionante viaggio nel teatro contemporaneo mondiale trova ampio spazio anche lo spettacolo italiano, analizzato in una specificità propria e denominata «scuola italiana di vocalità» per il fatto di conferire al suono e alla voce una funzione drammaturgica primaria.

Ricerca avviata da Carmelo Bene e da Franco Scaldati, proseguita tra i tanti da Leo De Berardinis, Marion d’Amburgo e Mimo Cuticchio, la drammaturgia sonora contemporanea è spiegata dalla Valentini attraversi una dettagliata analisi dei paesaggio vocali di Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, di Ermanna Montanari di Teatro delle Albe e di Roberto Latini di Fortebraccio Teatro.

Teatro contemporaneo 1989-2019 – di cui sono protagonisti anche Milo Rau, Motus, Rimini Protokoll, Belarus Free Theatre, ecc. – si completa con una bibliografia aggiornata che offre al lettore una ricca gamma di studi italiani e internazionali, ultimo dei quali questo prezioso e documentato lavoro della Valentini.

 

                                  di Massimo Bertoldi

 

Vedere o non vedere

di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari

 

Imola (BO), Cue Press, 2019, pp. 95

Per capire a fondo la forza creativa dei tre testi antologizzati in Vedere o non vedere è consigliabile leggere attentamente quanto gli autori, Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, dichiarano a Gerardo Guccini in apertura di volume. Spiega l’attore e performer: «i tre lavori mostrano un filo rosso, un percorso che porta allo smascheramento, allo svelamento, a parlare sempre di più in prima persona. […] Gli episodi si possono leggere separatamente, ma anche seguire come segni del nostro percorso artistico e umano. Noi partiamo dalla nostra realtà, ma poi tentiamo di rendere universale il personale».

Come succede in un fiume carsico, dalle tre commedie emergono e poi scompaiono le onde della nostra esistenza fatte di dubbi e crisi, insicurezze e contraddizioni, smarrimenti e consapevolezze, nel contesto di una società ottusamente consumista cui la Compagnia Berardi-Casolari, attiva dal 2008, si contrappone con un linguaggio teatrale provocatorio e ricco di schegge di realismo che aprono inquietanti sguardi sul mondo.

Io provo a volare, omaggio a Domenico Modugno, racconta in modo tragicomico illusioni e delusioni di uno dei tanti ragazzi del Sud che sogna di diventare attore, compiendo una sorta di viaggio errante alla ricerca di riscatto sociale. L’escamotage narrativo è dato dallo spirito di un custode di un teatrino di provincia, il Fantasma, che ogni notte appare in scena con i musicisti con i quali aveva iniziato il mestiere. Si susseguono i sogni, gli incontri, la fuga romantica dal paesello fino all’amaro ritorno. Nel quadro conclusivo si legge il passaggio chiave: «Vedere o non vedere, questo è il problema. Guardare dritto in faccia la realtà che mi circonda e mi spaventa e affrontarla con coraggio per cercare di cambiare qualcosa, o tenere tutto quanto ben nascosto dietro un velo che mi copre gli occhi e mi impedisce di morire?».

Il richiamo ai personaggi di Amleto e di Tiresia, il mitico indovino dell’Edipo Re, oltre a declinare la poetica di Berardi-Casolari, prelude al secondo testo in oggetto, In fondo agli occhi. Ricco di riferimenti biografici (Berardi è cieco dall’età di 19 anni), il dialogo tra la barista Italia e il giovane non vedente Tiresia anima storie di personaggi sintomatici, protagonisti di episodi balordi e simbolici, propri di una condizione umana che alimenta l’immagine da baraccone di una nazione povera di democrazia, ipocrita, avvolta nel buio.

«Soffro ma sogno. / Per questo vivo. / Sognando»: così si apre il conclusivo Amleto take away, esplicito richiamo al malinconico e pensieroso personaggio shakespeariano ora assunto quale segno di un atteggiamento verso il mondo d’oggi, che sprigiona lucidità, follia, nichilismo nella denuncia di una dimensione esistenziale connotativa: l’incontro-scontro tra finzione e realtà, ossia il perno del mestiere dell’attore, tanto che il testo dall’impianto drammaturgico metateatrale beffeggia i maestri di Casolari (Manfredini, Brie, Delbono). La rivisitazione del capolavoro del Bardo non tralascia la figura/fantasma del padre, trasformato in un operaio dell’Ilva di Taranto che, mentre pranza con il figlio leggendo il fumetto di Tex Willer, dubita fortemente sul suo desiderio di voler fare l’attore. E ancora più significativa è la trasformazione del fatidico monologo «essere o non essere» in «esserci o noi esserci» sui social network, vale a dire nel regno per antonomasia della menzogna dove le parole muoiono nel nulla. Inoltre Amleto non declama con il teschio del buffone in mano ma davanti alla tastiera dello smartphone connesso a Facebook e indeciso se «taggare o non taggare».

Il volume Vedere o non vedere offre al lettore un ricco apparato fotografico, strumento fondamentale per inquadrare i testi in funzione della scena. Impreziosisce, inoltre, una pubblicazione importante in quanto dà visibilità cartacea ad una coppia di attori originali che ancora mancano di riconoscimento pari alle loro pregevoli abilità performative. L’operazione editoriale è in linea con il progetto culturale di Cue Press, finalizzato alla scoperta e divulgazione di autori italiani e stranieri basilari per conoscere gli orientamenti della scena contemporanea.

 

                                 di Massimo Bertoldi

 

Teatro
Personaggio e condizione umana

di Guido Paduano

 

Roma, Carocci, 2020, pp. 209

Il teatro non rispecchia la realtà, al contrario ne è «verifica, attraverso uno sguardo capace di scendere nel profondo, più addentro alle istanze primarie dell’umanità», così scrive Guido Paduano nella bella Premessa a Teatro. Personaggio e condizione umana, precisando che da questo nesso si sviluppa quella decisiva identificazione emotiva e poi culturale capace di unire l’attore allo spettatore. Sostenuto da una rigorosa e approfondita lettura dei testi teatrali, lo studioso indaga capitoli fondamentali della storia del teatro europeo. Il filo rosso è dato dal rapporto tra necessità e libertà, con i suoi limiti e impedimenti.

Al centro del teatro greco, interpretato da Paduano come manifestazione laica e politica, segnatamente nella tragedia, si riconosce la volontà di scelta dell’uomo, a partire dagli eroi tragici di Eschilo, di Sofocle soprattutto – il suicida Aiace e Elettra si contrappongono individualmente ai principi della conservazione – e di Euripide, la cui Medea, dopo aver uccido i figli, rimane in vita per lo stesso motivo di lotta a difesa della sua libertà di scelta. Anche l’eroe comico greco esprime marcata individualità in una società conservatrice, come Paduano dimostra nel luminoso commento alle opere di Aristofane, da Uccelli a Cavalieri.

Il teatro latino adatta invece la figura del servo abile interprete degli strumenti dell’inganno, per affermare libertà e giuste cause. Così successe in nel teatro comico di Plauto e poi nelle rivisitazioni di Terenzio, mentre in Seneca la lotta contro il potere diventa più radicale e, come si riscontra in Medea, intreccia le pulsioni dell’eros.

Se la vetrina degli eroi classici esibisce tratti specifici e connotativi della condizione umana, quelli shakespeariani contengono in sé la totalità del linguaggio in senso universale. Il lungo capitolo dedicato al Bardo prende in considerazione la profondità dei personaggi, con le loro insanabili e profonde inquietudini che parafrasano la lotta per la ricerca di sé. «Tutti gabbati: irride / l’un l’altro ogni mortal», dice in chiusura Falstaff di Verdi, quasi a voler sintetizzare con una battura la loro intima essenza.

All’analisi del classicismo francese, caratterizzato dal dominio del super-io in Corneille e Racine e in versione comica in Molière, segue l’inquadramento della tensione per la libertà in una dimensione che riscrive il rapporto tra uomo e cosmo, tra individuo e collettività, secondo i percorsi tracciati da Beaumarchais (Le nozze di Figaro), Schiller, Büchner (La morte di Danton), Kleist, Ibsen, Cechov, Wagner.

Si arriva alla rivolta anti aristotelica del Novecento attraverso la formula del “teatro nel teatro” che, a partire da Pirandello e proseguire con Brecht e il teatro dell’assurdo, pur con esiti drammaturgici molto diversi tra di loro, produce lo smantellamento della consistenza poetica del personaggio inteso come portatore di valori assoluti e di proiezioni anche tendenti all’utopia. Emblematico, in merito, è Aspettando Godot con cui Paduano conclude questo suo affascinante e originale viaggio teatrale.

 

                          di Massimo Bertoldi

 

La grande trasformazione: Il teatro italiano fra il 1914 e il 1924

a cura di Federica Mazzocchi e Armando Petrini

 

Torino, Accademia University Press, 2019, pp. 189

Se il decennio 1914-1924 è cruciale per l’Italia, prima coinvolta nella Grande guerra poi sottoposta al regime fascista, altrettanto si riscontra nell’ambito dello spettacolo, come illustrano gli atti del convegno La grande trasformazione: Il teatro italiano fra il 1914 e il 1924 tenuto a Torino nel 2018 e ora pubblicati a cura di Federica Mazzocchi e Armando Petrini. Il passaggio dal vecchio al nuovo, in cui si riconoscono i segni embrionali della grande trasformazione novecentesca, non si articola in modo rettilineo, è terreno di aperture e resistenze, di progetti ora articolati ora ambigui. È quanto spiega Mirella Schino a proposito della nascita della regia, in ritardo rispetto alle esperienze europee.

Secondo Lorenzo Mango la morte della Duse nel 1924 è un momento simbolico per il tramonto del Grande Attore e di transizione verso il rinnovamento sostenuto, oltre che dall’attività di Pirandello, dall’intervento dello Stato nella gestione e nel finanziamento del teatro in una fase di forti tensioni interne dovute ai contrasti tra scrittori e capocomici. Le ombre della guerra si allungano anche sul cinema tanto da aderire al nazionalismo caro al pubblico borghese da conquistare attraverso film sulla guerra e caratterizzati dalla celebrazione di anacronistici eroi e prodi patrioti, come spiegano con adeguata documentazione Giaime Alonge e Silvio Alovisio. In crisi è anche la lirica, lo dimostra Matteo Paoletti, sia a livello organizzativo che nel repertorio; pur penalizzata dalla concorrenza del cinema e del varietà, si cerca di ribadirne la funzione educativa e propagandistica.

Completato il quadro generale, i saggi successivi si concentrano su singole esperienze, isolate e ignorate, eppure fondamentali. Come quella di Rosso di San Secondo che, illustra Anna Barsotti, con Marionette, che passione! stravolge il triangolo borghese e elabora una scrittura antinaturalistica, sbilanciata verso una innovativa recitazione straniata, sconosciuta all’attore italiano. Enrico Cavacchioli introduce il raisonneur, figura destabilizzate con la funzione di muovere i personaggi come fantocci secondo quanto succede ne L’uccello del paradiso, approfondito dal saggio di Simona Brunetti.

Il dettagliato contributo di Livia Cavaglieri si concentra sulla transizione economica e creativa, dalla dimensione artigianale all’impostazione industriale, che accompagna la riorganizzazione delle compagnie teatrali. Ai Ballets Russes si rivolge in modo approfondito lo scritto di Elena Randi: alla ricostruzione delle tournée svolte dal 1911 al 1927 segue l’analisi delle ripercussioni della lezione russa nelle produzioni ballettistiche italiane.

Considerata “troppo bella” da Silvio d’Amico e stroncata da Gramsci, Lyda Borelli raggiunge in questo decennio la massima popolarità. Maria Ida Biggi la descrive attrice innovativa per la capacità di distinguere tra recitazione teatrale e cinematografica, nonché per essere stata capocomica tenace e indipendente. Altro personaggio chiave del periodo è Virgilio Talli, al quale Donatella Orecchia dedica un prezioso ritratto artistico, ricostruendo l’attività estesa al periodo 1909-1923, quando il maestro introduce decisive riforme nei ruoli dell’attore e del capocomico che concorrono al graduale smantellamento dell’impianto della compagnia di tradizione. Figura emblematica, sospesa tra continuità e discontinuità verso il passato, è Emma Gramatica. In merito Armando Petrini mette in luce il suo essere attrice irrequieta, erudita, instancabile in conflitto perenne con il mondo del teatro. Grande interprete di Casa di bambola, Gramsci la definì “solitaria e ribelle”.

 

                                          di Massimo Bertoldi

 

Lettere
di August Strindberg

a cura di Franco Perrelli

 

 

Imola (Bo), Cue Press, 2019, pp. 323

Ha il ritmo narrativo di uno splendido romanzo epistolare questo volume curato da Franco Perrelli, illustre studioso di teatro scandinavo, che impagina le Lettere di August Strindberg seguendo un assemblaggio finalizzato a intrecciare la corrispondenza epistolare con la vita e il percorso creativo dello scrittore. È lo stesso drammaturgo e romanziere svedese a suggerire questo procedimento: il suo contatto la letteratura avviene infatti attraverso la stesura di lettere che lo accompagnano per tutta la vita. In esse si riconosce lo stile martellante e sperimentale da lui stesso definito “telegrafico”. Perrelli sceglie con cura e maestria i documenti tra i tanti raccolti nell’edizione svedese dell’epistolario contenuto in venti volumi e non ancora completata.

Simili a un monologo interiore desideroso di una platea di lettori, queste lettere sono indirizzate a colleghi e editori, famigliari e anche a molti compagni di scuola e di gioventù. Raccontano, vicino a qualche momento luminoso, soprattutto travagli esistenziali, aspre polemiche, tensioni intellettuali e visioni che poi emigrano nella sostanza psicologica e morali di molti personaggi teatrali e romanzati.

Con rigore scientifico e abilità letteraria, Perrelli divide il libro in cicli storici, a partire dal periodo 1849-1874 coincidente con l’attività di Strindberg in qualità di amanuense malpagato (il denaro sarà un altro capitolo doloroso) presso la Biblioteca Reale di Stoccolma, con gli esordi come scrittore e drammaturgo alle perse con la promozione di Mastro Olof nei circuiti teatrali e letterari.

La crisi psichica provocata dall’amore per l’attrice Siri von Essen, sua futura prima moglie; l’amicizia con l’influente critico Georg Brandes e la stesura de la sala rossa costituiscono le tematiche portanti dal 1875 al 1883.

Il biennio successivo, 1884-1886, si presenta dominato dal rapporto difficile e controverso con lo scrittore Bjorson e dall’accusa di blasfemia e misoginia presenti nei racconti contenuti in Sposarsi. Il processo provoca ulteriore destabilizzazione e rabbia sociale in Strindberg. Le stesure e le rappresentazioni teatrali de Il padre e de La signorina Giulia, unitamente al romanzo Autodifesa di un folle, sono gli argomenti ricorrenti nelle corrispondenze del 1887-1891.

Stati di angoscia e di pessimismo quasi apocalittico abbondano nelle lettere scritte nel 1892-1894, quando l’autore di Danza di morte divorzia con Siri per legarsi alla giovane Frida Uhl, mentre Lugné Poe firma un trionfale allestimento parigino de Il padre.

Nel titolo del celebre romanzo autobiografico Inferno si sintetizza la sostanza di un’esistenza che non muta rotta nel triennio successivo, durante il quale viene alla luce la trilogia di Verso Damasco, la sua opera teatrale dalla concezione indubbiamente più spudorata.

Completano questo articolato percorso gli anni 1899-1906. Le lettere rivelano un intellettuale attento alla famiglia – scrive molto alle figlie e alla terza moglie, Harriet Bosse, dalle quali traspare l’avvicinamento della morte; emerge inoltre l’immersione nello studio della filosofia e delle religioni in parallelo all’attività al Teatro Intimo per il quale scrive e rappresenta i suoi atti unici.

Queste Lettere, accompagnate dal limpido e esaustivo testo di Perrelli e da adeguato apparato iconografico, diventano prezioso strumento di approfondimento per la conoscenza di una delle figure più inquietanti e geniali della cultura europea.

                                di Massimo Bertoldi

 

 

 

Valentina Cortese
Un’attrice multimediale

a cura di Cristina Formenti

 

 

Sesto San Giovanni (Mi), Mimesis, 2019, pp. 273
 

Fissare in un libro la figura di un’attrice è operazione storiografica molto importante: da un lato concorre alla conservazione della memoria, dall’altro, se l’analisi è condotta secondo criteri scientifici e analitici piuttosto che encomiastici, restituisce anche il quadro materiale del “fare spettacolo” con le sue tensioni artistiche e creative, connesse alla realizzazione di uno spettacolo del quale, noi pubblico accomodato in sala, percepiamo solo la punta di un iceberg.

Significativo in merito è il volume Valentina Cortese. Un’attrice multimediale curato da Cristina Formenti che raccoglie una serie di preziosi contributi dai quali emerge una visione a tutto tondo della celebre attrice milanese (1923-2019), capace di affermarsi sulla scena nazionale e internazionale anche per la sua disinvolta dote di confrontarsi con il teatro e il cinema, la televisione e la radio.

Correttamente definita dalla stessa Formenti nel capitolo introduttivo al libro L’ultima vera diva italiana, la Cortese avvia il percorso verso la leggenda tra gli anni ’40 e ’50, quando da Cinecittà entra nell’empireo hollywoodiano dove si ritaglia – come spiegano i saggi di Raffaele De Berti e ancora Formenti – l’immagine della brava e semplice ragazza italiana dai tratti sensuali, prossimi a diventare sex symbol, emigrata per lavoro ma fortemente nostalgica della madre patria.

Al saggio di Paola Valentini, Je suis comme je suis, dedicato all’impegno nel piccolo e grande schermo, segue l’intrigante ricostruzione della lunga e intensa esperienza teatrale iniziata al Piccolo di Milano per interessamento dei Paolo Grassi, che nel 1959 segnala l’attrice a Strehler per la parte di Nina ne El nost Milan di Bertolazzi, studiata con attenzione e rigore in uno specifico saggio del volume da Alberto Bertoglio. Con il regista nasce un connubio artistico e una relazione sentimentale dagli esiti esplosivi su entrambi i fronti. Sul palcoscenico Cortese rivela le sue straordinarie doti espressive e concorre alla riuscita degli spettacoli storici del maestro, dalla quarta edizione del goldoniano Arlecchino servitore di due padroni (1963) ai pirandelliani Giganti della montagna (1966), da Santa Giovanna dei Macellai di Brecht al Giardino dei ciliegi di Cechov (1974), ultima fatica condivisa con Strehler.

Tuttavia l’esperienza al Piccolo continua e per l’attrice si aprono nuovi percorsi di recitazione, a dimostrazione della sua poliedricità, che la impegnano al fianco di registi prestigiosi come racconta il contributo dettagliata di Mariagabriella Cambiaghi. Risulta protagonista, per esempio, nella scandalosa Lulù di Wedekind per la regia “politica” di Patrice Chéreau. Altro passaggio cruciale è l’incontro con Luchino Visconti che nel 1973 la scrittura per Tanto tempo fa di Harald Pinter, spettacolo in scena al Teatro Argentina di Roma e passato alla storia anche per il duro scontro tra il drammaturgo inglese e il regista italiano, come bene ricostruisce Federica Mazzocchi analizzando gli interventi testuali di Visconti e le dinamiche della messinscena.

Non passa in secondo piano l’impegno della Cortese nel musical e nel melodramma (vedi il saggio di Cambiagi), come è approfondito da Simone Soranna il capitolo relativo alla collaborazione artistica con Franco Zeffirelli, contenuto per il teatro solo a Maria Stuarda di Schiller, più duraturo nel cinema con la realizzazione di Fratello sole, sorella luna, Gesù di Nazareth, Storia di una capinera.

Questo interessante e esaustivo omaggio a Cortese si completa con le testimonianze di Maurizio Porro e di Fabrizio Ferri pubblicate in Appendice.
 

                                   di Massimo Bertoldi

 

Teatro I

di Jan Fabre

 

Spoleto (Pg), Editoria & Spettacolo, 2019, pp. 246

Jan Fabre è un artista visionario e eclettico nelle sue molteplici declinazioni espressivi che lo vedono impegnati come regista teatrale e scenografo, coreografo, pittore, sculture, performer e anche fine drammaturgo al centro di clamorosi successi e di aspre polemiche, come nelle corde di chi cerca di allungare il passo imboccando strade nuove e tortuose.

Nel 1995 Costa & Nolan aveva dato alle stampe il pionieristico Teatro di Fabre, nel 2008 ubulibri aveva pubblicato Corpus Jan Fabre di Luk Van den Dries, un libro fondamentale per conoscere il processo creativo del maestro in modo particolare dell’allestimento di Parrots and Guinea Pigs del 2002. In un’intervista dichiarò: «il mio teatro è in rottura con l’attualità, la moda. Non ha lo scopo di risolvere conflitti sociali e politici. Parla delle verità segrete del corpo», e aggiunge che «la crudeltà e il terrore generano quella libertà che permette di raggiungere l’estasi».

Intorno a queste dichiarazioni si sviluppa la poetica dello scrittore belga, come emerge dai testi raccolti da Editoria & Spettacolo in questo Teatro I che segue Residui e altri testi edito nel 2015. Tradotto e curato da Franco Paris, il volume raccoglie opere scritte tra il 1975 e il ’94.

I dialoghi sono scarni, i pensieri dei personaggi sembrano schegge in fuga da un labirinto mentale. Fabre ricorre spesso al meccanismo drammaturgico della ripetizione che diventa procedimento mentale di ossessioni maniacali intorno alle quali si sviluppa un inscindibile legame tra il corpo, i sensi e la parola, antirealistica e sconnessa dalla dimensione quotidiana, piuttosto proiettata verso il tutto e verso il niente. Il sospiro della morte ò, infatti, un tratto inscindibile negli intrecci narrativi volutamente banali e attraversati da un altro elemento dominante: il principio della sottomissione, crudo e sordo.

Nel monologo lei era ed è anche una prostituta considera i clienti «poveri disgraziati», insignificanti giocattoli capricciosi da governare a piacere. Ne La reincarnazione di Dio domina il sesso violento con momenti sadomaso imposto da una ragazza, educata dalla sorella, su un specie di fantoccio umano. Una tragedia familiare è un inquietante girotondo mortale animato da due fratelli che uccidono la sorella, il padre, violentano la madre, con dolcezza, e le tolgono la vita. Come in un rito laico, la scena si ripete sempre uguale. Gelosie e fobie si traducono, ne Le falene, in dialoghi taglienti e in rapporti incestuosi all’interno di una famiglia. I personaggi sono anime dissolute alla ricerca della purezza nella morte del corpo.

Tra gli altri testi di questa bella antologia c’è il celebre monologo Io sono un errore che si traduce in un martellante e nervoso elenco di motivazioni del titolo, teso anche a mettere in luce aspetti sensoriali e corporei. Il testo inizia così: «Io sono un errore / perché non appartengo a una razza» e termina in questo modo: «Sono fedele / al piacere / che cerca di uccidermi».

                                    di Massimo Bertoldi

 

Il formaggio e i vermi.
Il cosmo di un mugnaio del '500

di Carlo Ginzburg

 

Milano, Adelphi, 2019, pp. 231
 

L'occasione è stata data dalla nuova elegante edizione del famoso Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500 del 1976, che Adelphi ha mandato pochi mesi fa in libreria con una postfazione dello stesso autore, a distanza di 43 anni dalla prima apparizione del saggio con Einaudi. Carlo Ginzburg è cosi stato festeggiato alla grande, il 6 febbraio 2020, nella sede della fondazione Bruno Kessler – Istituto storico italo-germanico di Trento, insolitamente affollata e presidiata dallo staff dell'Isig col suo presidente in testa, il prof. Korneließen, e G. Rospocher a coordinare l'incontro.

Il libro di Menocchio, che fu subito un colpo di fulmine nei lontani anni Settanta, per quanti in Italia da insegnanti, studiosi, ricercatori cercavano un nuovo approccio alla storia e al suo insegnamento, ha nel frattempo conosciuto quasi 30 traduzioni e ristampe in vari paesi e continenti e il suo autore, l'ottantenne Carlo, figlio di Natalia e di Leone, è diventato uno storico di fama mondiale, docente in varie università, e per venti anni in California. Ora vive a Bologna, è cordiale e facondo di ricordi e di aneddoti e si è generosamente prestato alla celebrazione che di lui stesso, in forma di conversazione, gli addetti ai lavori hanno voluto fare.

Diverse tappe della genesi di Menocchio sono state ripercorse: gli archivi di Modena e quelli di Udine, dove nei primi anni sessanta il giovane Ginzburg riuscì a metter mano, i brividi della scoperta che indussero in lui, normalista a Pisa, la vocazione a fare della storia il mestiere della vita, gli anni di apprendistato col grande Delio Cantimori a Firenze. Proprio da lì, dalla torsione verso la microstoria di uno stesso oggetto di indagine (le eresie del Cinquecento) è partita la svolta del nuovo metodo di indagine, appunto la microstoria, che non è “storia piccola”, semmai storia di piccoli, ma forse più influente sulla vita di quella dei grandi... L'opera in questione ricostruisce la vicenda del mugnaio friulano Domenico Scandella, detto anche Menocchio, che nel 1599 fu messo a morte dall'Inquisizione. Ginzburg, attraverso i documenti scandagliati nella diocesi di Udine e fino ad allora rimasti inaccessibili, ha ricostruito le vicende processuali e il personale sistema di pensiero del mugnaio condannato al rogo per eresia. Un caso esemplare di tanti altri processi in cui donne e uomini accusati di stregoneria, eretici o presunti tali, furono condannati al rogo dall'Inquisizione.

La scoperta affascinante di Ginzburg, che aveva letto Gramsci, Bloch, Cantimori, De Martino sta tutta nella riconsiderazione del cosmo mentale delle “classi subalterne”: attraverso la storia della mentalità e della cultura popolare, lo storico può dare voce a chi voce non aveva avuto. E allo stesso tempo mettere in luce la circolarità, la combinazione e la intersecazione tra il filtro culturale “alto” delle classi dominanti e quello “basso” delle classi subalterne; e mostrare anche la forza sovversiva, la sfida all'autorità e alle gerarchie costituite che viene dalla cultura popolare. In questo libro Ginzburg arriva a superare (storiograficamente) la dicotomia tra cultura dotta e cultura popolare e riesce ad afferrare elementi di quest'ultima attraverso i processi dell'Inquisizione. Egli scrive oggi, nella postfazione del 2019: “I perseguitati e i vinti, che la storiografia liquidava come marginali ma più spesso ignorava del tutto, venivano messi al centro della ricerca: una scelta che traeva nuova forza, e nuove giustificazioni, dal clima di radicalismo politico degli anni '70. Io mi ero messo a studiare un mugnaio che aveva un nome, che aveva idee strane, che aveva fatto certe letture...”. Non più quindi una massa anonima, ma un soggetto reale, portatore di una precisa visione del mondo; quasi una anomalia, anche rispetto ad un tema (la stregoneria) già decisamente anomalo rispetto alle consuetudini storiografiche allora prevalenti.
 

                                  di Carlo Bertorelle

 

Le ragazze di Barbiana

di Sandra Passerotti

 

Firenze, Edizioni Libreria Editrice Fiorentina, 2019, p. 160

Abbiamo conosciuto Sandra Passerotti a giugno 2018, a Barbiana, in visita alla scuola di don Milani. Aveva appena scritto e pubblicato Non bestemmiare il tempo: l’ultimo insegnamento di don Milani. Poi subito divenuto un piccolo caso editoriale, già tradotto in francese e distribuito oltralpe. L'eco s’è smorzata appena, che già viene pubblicato il suo secondo libro Le ragazze di Barbiana.

Racconta le protagoniste femminili dell’insegnamento del Priore, colmando un vuoto letterario e storiografico, contribuendo a completare l'analisi e la narrazione della rivoluzione culturale-didattica-pedagogica avviata da don Lorenzo Milani in quella sperduta parrocchia dell'alto Mugello Toscano, ove grande era la considerazione per l’educazione delle bambine, contrariamente alla mentalità dominante all’epoca secondo la quale far studiare le femmine soprattutto le figlie di contadini era considerato poco meno che inutile. Non solo il Priore aprì alla componente femminile nella parrocchia e nella scuola ma organizzò un viaggio in Inghilterra per due ragazze, incredibile per l’epoca, la Carla Carotti e un’altra adolescente. Fu un fatto rivoluzionario. Come sovversiva era la sua idea di dare alle femmine istruzione e capacità artigianali per sottrarle al destino di doversi sposare e farsi mantenere.

"Voglio educarle in tutti i modi per farne delle figliole intelligenti, furbe, sveglie, capaci di difendersi, di guadagnarsi il pane, di mandare avanti la famiglia eccetera...”. Sono le inedite righe autografe sulla vicenda di Eugenia Pravettoni, oggi anziana signora che vive a Calenzano, allora una giovane operaia tessile di Rho, nel milanese, dove aveva conosciuto Maresco Ballini già allievo di don Lorenzo a Calenzano, poi entrato nella Cisl e arrivato a Milano come sindacalista del tessile. Era il 1959 quando chiesero a don Milani di potersi sposare a Barbiana. Il priore desiderò che Eugenia tornasse anche in agosto durante le ferie, per tenere un corso di taglio e cucito alle bambine. Il 23 luglio don Lorenzo le scrive per le cose organizzative dei corsi, soffermandosi anche sul senso dell'iniziativa. “Tu sai che il mio scopo principale è di fare la scuola per le bambine piccole e queste sono 6 o 7. Io penso soprattutto a loro perché l’anno prossimo avranno l’Avviamento come ho fatto coi ragazzi…”.

Il libro di Sandra Passerotti raccoglie questa, e alcune altre testimonianze di donne che, negli anni ’50 e ’60, hanno avuto don Milani come maestro, sia a Calenzano, dove da giovane viceparroco aprì la prima scuola popolare, che a Barbiana. Non è mai stato rimarcato abbastanza quanto don Milani avesse a cuore l’educazione dell’universo femminile: “domenica l’Eugenia ha cominciato la scuola di taglio con undici allieve tra grandi e piccine, compresa l’Eda che con mia grande soddisfazione è finalmente seduta al tavolo col lapis in mano” (Lettere alla madre 1943-1967). Le testimonianze hanno il pregio di mostrare un punto di vista al femminile, di rivedere Barbiana con occhi di donna. Così compare quel mondo di contadine e montanare che non accedevano alla scuola (mentre ai fratelli era possibile) in un’epoca in cui era netta la separatezza tra ambiente maschile e femminile nelle scuole come nella parrocchie, nelle Associazioni come nelle Istituzioni. Tra il periodo di Calenzano e quello successivo di Barbiana, tra le donne e le bambine figurava la Pravettoni Ballini incaricata da don Milani a coordinare la scuola di sartoria.

A gennaio 2018 l’autrice ritorna a Barbiana per il funerale di Michele Gesualdi (tra i primi allievi della scuola) e riconosce Fiorella Tagliaferri. Successivamente s’incontreranno e da quei dialoghi scaturirà l’idea del libro che è strutturato in nove capitoli, ricompresi nei due importanti periodi di insegnamento di don Milani: 1947-54 a Calenzano, 1955-67 a Barbiana. Negli ultimi capitoli l’indagine dell’autrice si estende al contesto italiano dell’epoca comparando l’esperienza di Barbiana con scuole elementari di diverse regioni italiane nel periodo dagli anni ’50 alla Riforma della Scuola Media del 1962.

                 

                   di Gianni Penazzi e Saturno Foschini

 

Teatro

di Josep Maria Mirò
traduzione Angelo Savelli

 

Imola (Bo), Cue Press, 2019, pp. 185

 

Dice Jordi: «…ho paura», risponde Anna «…siamo tutti spaventati» (p. 41). Queste battute poste a chiusura de Il principio di Archimede (2012) costituiscono il sottile filo conduttore che attraversa il Teatro del catalano Josep Maria Mirò raccolto in questo prezioso e importante volume di Cue Press.

I due personaggi, rispettivamente un giovane estroverso istruttore di nuoto e la severa direttrice, affiancati dal riservato e composto Hector, agiscono nello spogliatoio degli istruttori di nuoto di una piscina che all’improvviso si trova al centro di uno scandalo per colpa di un innocente bacio dato da Jordi a un bambino spaventato dall’acqua. La diffusione della notizia attraverso i social network si trasforma in accusa di pedofilia da parte dei genitori degli allievi, di cui è portavoce David, fino a diventare psicosi collettiva. Il testo de Il principio di Archimede assorbe l’elemento tragico e lo diluisce in una griglia di dialoghi di natura psicologica che bene disegnano la precarietà delle dinamiche interpersonali e sociali quando chiamate a confrontarsi con un fatto destabilizzante. Realtà e falsità si confondono e liberano la paura dell’irrazionale. È questo il male oscuro, secondo Mirò, dell’uomo moderno.

Il gioco capriccioso e inquietante dei timori mina il perbenismo e il conformismo della giovane coppia protagonista di Nerium Park: il loro lussuoso appartamento appena acquistato in un quartiere residenziale di nuova costruzione si trasforma in una cella delle torture fino al tragico epilogo. Mirò costruisce un testo oscillante tra commedia familiare e thriller contaminata da elementi vagamente kafkiani per radiografare gli effetti della crisi economica che mette in difficoltà i progetti di Bruno e Anna sempre più tormentata dal sentirsi spiati dai vicini, minacciata dalla presenza di uno strano individuo accampato abusivamente nel caseggiato che incuriosisce l’uomo al punto da diventarne amico mentre ciò aumenta il panico nella donna. Il fattore ansiogeno destabilizza le labili certezze dell’inconscio.

Il principio di Archimede e Nerium Park sono stati tradotti da Angelo Savelli e presentati con successo in prima nazionale al Teatro Rifredi di Firenze. Rimangono invece inediti per le platee italiane Dimentichiamo di essere turisti e Tempi selvaggi, commedie composte da Mirò nel 2017. Sono, questi, testi molto interessati e di pregevole spessore letterario perché articolano l’analisi del disagio/turbamento come vissuto dai personaggi in un certo ambiente. Può essere familiare come la zona residenziale composta da quattro appartamenti con prato e piscina in cui abitano le quattro coppie di Tempi selvaggi; oppure diventano i luoghi argentini incontrati dagli spagnoli Carme e Martì durante un loro viaggio che da evasivo si trasforma in ricerca di identità e di memoria come raccontato nel sorprendente Dimentichiamo di essere turisti.

In merito ai contenuti affrontati dal drammaturgo, il direttore artistico del Teatre Nacional de Catalunya Xavier Alberti sottolinea l’efficacia con cui trasferisce nel linguaggio teatrale «il malessere di persone, di personaggi, di verità da rappresentare, di emozioni che cercano un nuovo contesto ideologico, dei sopravvissuti che forse saremo, per tornare a convocare la tribù in assemblea e stipulare nuovi patti di convivenza, in cui il malessere occupi il posto che gli spetta in questa società instabile, in movimento, e che ogni tanto espelle quello che non è più capace di digerire» (p. 7).

 

                             di Massimo Bertoldi

 

Occupato “ex Monopolio” in via Dante-Str. 6 besetzt
40 anni dopo - 40 Jahre danach

a cura di Dominikus Andergassen, Paolo Crazy Carnevale, Martin Hanni

Bolzano, Edizioni alphabeta Verlag, 2019, pp. 171.

Il Monopolio. Una parola che a Bolzano ha assunto, dal 1979, un significato nuovo e un po’ diverso dall’accezione di mercato. O forse no: la vicenda dimostra che il monopolio esisteva. Di cultura (ufficiale), di opinioni. Chi solo marginalmente ha vissuto quegli avvenimenti, è stato comunque influenzato dall’atmosfera di fermento, dove cose strane e nuove parevano condensarsi e poter accadere. Il libro ha tre curatori, ovviamente trasversali alle lingue del Sudtirolo, e ripropone il volume-dossier presentato da alcuni protagonisti un anno dopo gli eventi, con disegni, volantini, articoli di giornale, frammenti diaristici, che costituiscono un documento fondamentale di quei giorni. La nuova edizione è arricchita da testimonianze attuali di persone che hanno partecipato a quell’esperimento o ne sono state influenzate: brevi pezzi, ciascuno con una parte di verità, con un suo stile.

Tutto si è svolto nell’arco di 30 giorni, dal 6 ottobre al 5 novembre 1979, in via Dante, a Bolzano. Lì, esattamente sull’area dell’attuale Museion, sorgeva, dalla fine dell’Ottocento, un magazzino di frutta, detto “Tschugguel-Haus”, in seguito acquisito dai Monopoli di Stato, un’azienda autonoma, collegata al ministero dell’economia, che si occupava del monopolio della produzione, importazione e vendita di sali e tabacchi. Ecco spiegato il nome. Il complesso degli edifici consisteva in un ampio magazzino e costruzioni di servizio che lo univano ad una palazzina residenziale, con loggia e balconi. Davanti a questo complesso, cedri enormi ombreggiavano quello che dopo la chiusura da parte dell’azienda statale era diventato un verde incolto.

Ben 24 associazioni culturali che si potrebbero definire progressiste lo avevano adocchiato, per fare teatro, cultura, incontri, unendosi nelle richieste, ma il comune di Bolzano, che aveva in affitto l’immobile abbandonato, non lo concedeva. In città allora mancavano spazi per questi fini, salvo alcuni edifici riservati tuttavia alla cultura ufficiale. Così il 6 ottobre, nel tardo pomeriggio, un folto gruppo di attivisti occupò quei luoghi, dandosi subito da fare per renderli nuovamente funzionali a una vita: culturale, di incontro e di progettazione, ma anche per mangiare, dormire, fare prove teatrali. La grande novità per Bolzano e per tutto l’Alto Adige o Südtirol era vedere italiani, tedeschi, ladini, giovani, adulti, anziani, studenti, impiegati, artisti, barboni (i precedenti occupanti) operare e progettare insieme, nei loro valori umani e non come esponenti di un gruppo “etnico” o con altre etichette.

Tutto questo esperimento si sviluppò con forza e successo e durò finché all’alba del 5 novembre la sveglia fu data dalle forze dell’ordine che provvidero a sgomberare gli edifici e immediatamente dopo, a demolirli per evitare ulteriori azioni. Fine – violenta – della storia e inizio del mito del Monopolio. Che con questa nuova edizione mantiene la memoria e testimonia anche oggi, dove ci sono le “sardine” che occupano le piazze, che si può e si deve proporre una diversa visione delle cose rispetto a quella generale, dominante. Andare controcorrente è un’azione rivoluzionaria e fortemente culturale e l’esperienza del Monopolio, breve, ma davvero intensa, proprio perché soffocata tra le polveri delle macerie materiali rimane in modo più nitido e puro a fare da esempio, a mostrare alle persone la strada anche oggi, perché i temi sono in fondo ancora gli stessi.

 

                                 di Maurizio Pacchiani

 

Occupato “ex Monopolio” in via Dante-Str. 6 besetzt
40 anni dopo - 40 Jahre danach

a cura di Dominikus Andergassen, Paolo Crazy Carnevale, Martin Hanni

Bolzano, Edizioni alphabeta Verlag, 2019, pp. 171.

Il Monopolio. Una parola che a Bolzano ha assunto, dal 1979, un significato nuovo e un po’ diverso dall’accezione di mercato. O forse no: la vicenda dimostra che il monopolio esisteva. Di cultura (ufficiale), di opinioni. Chi solo marginalmente ha vissuto quegli avvenimenti, è stato comunque influenzato dall’atmosfera di fermento, dove cose strane e nuove parevano condensarsi e poter accadere. Il libro ha tre curatori, ovviamente trasversali alle lingue del Sudtirolo, e ripropone il volume-dossier presentato da alcuni protagonisti un anno dopo gli eventi, con disegni, volantini, articoli di giornale, frammenti diaristici, che costituiscono un documento fondamentale di quei giorni. La nuova edizione è arricchita da testimonianze attuali di persone che hanno partecipato a quell’esperimento o ne sono state influenzate: brevi pezzi, ciascuno con una parte di verità, con un suo stile.

Tutto si è svolto nell’arco di 30 giorni, dal 6 ottobre al 5 novembre 1979, in via Dante, a Bolzano. Lì, esattamente sull’area dell’attuale Museion, sorgeva, dalla fine dell’Ottocento, un magazzino di frutta, detto “Tschugguel-Haus”, in seguito acquisito dai Monopoli di Stato, un’azienda autonoma, collegata al ministero dell’economia, che si occupava del monopolio della produzione, importazione e vendita di sali e tabacchi. Ecco spiegato il nome. Il complesso degli edifici consisteva in un ampio magazzino e costruzioni di servizio che lo univano ad una palazzina residenziale, con loggia e balconi. Davanti a questo complesso, cedri enormi ombreggiavano quello che dopo la chiusura da parte dell’azienda statale era diventato un verde incolto.

Ben 24 associazioni culturali che si potrebbero definire progressiste lo avevano adocchiato, per fare teatro, cultura, incontri, unendosi nelle richieste, ma il comune di Bolzano, che aveva in affitto l’immobile abbandonato, non lo concedeva. In città allora mancavano spazi per questi fini, salvo alcuni edifici riservati tuttavia alla cultura ufficiale. Così il 6 ottobre, nel tardo pomeriggio, un folto gruppo di attivisti occupò quei luoghi, dandosi subito da fare per renderli nuovamente funzionali a una vita: culturale, di incontro e di progettazione, ma anche per mangiare, dormire, fare prove teatrali. La grande novità per Bolzano e per tutto l’Alto Adige o Südtirol era vedere italiani, tedeschi, ladini, giovani, adulti, anziani, studenti, impiegati, artisti, barboni (i precedenti occupanti) operare e progettare insieme, nei loro valori umani e non come esponenti di un gruppo “etnico” o con altre etichette.

Tutto questo esperimento si sviluppò con forza e successo e durò finché all’alba del 5 novembre la sveglia fu data dalle forze dell’ordine che provvidero a sgomberare gli edifici e immediatamente dopo, a demolirli per evitare ulteriori azioni. Fine – violenta – della storia e inizio del mito del Monopolio. Che con questa nuova edizione mantiene la memoria e testimonia anche oggi, dove ci sono le “sardine” che occupano le piazze, che si può e si deve proporre una diversa visione delle cose rispetto a quella generale, dominante. Andare controcorrente è un’azione rivoluzionaria e fortemente culturale e l’esperienza del Monopolio, breve, ma davvero intensa, proprio perché soffocata tra le polveri delle macerie materiali rimane in modo più nitido e puro a fare da esempio, a mostrare alle persone la strada anche oggi, perché i temi sono in fondo ancora gli stessi.

 

                                     di Maurizio Pacchiani

 

Realismo globale

di Milo Rau

 

traduzione e cura di Silvia Gussoni e Francesco Alberici
contributi di Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Rolf Bossart

Imola, Cue Press, 2019, pp. 107.

 

Milo Rau, scrittore e regista svizzero di origine rumene formatosi con il sociologo Pierre Bourdieu e il filosofo Tzvetan Todorv, è un artista di punta della scena internazionale. In questi anni con il suo International Institute of Political Murder (fondato nel 2007) ha realizzato una serie di allestimenti di marcata valenza politica che si basano su uno scrupoloso lavoro di documentazione storica per denunciare il lato oscuro e la criminalità del potere. Tra i progetti più significativi spiccano The Last Days of the CeauÅŸescus (2009) dedicato al processo farsa che ha decretato la condanna a morte del dittatore rumeno e della moglie; Hate Radio (2011-2012) in cui si denunciano i massacri del Ruanda; la strage di Utoya rivisitata attraverso la folle difesa dell’assassino come emerge in Breivik’s Statement (2012); i processi contro l’avanguardia artistica imposti dal Putin e trattati in The Moscov Trial (2013).

L’impianto teorico di questo teatro di impegno civile emerge con chiarezza dal copioso materiale raccolto nel volume Realismo globale. Si tratta di interviste, discorsi, brevi saggi e manifesti che ruotano intorno alla poetica di Rau contenuta nel titolo del libro in questione: «“Realismo globale”: ovvero la descrizione dello “spazio del capitalismo mondiale”, con i suoi incubi e le sue speranze, i suoi risvolti e le sue pieghe nascoste» (p. 29).

Il teatro dialoga con il mondo globalizzato, assorbe le sue contraddizioni, denuncia le violenze e le conflittualità, soprattutto quelle trascurate dall’informazione. Ma non si ferma qui. Dalle fonti storiche contemporanee su cui fa leva, sprigiona emozione forti e estreme che alimentano una continua tensione dialettica tra la sfera del reale e l’immaginario. «Credo che l’artista realista – sostiene Rau – crei dei momenti di vita utopici, che tenti di vedere il futuro. A volte ne esce fuori qualcosa, altre volte nulla» (p. 31). Il pensiero e l’azione teatrale del regista seguono i percorsi, aggiornandoli, già tracciati da quei maestri di regia del Novecento che concepivano il teatro come strumento per cambiare il mondo in quanto contenitore magnetico dell’utopia.

Il Manifesto di Gent – programma della stagione 2018-2019 di NT Gent Stadttheater di cui Rau è attuale direttore artistico – costituisce la sintesi del percorso creativo di questo importante regista, salito alla ribalta in Italia per la presentazione di Orestes in Mosul al Romaeuropa Festival, che cita spessa Pasolini e Fassbinder, che ama il rock aggressivo degli anni Novanta (Nirvana e Sonic Youth). Tra i dieci punti (che si leggono nella sezione Testi e discorsi del libro edito da Cue Press), colpisce quello esposto al punto nove: «Almeno una produzione per stagione deve essere provata o replicata in una zona di crisi o di guerra, senza infrastrutture culturali» (p. 105).

La dichiarazione non è un capriccio teorico. Contiene in sé esperienze realmente vissute da Rau a contatto con i disperati del mondo, coinvolti in progetti teatrali come attori di questo intelligente e profondo ma anche drammatico Realismo globale.

 

                                   di Massimo Bertoldi

 

La danza delle vergini e delle vedove

di Luca Cristiano
 

Milano, Prospero Editore, 2018, pp. 264

 

Luca Cristiano - ricercatore universitario, autore di saggi, rispettivamente sull'opera letteraria di Antonio Moresco e autore-curatore di un libro di interpretazioni del capolavoro di Stephen King It e di un libro di poesie, Brucia la cenere (Prospero, 2017) - ora dà alle stampe questi racconti tra loro solo apparentemente diseguali, in realtà profondamente uniti a livello tematico e anche stilisticamente coesi. Sul coté stilistico prevalgono l'iterazione parossistica e la tangenzialità; al posto di un ductus narrativo dominato da un “fil rouge” coerente, prevale invece l'inserzione di narrazioni tangenti a quella principale, il che non toglie il successivo raccordo alla corrente narrativa principale.

Tematicamente, invece, alcuni temi-nuclei di significato sono ben definiti: l’erotismo declinato sia nella dimensione propriamente amorosa, sia in quella più decisamente sessuale, che qui viene esaltata e al tempo stesso denigrata in una sorta di contemptus sui, di autodisprezzo, in cui la contraddizione è presente senza essere “assurda” essendo riscontrabile in molti altri autori; l’acuto senso-presenza della morte, dove l’autodistruzione diviene marcusianamente volontà di tornare nel grembo materno come anche una sorta di autopunizione che non esclude la volontà di isolarsi dal consesso umano; la forte presenza del Sacro, che è visibile anche quando è assente o negato.

Molto legato, da autore culturalmente vicino alla “sinistra antidogmatica” (l’autore è meno che quarantenne, per cui sarebbe antistorico parlare di “sinistra extraparlamentare”, concetto riferibile ad altri tempi), al pensiero di Gilles Deleuze e Felix Guattari, in cui le “macchine desideranti” sembrano essere preponderanti rispetto alla soggettività anzi individualità dei rapporti umani intesi come “scelta”, alla tradizione letteraria fantastica che, in epoca moderna, va, con mille “deviazioni” e slittamenti anche semantici, da Franz Kafka a Stephen King (autori esplicitamente citati in vari racconti, tra l'altro), in Cristiano (nomen omen, mi si consenta...) come in molti autori ancora giovani della sinistra anche “libertaria”, è ancora fortissima la presenza dell’educazione cattolica, certo poi negata ma ancora fortemente presente a livello di traccia mnestica, ossia di ricordo non rimosso. Eppure il più interessante dei racconti di questa raccolta è certamente anche il più kafkiano -enigmatico, il più aperto polisemicamente a diverse letture, Rimettere il mandato, in cui si immagina un lungo dialogo (è il racconto in assoluto più lungo della raccolta) tra un cadetto e un superiore. L’ambientazione militare è quasi un pre-testo, da leggere anche metaforicamente, ossia da aprire, eventualmente, verso altre “realtà”. Il rapporto amoroso/non amoroso (in cui domina senz'altro la “logique du sens” deleuziana, per cui l’apparente nonsense implica invece la forte dazione-immissione di senso) tra i due protagonisti stacca il racconto dagli altri, che presentano motivi d'interesse indubbi, ma certamente minori rispetto a questo racconto-chiave (è un peccato che non sia tipograficamente o anche altrimenti evidenziato in forma più marcata).

Ora, lungi da chi scrive dare consigli (da pedagogista-clinico e reflector e ricercatore in quest'ambito sarei anche statutariamente obbligato a non darne...) ma forse la linea da seguire in futuro sarebbe decisamente questa, nella quale il non-detto è assolutamente forte e trainante per la produzione di senso, ma appunto nella direzione cui si accennava sopra.

 

                                             di Eugen Galasso

 

Il Novecento del teatro. Una storia

di Lorenzo Mango

 

Roma, Carrocci Editore, 2019, pp. 369

 

La fotografia del teatro del Novecento potrebbe essere questa: un grande arcipelago formato da isole di diversa grandezza tra loro collegate da ponti ora lunghi ora corti, ora stretti ora larghi. Di fatto quello che manca, a differenze delle esperienza del secoli anteriori, è l’unità di un sistema drammaturgico e attorale. Dominano, di contro, il frammento e l’eterogeneità delle visioni materializzate in progetti concreti oppure rimaste poetiche utopiche. Eppure si riconoscono fili che si annodano, che tessono trame culturali e definiscono percorsi trasversali.

Da questo assunto Lorenzo Mango, nella ricostruzione meticolosa e articolata del volume Il Novecento del teatro. Una storia, intende «tracciare la complessità, con le differenze e gli intrecci che ne definiscono un’identità articolata che si fonda sulla premessa, speriamo dimostrata, della centralità dei nuovi modi di fare, ma ancor prima di pensare il teatro». L’allineamento dei materiali procede secondo il metodo dell’accorpamento tematico – drammaturgia, regia, attore, Nuovo Teatro – affrontato in modo cronologico. Inoltre, allo sviluppo delle fasi storiche corrisponde, per meglio connotare il principio identitario e per circoscrivere il campo di ricerca – la collocazione geografica delle esperienze che imprime all’Europa una posizione centrale non trascurando i fenomeni di migrazioni culturali da e verso gli Stati Uniti d’America.

Alla domanda canonica circa la nascita del teatro novecentesco, Mango considera il celebre debutto di Ubu re di Alfred Jarry del 1896 un episodio simbolico mentre ritrova, da un lato, la spinta propulsiva nel ripensamento della scrittura teatrale provocata dalla crisi del dramma borghese secondo le soluzioni letterarie assunte da Strindberg, Cechov, Ibsen, e dall’altro lato, la nascita della regia moderna (Appia, Craig, Stanislavskj, Reinhardt, Copeau, Mejerchol’d), a sua volta contestualizzata negli stati di appartenenza dei corrispettivi maestri. Analogo criterio è assunto per inquadrare le variegate poetiche di rottura e di innovazione dei linguaggi teatrali con cui le avanguardie storiche infiammano la scena di inizio secolo e che con ricadute diverse incidono, per adesione o per rifiuto, nella drammaturgia, per esempio, di Pirandello, Brecht, Hofmannsthal, Schnitzler, ai quali Mango dedica pagine di esemplare chiarezza pari a quelle in cui affronta la coeva riforma dell’attore chiamato a confrontarsi con nuovi metodi di recitazione.

La Seconda guerra mondiale diventa uno spartiacque storico, perché «la seconda parte del Novecento, scrive Mango, può essere letta come un ricominciare: ripartire daccapo per un verso, per un altro verso ritessere le fila con i decenni esplosivi di inizio secolo» attraverso il rilancio della regia e la visione di un linguaggio teatrale esplorativo, di malessere e di denuncia (Genet, Beckett, Osborne). È questa, grosso modo, la strada che conduce al cosiddetto Nuovo Teatro degli anni Sessanta, attraversato dalla volontà di «interrogarsi sull’identità del linguaggio teatrale» svincolato dalle forme del teatro canonico e ufficiale (Living Theatre, Grotowski, Carmelo Bene, Odin Teatret, ecc.).

Quando finisce il Novecento? Nel corso del secolo si sono rifondati i codici linguistici e la sintassi della scena, si sono dilatati i confini dell’attore e dello spazio scenico oltre il tradizionale palcoscenico. Oggi – osserva acutamente Mango – quel corpo linguistico «è diventato una lingua che il teatro della “fine del Novecento” può parlare nelle maniere più diverse, peculiari e “nuove”». Gli esempi offerti tra i tanti – Rovert Wilson, Federico Tiezzi, Toni Servillo, Mario Martone, Robert Lepage, Eimuntas Nekrošius – concludono questo libro coinvolgente e appassionante come un romanzo in cui il repertorio delle informazioni – accompagnato da ricca e aggiornata bibliografia – sviluppa una rete di riflessioni importanti sotto il profilo storiografico.

                                            

                                           di Massimo Bertoldi

 

L’esperienza del tempo.
Uno sguardo multidisciplinare

di Fabio Ricardi

 

Milano, Mimesis Edizioni, 2018, pp. 102.

 

L’esperienza del tempo. Uno sguardo multidisciplinare, il breve ma denso lavoro di Fabio Ricardi, filosofo e psicoterapeuta analitico transazionale, nasce dalla convinzione dell’autore che “la rielaborazione del passato ha come senso finale la capacità di vivere il presente” (p. 82), anche se a volte l’essere umano si trova a vagheggiare la possibilità di un tempo infinito o di un tempo che possa ritornare e ripetersi. Perché – come argomenta Ricardi in chiusura del suo lavoro – “l’esperienza umana del tempo si costruisce in questo viaggio, vissuto in entrambe le direzioni, tra ripetizione di ciò che è stato e l’avventura del nuovo” (p. 99).

L’indagine sul momento presente, è stata nel tempo oggetto sia della ricerca psicologica sia della speculazione filosofica. Perché il tempo, che forma ed informa la nostra realtà quotidiana, è un costrutto universale che, con declinazioni diverse, traduce in modalità differenti il modo di concepire noi stessi, il nostro vivere, il nostro stesso “essere nel mondo”.

Partendo dalla letteratura, attraverso una panoramica dei personaggi descritti da Kierkegaard, Proust e Thomas Mann, Ricardi affronta il tema di come l’uomo viva il tempo e come esso venga declinato nelle pagine di questi autori in termini di ricordo, nostalgia, senso del “non ritorno”, o ritorno allucinatorio; o anche attraverso la scoperta fatta dal personaggio di Kierkegaard che arriva a comprendere che il valore del tempo sta solo nel presente, in “quell’adesso” “vissuto come attimo senza durata” (p. 18).

Passando dalla letteratura alla filosofia, l’autore ripropone con rigore le dissertazioni di S. Agostino sulla realtà del tempo, tempo che trova la sua pensabilità, il suo esistere solo nel “qui e ora”, cioè in quel Dio che è il “punto” senza dimensione in cui confluiscono un passato non più esistente in quanto “passato” e un futuro non ancora “realtà” ma solo pensabile. Le considerazioni di Henri Bergson espresse in Essai sur les données immediates de la conscience (1888) ci inducono d’altro canto a riflettere sulla distinzione tra il concetto astratto di tempo e l’esperienza del tempo che è invece “durata”. Il riferimento alla letteratura e alla filosofia serve all’autore come aggancio per approfondire come l’analisi dell’animo umano anche per la psicologia – e, conseguentemente nella pratica terapeutica – si trovi a fare immancabilmente a fare i conti con la dimensione temporale della vita.

Ricardi parte dall’ esaminare la prospettiva di Freud aperta con L’interpretazione dei sogni (1899) con le teorie della coazione a ripetere e del transfert come ripetizione di un passato rimosso. “L’analisi freudiana – ricorda l’autore – è tutta un lavoro sul tempo: parte dal momento in cui il paziente decide di inserire una parentesi nel fluire del tempo attuale, per dedicarsi al ricordo, al recupero del passato”, passato che si riattualizza nel presente del transfert, con una modalità analogica. Nell’analisi freudiana “il dialogo tra passato e presente è […] continuo” (p. 52) ed è volto a superare le resistenze inconsce del paziente per permettergli di recuperare le tracce delle vicende passate, ciò che è stato rimosso, trovandovi il significato dei vissuti attuali. Ma è relativamente al “come” la tematica temporale viene interpretata e “utilizzata” nella pratica terapeutica dell’Analisi Transazionale che si sofferma più diffusamente l’autore, sia per ritornare a quel passato che ha visto l’insorgere della sofferenza portata dal paziente nel tempo presente della terapia, sia per costruire con lui una nuova visione prospettica che, partendo da questo passato, si apra ad una dimensione progettuale verso un cambiamento futuro.

Ricardi apre la panoramica sulla nascita e l’evoluzione dell’AT esaminando in primo luogo la teoria del fondatore, Eric Berne, soprattutto per quanto riguarda sia la necessità imprescindibile dell’essere umano di “strutturare” il tempo per non cadere in un vuoto esistenziale terrifico, sia per utilizzare terapeuticamente l’alternanza passato/presente. Questa alternanza consente infatti di attualizzare il passato e rivivere analogicamente gli eventi traumatici che hanno causato il trauma.

Già Franz Perls aveva sostenuto la necessità di rivivere nel “qui e ora” della stanza di terapia l’esperienza antica per trovare, nella riedizione guidata dal terapeuta, un esito nuovo (solo nel presente avviene infatti il cambiamento). Berne riprende questo concetto, ma, per ottenere il superamento della sintomatologia disfunzionale, insiste soprattutto sull’utilizzo di alcune tecniche di colloquio che permettono al terapeuta di contattare la parte “sana” del paziente e instaurare con lui un dialogo tra la propria parte Adulta e la parte Adulta del soggetto stesso. Attraverso l’utilizzo di tali tecniche e passando attraverso tutte le possibili esperienze della terapia il paziente avrà allora la possibilità di cambiare il proprio Copione, l’impostazione data dal soggetto alla sua vita nel corso del tempo.

Proprio perché costruito nei primi anni di vita il Copione è però in un certo qual modo rassicurante, e perciò difficile da modificare, in quanto corrisponde a quegli schemi emotivi/cognitivi per lo più inconsci, che si sono formati nelle relazioni primarie e che “filtrano” l’esperienza del soggetto. Sarà solo attraverso l’attento lavoro di analisi e grazie ad una alleanza terapeutica “forte” che il paziente potrà riconoscere l’esistenza di aspetti disfunzionali nel suo Copione e trasformarli.

Questo cambiamento che, partendo dal passato, si apre al futuro restituisce al tempo una dimensionalità lineare e consente al paziente di uscire dalla ripetitività del sintomo. Nella stanza di terapia i racconti del paziente diventano “storia”, storia vissuta e soprattutto “trascorsa”. Attraverso un nuovo modo di guardare all’insorgenza dei comportamenti e dei vissuti disfunzionali con la loro ripetitività, con l’aiuto del terapeuta, il paziente può attuare il cambiamento; e il tempo a venire si riveste di una nuova progettualità, a volte minimale, a volte risolutiva.

L’analisi di Ricardi sul concetto di tempo, soprattutto in relazione al recupero del passato in terapia, si chiude con un riferimento al lavoro innovativo di Richard. Erskine che ha riformulato i concetti di Berne, sviluppando quella che viene definita “AT integrata”, in quanto postula, per uno sviluppo sano del soggetto, che questi sia stato in grado di integrare i diversi aspetti della propria personalità.

Ricardi, filosofo “convertito” alla psicoterapia, porta nella sua pluriennale pratica clinica tutto un bagaglio di “sapere” filosofico e quella naturale inclinazione alla speculazione che regala ai suoi interventi un respiro più ampio, basato su una visione dell’uomo più globale, non solo un soggetto da curare, ma un “qualcuno” cui restituire un senso, un “perché”.

 

                                           di Clotilde Bellani

 

I NATIVI AMERICANI
I primi abitanti del nuovo Continente

di Francesco Tono

 

Città di Castello,  Emil Editrore, 2019, pp. 234

 

Parlare del libro postumo di un amico scomparso (e avevo appreso casualmente la notizia della sua improvvisa scomparsa da una comunicazione “gettatami” - è il caso di dirlo - da Internet) porta a riflettere sulla fragilità dell'esistenza (“L'uomo è un canna che pensa”, Blaise Pascal) ma anche sulla freddezza glaciale dei nuovi media (Marshall McLuhan, ai suoi tempi, si lamentava della freddezza della TV, senza poter conoscere Internet o gli SMS inviati dai cellulari, non ancora esistenti nel 1980, anno della sua morte).

Francesco Tono (1948-2018) è stato un attore (anche per il Teatro Stabile di Bolzano in alcune note pièces teatrali, come Qualcuno volò sul nido del cuculo di Dale Wassermann, ma soprattutto in alcuni recitals completamente suoi, dedicati ad alcune figure di poeti emblematici oppure ad alcune tematiche specifiche, alternando musica e recitazione), un cantante e cantautore, ma anche un grande esperto dei Nativi americani (altri dicono Amerindi, ma non è questione terminologica). A questi è dedicato questo libro, che è un vero manuale (come accenna lo stesso autore nella sua prefazione, ma lo fa anche Gianfranco Manfredi, intellettuale e cantautore, nella sua introduzione), per sua stessa intrinseca natura inter-e transdisciplinare, che unisce storia, geografia, archeologia, storia delle religioni e della spiritualità (i due ambiti sono separati e comunque separabili, come dimostra la “religione” o meglio “spiritualità” di coloro che un tempo si chiamavano, dopo la “scoperta” di Colombo “Indiani d'America”), linguistica e in parte anche scienza e tecnologia.

Il libro, che si inserisce di diritto tra i principali saggi in lingua italiana sul tema (che per ora non sono molti) si impone anche in modo direi imprescindibile per chi voglia scrivere tesi di laurea, tesine universitarie o anche a livello liceale sul tema, a chi voglia scrivere ulteriori saggi, a chi si appresti a svolgere anche semplicemente ricerche scolastiche in merito, ma naturalmente anche i futuri biografi di un personaggio comunque significativo e a suo modo “complesso e sfaccettato” come Tono non potranno in alcun modo prescinderne.

Francesco (questo lo sapevo, anche prima della gradita e al tempo stesso triste - per l'ovvio motivo riportato sopra - scoperta del libro) trascorreva le sue vacanze tra gli States e il Canada, studiando non solo nei libri ma sul campo gli “Indiani”, parlando con loro, frequentandoli nelle riserve etc., e questo per anni. Ne era un cultore e ricordo che già a inizio anni degli anni Novanta, in una conferenza-spettacolo sulla beat generation (Kerouac, Burroughs, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti etc., come noto), mi indusse ad includere anche testi (di notevole spessore poetico) di autori nativi americani appunto...

Questo suo studio attento e rigoroso, oltre a ribaltare definitivamente (aggiungerei: finalmente) il vuoto cliché dell’“artista maledetto”, del “poète maudit” (e Francesco, oltre che attore-cantante e giornalista, poeta lo era davvero e di notevole spessore - chi scrive spera che ci si occupi prossimamente della pubblicazione dei suoi versi...), definisce meglio la struttura mentale di questo perfezionista dello spettacolo (curava ogni minimo dettaglio di ogni evento) ma anche della ricerca, come questo I nativi americani attesta senza alcun dubbio possibile. Ancora un'osservazione che risulta da quella che Althusser chiama opportunamente “lettura sintomatica” dei testi: spesso nel libro troviamo il lemma “cattolico” anche dove, tra l'altro anche da un punto di vista cattolico diremmo quasi meglio, ecumenicamente, “cristiano”: sintomo della formazione cattolica dell'autore ma anche della volontà di rivolgersi a un pubblico di lettori, quello italiano, anch'esso, di formazione prevalentemente cattolica...

 

                                   di Eugen Galasso

 

Interpretazioni di Montesquieu

di Antonio Merlino

 

Foligno, Il Formichiere, 2018, pp. 177.

 

Nonostante siano passati quasi tre secoli, il barone di Montesquieu rimane uno dei pilastri del pensiero giuridico moderno e contemporaneo. Letto ed interpretato dai protagonisti della Rivoluzione francese, l’autore dello Spirito delle Leggi ha ispirato filosofi e statisti fino ai giorni nostri. Tuttavia, come ogni classico, l’opera del giurista francese è stata spesso vittima di stereotipi o visioni sempliciste per via della sua grande fortuna. Il merito del testo di Antonio Merlino, Interpretazioni di Montesquieu, è infatti quello di tornare alle fonti dirette, ovvero alle opere stesse del filosofo e pensatore politico francese.

Il saggio di Merlino ci permette, infatti, di affrontare la lettura diretta delle opere di Montesquieu, liberi da preconcetti e stereotipi generati da quasi tre secoli di interpretazioni. Infatti Merlino, con agilità e leggerezza, si dipana nella giungla delle molteplici letture di Montesquieu in modo da restituire al testo la sua freschezza ed attualità. E così scrive Diego Quaglioni nella sua Prefazione: «Era dalla complessiva revisione del giudizio su Montesquieu giurista, proposta da Giovanni Tarello in un lungo saggio del 1971 […] che non si facevano più i conti con le interpretazioni di Montesquieu in maniera così schietta e salutare».

La rilettura non riguarda soltanto l’opus magnum di Montesquieu, ovvero lo Spirito delle Leggi, ma parte dalle più giovanili Lettere Persiane. Infatti all’interno di esse Merlino individua la “favola” dei Trogloditi e delle origini della monarchia, la quale mette in evidenza il punto di vista del giovane Montesquieu sull’ordine politico dell’Ancien Régime.

Ma importante è anche la rilettura dei classici latini che Montesquieu esegue all’interno delle sue opere. Ad esempio Merlino sottolinea l’influenza dello storiografo latino Tacito e della sua Germania all’interno del pensiero di Montesquieu. Però il filosofo non dialoga soltanto con il passato, ma è fitta la rete di richiami ai suoi contemporanei, il che lo rende un protagonista del dibattito giuridico e politico del suo tempo.

Infine non bisogna dimenticare, nella terza parte del volume, il parallelo tra Montesquieu e Alexis de Tocqueville, autore della Democrazia in America: mentre Montesquieu analizza la monarchia dell’Ancien Régime e ne individuava i pericoli, Tocqueville, mettendo sotto la lente d’ingrandimento la neonata democrazia degli Stati Uniti d’America, ci mostra come anche questo sistema di governo, oggi accettato da tutti, abbia i suoi effetti deleteri. Il discorso sulla tirannide della maggioranza è tuttora attuale e ci permette di confrontare problematiche di ieri e oggi. Infatti il testo di Merlino ci consente di interrogare il testo di Montesquieu su questioni attuali e non solo.

                          

                                             di Diego Valentini

 

Il teatro del futuro

di Georg Fuchs

 

a cura di Eloisa Perone, Imola (Bo), Cue Press, 2019, pp. 61

 

Non è un capriccio editoriale la pubblicazione de Il teatro del futuro di Georg Fuchs. Nelle pagine di questo scritto teorico si ritrovano tanti rivolti artistici seguiti dalle avanguardie storiche del Novecento in merito alla definizione e funzione aggregativa del luogo teatrale, dell’arte dell’attore, della funzione del regista.

Prima critico d’arte, poi direttore teatrale e drammaturgo, Fuchs scrive due saggi complementari, Il teatro del futuro nel 1904 e La rivoluzione del teatro nel 1909. Le date non sono casuali: tra i due interventi si pone il Künstlertheater di Monaco inaugurato nel 1907 con la memorabile rappresentazione del Faust di Goethe per la regia di Fritz Erler e progettato da Max Littmann seguendo i principi architettonici ed estetici avanzati dallo stesso Fuchs nel primo dei due saggi. Eliminata la tradizionale suddivisione in palchetti, il nuovo edificio presenta una forma ad anfiteatro che salda il rapporto tra scena e platea. Cancellate le quinte, i soffitti e le macchine teatrali, la scena risulta tripartita in un proscenio aggettante – esteso in larghezza e poco profondo per meglio valorizzare la plasticità del movimento dell’attore – una scena centrale e una di fondo chiusa da una superficie dipinta.

La sala teatrale secondo Fuchs assurge a luogo magico di educazione e di incontro per una collettività che non assiste ad uno spettacolo bensì partecipa ad una sorta di catarsi festiva, rituale e purificatrice, di ebrezza e di esaltazione vitale, come succedeva al tempo delle rappresentazioni dei Misteri e della Passione.

Così ne Il teatro del futuro dominano riflessioni e progetti sulla funzione culturale e sociale attribuita al teatro, prendendo a modello Goethe quale esempio sublime di declinazione del teatro classico antico nella tradizione e nello spirito tedesco. Di riflesso Fuchs teorizza una cultura capace di abbattere le frontiere, tanto interne ad una Germania da poco riunificata quanto esterne, che nel rapporto tra pubblico e scena diventa teatro del popolo privo di simbolica e reale separazione individuale e di classe.

La rivoluzione nel teatro non modifica sostanzialmente il contenuto del saggio precedente, lo completa e lo aggiorna con qualche intervento di tipo formale. Significativamente la prima pagina è introdotta dalla celebre e seminale frase-slogan “Reteatraliser le Theatre!”, in cui si sintetizza il progetto di riforma in senso antinaturalistico e anti illusionistico. Fuchs, riferendosi al Künstlertheater, si concentra soprattutto sulle valenze e potenzialità innovative di questo tipo di luogo teatrale in rapporto all’esercizio delle arti sceniche. Il nuovo-antico codice espressivo si contrappone al teatro borghese e alla recitazione naturalistica, chiamando in causa anche la scrittura drammaturgica. Per quanto riguarda l’attore si legge che «i mezzi espressivi della danza sono anche i mezzi naturali dell’attore, e si distinguono da quelli della danza solo per un’estensione della possibilità espressiva. Più l’attore sarà vicino al gioco legato al ritmo della danza, tanto più completa sarà la creazione dell’attore, sebbene egli non debba mai trasformarsi del tutto in danzatore. L’autore drammatico ha il dovere di fornirgli una buona base per questo» (p. 35).

Nell’edizione di questo prezioso volume di Cue Press curato da Eloisa Perone, traduttrice e autrice di un’illuminante introduzione (Futuro, antichità e rivoluzione) i due saggi di Fuchs sono accorpati in un unico testo e differenziati graficamente dall’uso di distinti colori. Emerge con chiarezza la linearità del pensiero dell’intellettuale e la sua capacità di rinnovarsi e completarsi per effetto della materializzazione delle due idee nel teatro di Littmann, disegnando in questo modo un connubio artistico e culturale assai raro nella storia dello spettacolo.

 

                                  di Massimo Bertoldi

 

... E adesso parlo!

di Maria Teresa Liuzzo

 

 

Reggio Calabria, A.G.A. R. Editrice, 2019

 

Narrazione o romanzo, quest'opera in prosa di Maria Teresa Liuzzo si definisce e viene definita “romanzo”. Se lo è nella partizione di genere tradizionalmente invalsa quanto accettata, allora si pone il problema: la narrazione c’è, ma non tanto nel suo sviluppo cronologico quanto in uno sviluppo interno che è corda sospesa, continuamente, tra “realtà” e sogno, tra la dura vita (con il motivo ritornante, in forma di domanda retorica, se la “vita” coincida o mena con l’“esistenza”, anzi il “vivere” con l’“esistere”, da “ex-sistere”) e l'amore sognato tra la protagonista Mary e Alf, pittore quanto invece Mary è poetessa. Un Leitmotiv che percorre il libro e rappresenta in forma fantasmatica (Lacan) il ritorno e il riscatto, che la capacità di sublimazione rappresenta rispetto alla vita grama e grigia di umiliazioni cui Mary fin dalla più tenera età è stata sottoposta fin dalla più tenera età. C'è anche la quaestio, così ben posta da György Lukáks del “narrare o descrivere”, dove anche le “descrizioni” sono presenti, a tratti, con grandi pennellate che intervallano la suddetta enarratio ad intra. Di certo la descrizione non è mai naturalisticamente puntuale, bensì “sintomatica”.

Coglie assolutamente nel segno Mauro Decastelli nella sua ricca quanto dotta prefazione Il momento
della parola che chiama in causa precedenti letterari e scritturali - dalla biblica Susanna detta “casta Susanna” (Daniele, 13) a Silvia Plath e a Carl Gustav Jung che, parlando di “sincronicità”, richiama la critica al mero concetto di causalità già presente in Locke e Berkeley ma soprattutto Hume, contrapponendole la casualità in forma “evenemenziale”, passando per gli Sefiroth della Cabala (Kabbalah), Goethe e tante altre fonti che nella scrittrice-poetessa sono filtrate in maniera estremamente originale.

Mi permetto di aggiungere, sit venia verbo, il “Divino Marchese”, quello scandalo per la cultura dominante cristiana ma anche per l'Illuminismo quietamente razionalista e demolitore dell’“Occidente cristiano” (lo hanno rilevato genialmente Theodor Wiesegrund Adorno e Max Horkeimer in Dialektik der Aufklaerung) che fu Donatien Alphonse François Marquis De Sade (1740-1814), nobiluomo provenzale, erede in linea diretta di Madonna Laura amata dal Petrarca. Ora, nelle opere pluricondannate di De Sade, il Male viene contrapposto come vittorioso ma anche come significativamente superiore all’“ipocrisia” del Bene, mentre in ... E adesso parlo, nonostante tutte le sevizie e le umiliazioni (violenza sessuale compresa) cui era stata sottoposta da sempre, anche da parte del padre e dello zio, la protagonista Mary rimane teorica del Bene e praticante lo stesso, legata com'è non tanto alla “traditio”, ma proprio al Bene in sé, dove converrebbe richiamare la dimensione filosofica (l'Idea del Bene platonica, dunque, ma anche l'unità tra estetica ed etica come viene teorizzata da Friedrich Schiller) e quella teologica (quando Hans-Urs von Balthasar parla dell'unità tra Unum, Bonum et Pulchrum in Dio).

Insomma la prospettiva sadiana e sadica (ma è noto che, nonostante tutto, ossia le teorizzazione e le inclinazioni arcinote che hanno dato luogo alla tassonomia delle perversioni in Krafft-Ebing, poi ripresa da Freud, in cui il “sadismo” occupa un posto d'onore, il citoyen De Sade era contrario alla pena di morte...), nell'opera della Liuzzo viene rovesciata, in una forma tipicamente femminile, in modo tale chel'acquiescente Mary (che non a caso ha un'antenata di nome Maria) diventa paladina di una dolcezza fortemente positiva e affermativa dei valori opposti a quelli “malvagi” purtroppo dominanti...

Stilisticamente insituabile, pur se con indubbi richiami al simbolismo e a certo espressionismo, il romanzo ha parti decisamente liriche, nelle quali le allegorie e i simbolismi rimandano certamente alla condizione esistenziale della protagonista. Eccone un esempio: “In quel cielo di cemento, Mary vedeva l'orizzonte plumbeo d'astri lunari nel silenzio degli abissi, non escludendo che la mente umana, eco delle metropoli e del caos, è costretta al mimetismo di una realtà duplice e spartana, a differenze individuali, ai continui appelli della paura, al vandalismo che è disperazione dei soli e abbandonati, ai ripetuti filtri di elaborazione in attesa che il lievito dell'urlo possa deambulare verso un corso d'acqua come scelta autonoma e la coscienza possa finalmente liberarsi dalle tante strettoie e sostare nella sua culla di luce, come arte e parola, spirito e carne sia nella vita di relazione sia nella profonda armonia artistica”.

 

                                      di Eugen Galasso

 

Mai morti

di Renato Sarti
 

 

Imola, Cue Press, 2018, pp. 43

 

Circolano testi teatrali che valgono un manuale di storia per il modo in cui articolano la ricostruzione e il racconto il flusso caotico di azioni collettive di matrice ideologica. Se poi l’onda silenziosa del passato bagna le spiagge del nostro presente, l’incontro tra il Teatro e la Storia diventa una visione e uno strumento che aggiunge preziosi tasselli per arricchire la conoscenza e la decodificazione di un sistema perverso e aggressivo intorno al quale gravitano uomini di ieri e di oggi.

È il caso di Mai morti di Renato Sarti. Scritto all’inizio del 2000, poi migliorato e rifinito per la produzione del Teatro dell’Elfo nel 2002, è stato per molti anni il fiore all’occhiello del Teatro della Cooperativa. L’escamotage narrativo assunto da Sarti è un uomo vecchio, nella sua stanza che, sorseggiando whisky e assumendo medicine, anima un incredibile-credibile racconto autobiografico che inizia con una precisa domanda: «la morte per strage – banche, piazze, stazioni, piazze, treni – di poveri innocenti può forse arrestare il corso della storia e dei suoi mutamenti?», alludendo alle stragi del terrorismo fascista avvenute in Piazza Fontana di Brescia e alla stazione di Bologna. In merito il monologo di Sarti intende cercare, nel groviglio della Storia, i fili primordiali della matassa della violenza e di certo odio contemporaneo.

Non a caso il protagonista è un ex ufficiale squadrista appartenente ai “Mai Morti”, nome di una delle più violente compagnie della Decima Mas, corpo militare indipendente che si unì all’esercito nazista dal 1943 al 1945 in opposizione alla Resistenza italiana, distinguendosi per azioni di truce terrorismo e macchiandosi di crimini di guerra e contro l’umanità.

Il suo è un delirante ma autentico monologo di violenza vissuta come naturale manifestazione di un meccanismo vorticoso in cui egli stesso si identifica e che intende tenere in vita. Per esempio ricorda una serata accomodato in platea al Piccolo Teatro di Milano non per parlare di spettacolo ma per rievocare le urla strazianti per le torture patite da parte degli oppositori del regime nelle celle che ora sono i camerini per gli attori. Oppure celebra, tra gratificazione e nostalgia, lo sterminio della comunità copta di Debrà Libanòs e i massacri nel campo di concentramento italiano di Danane. la conclusione del suo discorso è tanto coerente quanto segno di delirio criminale: «in Africa abbiamo ucciso quasi un milione di negri? Sicuro! C’è chi dice due. Non c’è acqua, figurarsi l’anagrafe…come si fa a calcolare? Facciamo uno». Lo stesso atteggiamento ritorna quando si parla di eccidi di partigiani nel Canavese («la maggioranza dei sopravvissuti alle torture veniva fucilata, come nella migliore tradizione della Decima, alle spalle»).

Mai morti non finisce qui. Continua con l’aggiornamento del passato del protagonista al presente. Ecco quanto rivela: «faccio parte del comitato promotore per un gruppo di cittadini dell’ordine» contro «negri, puttane, omosessuali, alcolizzati, drogati, spacciatori, ebrei zingari, extracomunitari» e anche contro le onlus, «a quelle gli facciamo un culo quadro così…prima gli italiani, prima gli italiani!». Più chiaro e attuale di così..

Privo di retorica, sostenuto da un linguaggio efficace e diretto, Mai morti di Sarti assurge a mirabile esempio di vero teatro civile grazie ad un testo costruito sullo studio approfondito delle fonti storiche relative agli orribili fatti raccontati con lucidità e schiettezza e, soprattutto, consegnati a quella memoria che porta alla consapevolezza dell’orrore, allo smascheramento di scomode verità sempre nascoste. E Sarti e Bebo Storti che interpreta in monologo in scena ci fanno capire i tanti perché.

 

                                       di Massimo bertoldi

 

Proletkult

di Wu Ming

 

 

Torino, Einaudi, 2018, pp. 333

 

Capri, aprile 1908. Una foto ritrae Lenin e Bogdanov che giocano a scacchi sotto lo sguardo di Gorkij, immagine simbolo di Proletkult presentato di recente a Bolzano presso l’osteria “Da Picchio”. A Bogdanov, dei tre il meno noto ai più, Wu Ming dedica il romanzo. Aleksandr Aleksandrovič Bogdanov, il cui vero cognome era Malinovskij, fu politico, filosofo, economista, scrittore e medico russo. Uno dei due fondatori del bolscevismo, insieme a Lenin, il primo a tradurre in russo Il Capitale di Marx, scrittore di fantascienza sul cui manuale di economia studiarono le giovani generazioni della rivoluzione, pioniere delle trasfusioni morto testando su di sé le possibilità curative dello scambio di sangue.

In quest’occasione Wu Ming pare risolvere su più piani alcune tensioni che pure hanno generato di volta in volta fiction storiografica, onirismo lisergico, reportage militante… Nella figura di Bogdanov, eretico tra gli eretici, pressoché dimenticato, Wu Ming trova, in una realtà storica che si affaccia sulla fantascienza, “già pronta” la sintesi: la Tectologia, la “Superscienza” della struttura fondamentale di società, gruppi, organismi. Attraverso la lente di Wu Ming questa teoria, detta Empiriomonismo, anticipa di oltre mezzo secolo sensibilità che troveremo prima in Bateson, quindi negli studi di Maturana e Varela sull’organizzazione del vivente.

Proletkult è il modello educativo che incarna questi principi, accompagnando gli studenti senza esercizio del potere in scuole di cultura proletaria da Capri a Bologna, per chiudersi invece a Parigi tra le “scomuniche” e le accuse di idealismo nella verticizzazione autoritaria e realista di Lenin. “Lenin pensa che per capire il mondo sia necessario scattargli una fotografia, quanto più precisa possibile. Per me invece la conoscenza è come il cinematografo” afferma Bogdanov. “Perché abbiamo fallito?” è la domanda che torna sul filo dei ricordi che si dipanano a partire dai preparativi che fervono. Ricorre il decennale della Rivoluzione, in cui troneggia Stalin, il rapinatore georgiano Koba di vent’anni prima a Tbilisi. Appare una ragazza, forse proveniente da Nacun, la Stella Rossa narrata da Bogdanov dove il socialismo è realizzato, o orfana abbandonata della Rivoluzione… La scrittura diventa strumento di un’ambivalenza costruttiva tra realtà e possibilità, o realtà dell’immaginazione, in un’inattualità che potrebbe confortare il presente disperso: il mondo si cambia attraverso la cultura, più che con la politica, nella coscienza tout court, più che in quella di classe.

In questa possibilità che è data a coloro che sono sempre un po' ai margini, perché vedono e credono, dietro le quinte, minoritaria, meno visibile rispetto alla ribalta della Storia di piccoli e grandi “io”, risuona l’appello di Wu Ming “proletari di tutti i mondi unitevi!”. Questo è il Collettivismo immaginato nelle trasfusioni o ritrovato nelle interconnessioni contemporanee esplorate dall’autore collettivo Wu Ming, già Luther Blisset.

333 pagine divise in tre parti di undici capitoli ciascuna per un totale di 33 capitoli incorniciati da prologo ed epilogo. Superando contrapposizioni, come quella tra idealismo e materialismo, Wu Ming sembra suggerire la possibilità di quest’organizzazione cognitiva bio-psico-logica in una sintesi guidata dalle arti. “Adaeth” dice Denni la nacuniana guardando la torre della radio a Mosca, nella lingua del suo pianeta “bello e utile”, come quest’ultimo lavoro di Wu Ming.

 

                            di Nazario Zambaldi

 

Semplice, buttato via, moderno
Il “teatro per la vita“
di Gianrico tedeschi

di Enrica Tedeschi
postfazione di Luciano Zani

 

Roma, Viella, pp. 222

 

«Semplice, buttato via, moderno», battuta che faceva spesso Luchino Visconti, è anche il titolo scelto da Enrica Tedeschi, già insegnante di discipline sociologiche presso l’Università di Roma Tre, per raccontare in modo del tutto particolare la vita di suo padre, il famoso attore Gianrico Tedeschi classe 1920. Si tratta di una lunga e intensa intervista, alla quale non mancano momenti di sincero affetto, dalla quale emerge limpida e accattivante la biografia individuale calata in una cornice storica e culturale popolata del protagonisti della vita del teatro italiano dal secondo dopoguerra a oggi.

Del rapporto tra Tedeschi e Visconti si parla nella seconda parte del libro (Interprete della modernità). «Il suo realismo, il suo rigore erano una ribellione», dichiara l’attore milanese impegnato ne La locandiera di Goldoni e in Tre sorelle di Cechov. Mentre di Giorgio Strehler, altro regista fondamentale per il suo percorso, ricorda che «lo muoveva una specie di esaltazione. Lui era appassionato e suscitava negli altri lo stesso fuoco». La vetrina dei registi continua con Luigi Squarzina («Ero affascinato dalla sua immensa cultura. Era intelligente, un grande intellettuale. Era uno autentico») e con Luca Ronconi («un vero rivoluzionario, un grande innovatore. Forse, l’unico che parla un nuovo linguaggio, adatto a questi tempi»). Il maestro per Tedeschi rimane Orazio Costa, il suo primo regista, «lo studioso che era felice di condividere con i giovani la conoscenza».

Da questi registi fondamentali del teatro italiano Tedeschi apprende gli elementi espressivi propri del suo stile, semplice ed essenziale, attento alle pieghe psicologiche del testo che poi porta a perfezionamento nel corso della sua lunga e luminosa carriera lavorando, tra i tanti, con Giuseppe Patroni Griffi, Marco Bernardi, Andrée Ruth Shammah, Piero Maccarinelli, Antonio Calenda. L’ultima fatica ricordata è Dipartita finale di Franco Branciaroli (2014-2016), dalla quale «ho percepito il senso della tragedia umana di fronte al mistero del ripetersi delle nascite e delle morti», ossia dei due estremi della vita che nel linguaggio teatrale significano il comico e il tragico, che corrispondono al recinto entro il quale si è articolata l’arte di Tedeschi plasmando personaggi di Goldoni, Pirandello, Ruzante, Shaw, Shakespeare, Feydeau, Brecht, Bernhard, Testori.

Si incontrano nel libro pagine toccanti, di straordinaria potenza comunicativa, soprattutto nella prima parte, Testimone della storia, in cui il racconto della vira dell’attore, più che muoversi sui palcoscenici, respira soprattutto le tragedie della guerra mondiale che costringe Gianrico a interrompere gli studi universitari. È chiamato alle armi come ufficiale e partecipa alla campagna di Grecia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre è inserito tra gli internati militari italiani (IMI) che si rifiutarono di aderire alla repubblica di Salò e perciò è internato nei campi di concentramento di Beniaminovo, Sandbostel e infine Wietzendorf. La prigionia di due anni è condivisa con Alessandro Natta, Giuseppe Novello, Roberto Rebora, Giovannino Guareschi.

«La nostra resistenza – ricorda Tedeschi – è stata quella di usare le ermi della cultura e dell’arte contro le barbarie. Ci rafforzava, ci dava coraggio, ci arricchiva, ci illuminava». E l’attore sceglie la sua arma: nel gelo della baracca recita l’Enrico IV di Pirandello per un pubblico di internati. Il perché della scelta di questo testo la spiega lucidamente lo stesso interprete: «la storia del personaggio era perfetta per raccontare quello che stavamo vivendo. Un uomo prigioniero della sua follia […]. Noi vivevamo una follia collettiva: era folle la guerra, erano folli i nostri carcerieri, ma erano folli anche molte idee che circolavano fra gli italiani, lì nel campo di internamento, e pure in Italia. Enrico è il personaggio che dovremmo sempre interpretare di fronte alle contraddizioni e alle assurdità della vita sociale».

Sono parole forti che attribuiscono al teatro la sua vera forza, la sua capacità di unire uomini in bilico tra la vita e la morte. E i segni di questa indelebile esperienza affiorano qua e là in questo libro di memorie di ieri e di oggi che si completa con una bella intervista a Franca Valeri, un intervento di Luciano Zani. In Appendice di leggono la teatrografia, la filmografia, i lavori realizzati per la radio e per la televisione da parte di questo straordinario uomo e protagonista dello spettacolo italiano.

 

                                        di Massimo Bertoldi

 

«Arte»

di Yasmina Reza
traduzione di Federica e Lorenza Di Lella

Torino, Adelphi, 2018, pp. 101.

 

Yasmina Reza, scrittrice franco-iraniana, staziona da diversi anni nei piani alti del teatro internazionale. L’uomo del destino (1995), Il dio del massacro (2007) da cui Roman Polanski ha tratto il celebre film Carnage (2013), Babilonia (2016), sono titoli tradotti e recitati in tutte le lingue. Lo steso vale per la commedia «Arte» che, fresca di stesura, debutto nel 1994 alla Comédie des Champs Elysées di Parigi. In Italia il testo è stato pubblicato da Einaudi nel 2006 e ora è riproposto da Adelphi con la nuova traduzione di Federica e Lorenza Di Lella.

«Arte» è un capolavoro di semplicità nell’affrontare questione complesse. Da un’atmosfera borghese e mondana affiorano come un fiume carsico problematiche legate alla carriera, al senso dell’amicizia, soprattutto all’arte contemporanea e alla sua decodificazione semantica e linguistica.

Protagonisti sono tre amici parigini di lunga data. Serge ha comperato a caro prezzo un quadro di tendenza, “un Antrios”. Nello specifico si tratta di “una tela di circa un metro e venti, dipinta di bianco. Il fondo è bianco. E strizzando gli occhi di possono intravedere delle sottili filettature diagonali, bianche”. La reazione di Marc si rivela di rabbiosa indignazione: “Serge, non puoi aver pagato questo quadro duecentomila franchi!”. Mentre Yvan, sorta di anello di congiunzione tra le due antitetiche posizioni, sostiene la tesi del legittimo gusto personale.

Questi tre atteggiamenti rappresentano le corrispettive modalità ricettive dell’opera d’arte oggi. Sollevano, di riflesso, nodose questioni circa il rapporto tra gusto e arte, la possibilità o meno di affidarsi ad un criterio affidabile e capace di giudicare il reale valore dell’arte anche in rapporto al suo valore commerciale.

Ma la commedia della Reza non si concentra solo su questo dibattito. Le visioni dei tre amici diventano metafora del loro stesso rapporto, declinano lo specchio del loro vissuto calato sopra un tappeto intrecciato dai fili di dialoghi essenziali, minimalisti e graffianti, fluttuanti tra il sarcasmo e il tagliente, il comico e il drammatico. Si anima una vorticosa girandola di rivalità celate e poi esplose, di inquietanti non detti, di antichi risentimenti prossimi a trasformare il salotto di Marc in cui si cala la vicenda in un ring per uno scontro al massacro. “È per l’Antrios, per l’acquisto dell’Antrios? No…il male viene da più lontano”, dice uno di loro.

Se il bianco della tela rimane sempre uniforme, i colori e le sfumature dell’amicizia sono invece infiniti e si celano dietro la superficie della maschera- quadro bianco propria dell’uomo contemporaneo. Alla fine quell’”Antrios” tanto dibattuto, poi sfregiato e successivamente riportato al suo originario colore, rimane simbolicamente bianco, per essere guardato con occhi diversi che in esso proiettano il proprio immaginario. Magari “rappresenta un uomo che attraversa uno spazio e scompare”. O forse no.

 

                                        di Massimo Bertoldi

 

Animali da Bar

di Gabriele Di Luca
 

Imola (Bo), Cue Press, 2019, pp. 75

 

“Nasciamo e moriamo. Bene, lei non crede che, forse, bisognerebbe dare un minimo di importanza a quello che succede nel mezzo? E quella roba lì si chiama vita, caro amico. Vita!”. L’affermazione è di Colpo di frusta, un uomo così soprannominato per le conseguenze dalle violenze domestiche subite da parte della moglie piuttosto aggressiva; inoltre è un buddista inetto e impegnato nella lotta per la liberazione del Tibet. Soprattutto è un assiduo frequentatore di un bar squallido e lascivo in cui si ritrovano, quasi a formare una comunità, anime solitarie tormentate: sono gli Animali da Bar come recita il titolo della commedia di Gabriele Di Luca.

In questo microcosmo di umanità disperata ed emarginata agiscono altri personaggi emblematici e fortemente connotati che ruotano intorno alla barista Mirka, donna ucraina dal passato difficile e dal presente altrettanto complicato. Come non si fa mancare frequenti e abbondanti bevute di vodka, così arrotonda lo stipendio affittando l’utero. Per lei il destino non sarà felice. Il proprietario del fatidico bar è un vecchio malato, razzista e misantropo, tanto che nel testo la sua voce risulta posizionata fuori campo.

Altro personaggio indicativo, nonché sorta di epicentro narrativo, è Swarovski, uno scrittore nichilista alle prese con la stesura di un improbabile romanzo dedicato alla Grande Guerra che poi si scoprirà essere lo stesso copione di Animali da Bar, in cui si riveleranno le prospettive esistenziali dei protagonisti. La sua passione per i drink, quale segno di dissoluzione, lo avvicina idealmente a Charles Bukowski, dal quale deriva la storpiatura del suo nome.

Il senso della ricerca di sé caratterizza anche il profilo di Sciacallo, zoppo bipolare che svaligia le case ed è animato da una tensione particolare: riuscire a trovare la migliore forma di suicidio. Manifesta disturbi altrettanto inquietanti l’imprenditore cocainomane di pompe funebri per animali di piccola taglia. È infatti un ipocondriaco al quale non manca il desiderio di costruire una famiglia anche se il futuro sarà per lui la condanna alla solitudine.

Tutti questi soggetti cercano di dimenticare quel qualcosa da cui provare a riscattarsi e ricostruirsi. In questa tana-bar si animano dialoghi umani e folli, si vivono improbabili amori, si cullano viaggi mentali, si incrociano manifestazioni di debolezza e rabbia. Tra delicata comicità e velata denuncia sociale il testo di Di Luca si avvicina, anche nella struttura linguistica, al cosiddetto filone dei Nuovi arrabbiati di scuola anglosassone e irlandese rivisitati con il filtro antropologico e culturale italiano. Ma la sostanza non cambia: si racconta con umana sensibilità e senza retorica una situazione di disagio prodotta e connaturata al sistema. E questo non è poco.

 

                                       di Massimo Bertoldi

 

Tutto il teatro

Albert Camus

 

introduzione di Guido Davico Bonino

Milano, Bompiani, 2018, pp. 511

 

Il titolo del volume in questione può depistare il lettore perché non contiene Tutto il teatro di Albert Camus ma accorpa i quattro drammi scritti a Parigi tra il 1944 e il 1949. Lo scrittore, reduce dalle esperienze giovanili vissute ad Algeri dove aveva fondato la compagnia Théâtre du Travail, si era trasferito nella capitale francese nel 1940. Lavora per il quotidiano “Paris Soir” e poi entra nella Resistenza per il gruppo Combat. Si afferma nel mondo della cultura letteraria con il romanzo Lo straniero (1941) e con il saggio Il mito di Sisifo (1943). Il passaggio al linguaggio teatrale muove in Camus un’azione sperimentale sostenuta da un pensiero costante: la rivolta provocata dal furore della passione in un turbinio esistenziale di difficoltà e tormento.

Il testo d’esordio è Il malinteso, rappresentato al Théâtre des Mathurins nel giugno 1944. Come nell’antica tragedia greca, agiscono quattro personaggi e un coro muto. Una madre e una figlia, Marta, uccidono a ripetizione gli avventori ricchi e soli della pensioncina da loro gestita in un paese boemo. Sono mosse da un impulso ossessivo e irresistibile verso la ricerca di un Altrove. La pratica omicida non risparmia l’ennesimo ospite perché la madre deve uccidere la sua “inesorabile dolcezza”. A delitto compiuto le due donne scoprono che si tratta di Jan, il figlio e fratello ritornato in anonimo dopo vent’anni di assenza. La loro via d’uscita diventa il suicidio.

Il successivo Caligola, allestito al Théâtre Hébertot nel settembre 1945, ha come protagonista l’omonimo imperatore romano definito da Camus “ossessionato dall’impossibile, avvelenato di disprezzo e d’orrore”. L’opera è il “dramma filosofico” del delirio e della solitudine del potere in cui echeggia il Macbeth shakespeariano. In seguito alla morte della sorella e amante Drosilla, scintilla scatenante della turpe vicenda, Caligola raggiunge la consapevolezza che “gli uomini muoiono e non sono felici”. Perciò abbatte la distinzione tra il bene e il male a tal punto da sconvolgere l’assetto statale.

Pur condizionato da una carica affabulatoria e da una dilatazione eccessiva del tempo e dello spazio narrativo, Lo stato d’assedio, che debutta nell’ottobre 1948 al Théâtre Marigny, è una allegorica denuncia della dittatura, nello specifico quella di Francisco Franco senza dimenticare quella hitleriana. Non solo: nel dramma ambientato a Cadice domina il tema della paura e della sua strumentalizzazione sulla quale si fonda il regime totalitario.

Il quarto e ultimo testo antologizzato è il dramma I giusti, proposto nel dicembre 1949 sul palcoscenico del Théâtre Hebertot. Si tratta dell’opera teatrale più matura e riuscita di Camus. Affronta un problema cruciale legato al terrorismo rivoluzionario esplicato in questa sua limpida affermazione: “Impossibile uccidere un uomo in carne e ossa […], si uccide l’autocrate”. La cornice storica è costruita intorno agli eventi rivoluzionari russi del 1905, culminati nell’assassinio del granduca da parte dei socialisti. In un impianto drammaturgico vicino al teatro-documento, Camus intreccia la dimensione pubblica e privata dei suoi protagonisti avvolti di delicata sostanza affettiva e sentimentale che anima una tensione di incontro-scontro con le ragioni della politica.

 

                              di Massimo Bertoldi

 

Zombitudine

di Elvira Frosini e Daniele Timpano
con contributi di Federico Boni, Daniela Ferrante,
Gianfranco Manfredi

Imola (Bo), Cue press, 2019, pp. 65

Dal clima surreale e sospeso del beckettiano En Attendant Godot a un tumultuoso e pauroso En Attendant Zobie: è questo il segno del trapasso proprio della poetica maligna e spiazzante di Zombitudine di Elvira Frosini e Daniele Timpano. Come in Beckett, alla semplicità dello sviluppo narrativo, regolato dal principi secondo il quale tutto o nulla succede, corrisponde un fitto reticolato di metafore capaci di tracciare la prospettiva di una visione del mondo.

La cornice ambientale del testo è fortemente emblematica. In una sala teatrale si sono barricati due attori in scena, un LUI e una LEI, e il pubblico per difendersi dall’invasione planetaria degli Zombie. Poco importa sapere se questi esseri mostruosi e puzzolenti sfonderanno veramente le porte dell’edificio. Forse sono un incubo o un’allucinazione espressa da dialoghi brevi e pungenti che alternano panico e rassegnazione, sorpresa e mistero. Sta di fatto che è questa la prima grande metafora intorno alla quale si sprigionano riflessioni e denunce sulla condizione sociale e culturale dell’attore che cerca di resistere ai morsi inesorabili degli uomini-Zombie.

Il teatro inteso come spazio comunitario è visto come un cimitero vivente. Rivolgendosi al pubblico, LEI dice: “Venendo a teatro questa sera – anche se non lo sapevate – siete diventati dei ‘rifugiati’, siete entrati nel novero di quello che (forse) ce la faranno”. A fare cosa non si sa, perché la visione della morte vivente diventa l’essenza dell’uomo nelle sue diverse manifestazioni dell’essere uno Zombie, a partire dai suoi bisogni primari. Per esempio all’inizio di Zombitudine i due personaggi si nutrono di carne umana cruda appartenente ai corrispettivi genitori. La scena raccapricciante e disgustosa anticipa la metamorfosi finale dei due, quando di fatto si mangeranno a vicenda. Il grottesco intrecciato a questi gesti cannibaleschi assurge a codice di un percorso connesso alla vita stessa, qui rappresentata nella sua simbolica decomposizione quotidiana.

A questo punto il discorso è chiaro. Gli Zombie non esistono perché siamo noi gli Zombie stessi, sono uno specchio alterato e deforme del nostro vivere nella società della rivoluzione digitale e dei social network, delle competizioni cannibalesche provocate dalla precarietà invasiva e dalla mercificazione umana che non esclude nessuno. Significativamente la moda parafrasa l’essenza e le caratteristiche dell’uomo-Zombie. Questi morti viventi decerebrati, si legge nel testo, “sono belli e sono fashion […]. Hanno la pelliccia Gucci. I jeans Trussardi. La t-shirt Cavalli. Tutte cose noi non potremo permetterci mai, mai mai. […] Hanno le mutande di Calvin Klein!! Appunto! Questo è il problema! […] Avete capito? Non c’è da fidarsi!”.

In Zombitudine non c’è né apocalisse né nichilismo. I dialoghi apparentemente semplici e costruiti con il ricorso ad una pregevole leggerezza espressiva, rivelano un sottotesto puntellato di rimandi filosofici e sociologici dai quali muovere riflessioni sulle mostruosità dell’uomo moderno. Non c’è molto da ridere o da sorridere, anche se alla lettura dell’intrigante testo del duo Frosini-Timpano il divertimento non manca.

 

                                             di Massimo Bertoldi

 

Teatro d’origine

di Angela Demattè
contributi di Carmelo Rifici, Marco Martinelli,
Ermanna Montanari

 

Imola (Bo), Cuepress, 2018, pp. 129

Che Angela Demattè sia, da un lato, nata e cresciuta in Trentino e, dall’altro lato, sia anche un’attrice, lo si capisce bene dai testi antologizzati in questo prezioso volume che significativamente porta il titolo di Teatro d’origine, che per l’autrice significa un dialogo con i pilastri della propria identità, dal dialetto ai valori della famiglia imbevuti di rigore morale e di cristianesimo controriformista, alla mentalità popolare calata in un preciso contesto socioculturale. Il mestiere dell’attore (la Demattè ha interpretato i testi in questione) emerge dalla padronanza di una scrittura assai comunicativa, priva di fronzoli, capace di connotare i personaggi attraverso una sottile rete di sfumature nei piccoli gesti e nelle battute finalizzate all’esplorazione quasi intima di ciò che non appare. Perché i Trentini sono così: rudi e semplici esteriormente, delicati e sensibili interiormente.

I testi della Demattè condividono il tema del conflitto linguistico inteso come metafora della dialettica tra conservazione innovazione, tra patrimonio della tradizione e modernità.

In Avevo un bel pallone rosso domina la drammatica evoluzione del rapporto tra il padre, prototipo dell’uomo semplice e convenzionale, e la figlia Margherita Cagol cofondatrice con il compagno Renato Curcio delle Brigate Rosse. L’emancipazione della ragazza ribelle passa anche attraverso l’abbandono del dialetto trentino, mantenuto invece dal padre lungo un intreccio narrativo che inizia nel 1965, quando Margherita è brava e obbediente liceale, attraversa le rivolte del 68 e termina nel 1975 con la lettura del comunicato del nucleo armato comunista in cui si dà notizia della morte della donna in uno scontro con le forze dell’ordine. Tuttavia nella penultima scena, Margherita racconta al padre un sogno: sta facendo la guardia a uno che “somigliava al Aldo Moro” chiuso in una “camera, picola picola, con en linzòl [lenzuolo] ros sul mur”, per poi scoprire “che te eri ti papà” e dice che “Me dispias, me dispias papà…”. In questa dolorosa battuta finale la brigatista recupera il sentimento paterno del dialetto. Il legame con la sua terra rimane perciò indissolubile.

Di ambientazione storica è anche il successivo L’officina. Storia di una famiglia, testo imbevuto di riferimenti autobiografici che si articola, attraverso dialoghi rapidi e brevi quadri, dal 1926 al 2011. All’evoluzione del mestiere del fabbro, dalla dimensione artigianale della bottega all’officina industriale, corrispondono nella sua trasmissione generazionale i segni del declino di un’epoca e l’affermazione di un’altra nella concezione del lavoro e nella sfera delle relazioni umane e famigliari. Così al dialetto trentino, simbolo del patrimonio della tradizione e di una società patriarcale, prima si affianca e poi si afferma l’uso della lingua italiana.

Nel terzo testo, il recente Mad in Europe, la Demattè capovolge l’assunto: dall’abbandono-rifiuto della lingua delle origini proprio dei due testi precedenti si vira verso il suo tormentato recupero, in una sorta di ritorno uterino. Cambia anche il linguaggio, ora asciutto, monologante, oscillante tra realismo e simbolismo, a tratti astratto. Mad, la protagonista, è una deputata del Parlamento europeo che impazzisce e riduce la propria via alla condizione di mendicanza. Le diverse lingue da lei conosciute progressivamente diventano un folle miscuglio delle stesse fino ad assomigliare ad un lucido grammelot, dal quale si sprigiona e poi si afferma la ricerca della lingua d’origine e dell’eredità religiosa prima combattuta. La volontà di ricomporre la propria frammentazione interiore parafrasa, in termini squisitamente allusivi, la situazione di sradicamento delle tradizioni locali provocata dalle politiche comunitarie in linea con i processi della globalizzazione.

Carmelo Rifici, regista di Avevo un bel pallone rosso e de L’officina. Storia di una famiglia per il Teatro Stabile di Bolzano, nell’Introduzione al volume così si esprime: “Il suo teatro […] si pone il complesso compito di entrare nella bestia, nell’intricato e viscerale mondo degli affetti, provare a comprenderli da dentro l’intestino, lì dove nasce il linguaggio originario”.

 

                                  di Massimo Bertoldi

 

 

Caldo

di Jon Fosse

 

traduzione Franco Perrelli
Imola (Bologna), Cue Press, 2019, pp. 79.

Nel percorso creativo dell’infaticabile Jon Fosse – puntellato di opere diventate fondamentali per la drammaturgia contemporanea, tradotte e rappresentate anche in Italia come Qualcuno arriverà, Sogno d’autunno, La ragazza sul divano – il testo Caldo (Varmt) aggiunge un altro prezioso tassello al processo di scarnificazione del linguaggio e della struttura dei personaggio proprio dell’autore.

La forza di questa opera presentata in prima mondiale al Deutsches Theater di Berlino nel 2005 per la regia di Jan Bosse e proposta in versione italiana al Teatro Tor Bella Monaca di Roma nel 2017 (regia di Alessandro Machia; con Alessandra Fallucchi, Giorgio Crisafi e Luca Mascolo), sta nella rinnovata rivisitazione delle lezioni di Pinter e Beckett, da sempre fondamentali fonti ispiratrici del drammaturgo norvegese.

Siamo nel minimalismo estremo che si concretizza in dialoghi brevi e strutturati su una struttura sintattica di poche parole lunghe come un respiro o un sospiro, tanto da animare “una parata di fotogrammi di esistenza che restano sospesi, quasi a sancire che esistere è più che stare … che un divenire”, scrive in merito Franco Perrelli nella preziosa introduzione (Jan Fosse e il dramma dell’attesa) al libro da lui stesso tradotto.

Eppure in questi continui silenzi calati in un’atmosfera rarefatta, dove l’andamento cronologico è disturbato dai capricci della memoria, i personaggi si manifestano nella loro dimensione di essere-non essere, rivelarsi e scomparire nel nulla. Alla paralisi delle loro non-azioni manca lo sfogo tragico. L’incontro-scontro tra passione e pudore come inizia, così finisce: dal nulla al nulla.

I protagonisti di Caldo sono Il primo uomo, Il secondo Uomo, Una donna. Forse sono due perché i due uomini, l’uno prossimo alla terza età e l’altro nella fase della giovinezza, si alternano e si intrecciano nei dialoghi con la figura femminile che è (o è stata) mogli di entrambi e dai quali ha avuto figli. Il luogo dell’incontro è un pontile, vicino al quale si trova una misteriosa casa dove si sono consumati gli amori e che nei dialoghi è spesso evocata per poi scomparire come una bolla di sapone, come il ricordo lontano di una mente lucida-confusa. Alla stessa maniera si dissolvono nel gioco vorticoso delle immagini altri segni connotativi: il costume da bagno della donna indossato in una calda e sensuale estate, le belle forme del suo corpo, i suoi capelli bagnati.

Nelle battute conclusive si sostanzia l’essenza poetica di Caldo:

IL PRIMO UOMO
Ma noi stiamo qui

IL SECONDO UOMO
Noi stiamo qui

DONNA
Qui dobbiamo stare noi

IL SECONDO UOMO
Forse

IL PRIMO UOMO
Noi dovremmo

IL SECONDO UOMO
Certo noi dobbiamo stare qui

Sono parole che evocano forme scheletriche di esistenza enigmatiche e significative. Forse la trasfigurazione delle nostre.

                                          di Massimo Bertoldi

 

Roberto Alonge

Discesa nell’inferno familiare
Angosce e ossessioni nel teatro di Pirandello

 

Torino, Utet, 2018, pp. 188

 

Nella premessa Perché Pirandello al suo libro Discesa nell’inferno familiare Alonge consiglia il lettore di iniziare dall’ultimo capitolo dal titolo piuttosto denso: Scrittura desiderio biografia. Dilacerato: fra tre figli e un grande amore. In queste pagine si ricostruiscono le tempeste sentimentali di Pirandello, dalla prigionia coniugale complice la moglie folle alle frustrazioni erotiche patite nel tormentato rapporto con Marta Abba. L’ipotesi dello studioso è illuminante: in Pirandello “la vita e le opere sono strettamente intrecciate”, si mescola cioè “la fantasia alla realtà” in una sorta di sovrapposizione “delle belle forme dell’immaginario artistico alle configurazioni banali e insignificanti della routine quotidiana”.

Questo libro, caratterizzato da lucido approccio saggistico e morbida scrittura romanzata quasi a voler instaurare un rapporto di intimo contatto con l’universo pirandelliano, è di accattivante e coinvolgente lettura. L’erudizione di Alonge, uno degli studiosi più qualificati e prolifici, è al nobile servizio di una rigorosa indagine condotta con quella profondità analitica propria di chi conosce la materia come le proprie tasche o il miglior amico dell’infanzia.

I nove capitoli del libro evocavo i gironi dell’inferno dantesco in versione familiare e patriarcale, dove si posizionano i personaggi assunti principalmente da Sei personaggi in cerca d’autore, Il giuoco delle parti, Il piacere dell’onestà, Enrico IV, La morsa, Questa sera si recita a soggetto. Sono coinvolti uomini e donne accorpati del crudele gioco delle frustrazioni condivise, del piacere negato. Sono donne avvolte nella solitudine e disposte a sacrificare il sesso per la maternità (le madri sante), oppure come indica il titolo del secondo capitolo, Donne frustrate, avvilite, infelici come la frigida Silia in Enrico IV che ripudia il proprio corpo, o Donata di Ritrovarsi, delusa dal sesso che non le ha regalato il piacere. Tuttavia, osserva Alonge, nel ricco repertorio del drammaturgo siciliano si incontrano figure femminili, poche, alle prese con pulsioni irresistibili e carnali. Un esempio è offerto dal rapporto tra il sadico console Grotto e Ersina, badante di sua moglie in Vestire gli ignudi.

I gironi maschili risultano affollati da Uomini soli, infantili, crudeli (capitolo quarto) che si rapportano alla donna, vissuta come nemica, con atteggiamento impetuoso a difesa di una marcata incapacità relazionale. E poi incontriamo, sempre guidati da Virgilio-Alonge, la zone abitata dai Maschi “voyeurs” e un poco perversi in un dialogo a distanza con La moglie adultera e madre indegna (capitolo settimo). Le infedeli non sono molte nell’umanità pirandelliana ma condividono un aspetto piuttosto inquietante: sono madri pessime oppure donne incattivite dalla maternità negata.

Completa questo inquietante quadro di famiglia, dove non mancano incesti e pedofilia, la presenza dell’elemento omosessuale, maschile e femminile, assunto con atteggiamenti omofobi da parte dello scrittore agrigentino, come bene illustra Alonge nell’ottavo capitolo Malebolge: l’ambiguità che fa ribrezzo (agli omofobi) che si sofferma, tra le tante, sulla figura della berlinese Mob amante di una seducente e misteriosa donna originaria del Friuli (Come tu mi vuoi).

Il lavoro chirurgico e certosino di Alonge si basa su uno scavo viscerale del sottotesto, dal quale emergono le mille sfumature del non-detto o della battuta allusiva. Si tratta di un’operazione filologica fondamentale in quanto porta alla luce aspetti anche inediti o trascurati di molti personaggi, dai quali trarre spunto per nuovi percorsi interpretativi anche a beneficio di registi e attori pirandelliani.

 

                                        di Massimo Bertoldi

 

Criminali del campo di concentramento di Bolzano
Deposizioni, disegni, foto e documenti inediti

di Costantino Di Sante

 

Bolzano, Raetia, 2019, pp. 319.

Per quanto la constatazione rischi di apparire banale, non ci si smetterà mai di stupire del fenomeno curioso in virtù del quale man mano il tempo storico si allontana dagli eventi che il pensiero e la ricerca scientifica, cercano di misurare, di comprendere; tanto più emergono da un passato sempre più lontano lacerti, frammenti, residui che si pensavano smarriti per sempre, sabbia nel vento.

Così puntualmente è accaduto con l’importante lavoro storico di Costantino Di Sante, ricercatore, collaboratore di alcune università e direttore dell’Istituto storico di Ascoli Piceno. Da una realtà così apparentemente lontana dal contesto sudtirolese, giunge un contributo di essenziale importanza per cercare di fare nuova luce sul Durchgangslager Bozen, l’ultimo campo di deportazione – ancorché ufficialmente “di transito” – allestito in territorio italiano dal Terzo Reich ad essere smantellato nel maggio del 1945; e uno dei pochi campi in cui non solo è stato possibile identificare le vittime – con il pionieristico lavoro di ricerca di Dario Venegoni, di ormai dieci anni fa – ma anche i carnefici: fino a farne riconoscere e incarcerare il più spietato di tutti, a più di 50 anni di distanza, Michael Seifert detto “Mischa”, portato dal Canada in Italia, condannato e detenuto per due anni, fino alla sua scomparsa nel 2010.

L’ultimo criminale nazista, in un nuovo millennio che pare avere perso spesso la memoria. Con il libro Criminali del campo di concentramento di Bolzano, lo storico piceno si giova di una scoperta davvero sensazionale, un fondo di archivio statunitense inesplorato, che rivela una miniera di informazioni, in precedenza solo accennabili marginalmente ed ora magistralmente sotto gli occhi dell’intera opinione pubblica, e non solo locale. Fotografie, disegni, documenti e testimonianza credute perdute, ed ora riemerse, nuove, taglienti.

Ed ecco quindi la ricostruzione, puntuale, della vita ordinaria di ordinari carnefici, restituita nella pochezza o “banalità” – ci perdoni Hannah Arendt – della loro quotidiana dose di violenza, misfatti, delitti. Banali, va rimarcato, le persone, certo non le immonde azioni commesse: ordinarie, sotto tutti gli aspetti, anche i soggetti più infami, come nel caso del “semidio del Campo” Haage, un travet del terrore, un ometto supponente nella sua divisa con la testa di morto, stirata e spesso aperta, uno stile déshabillé postprandiale: che, sposato a casa, si intrattiene con almeno una o due segretarie del Campo, e infine mette incinta una disgraziata, la Lächert, una ragazzotta spostata di 24 anni, violenta con gli inermi, complice dei delitti, sopravvissuta ad una vita davvero miserabile, e morta come spia della CIA nella Germania del Dopoguerra.

Ma la parte davvero più straordinaria, se così si può dire, dei ritrovamenti, è rappresentata dalla “Bierzeitung”, una rivistina semigoliardica interna al Campo, in cui si scopre come i nazisti, gli assassini, ridevano. Si divertivano. Scherzavano, con un discreto sense of humor. E con una indubbia bravura grafica, a dispetto di chi ha sempre esorcizzato il fenomeno isolando l’esperienza concentrazionaria nazifascista come una “anomalia”, da Croce in poi. Niente affatto: vi sono disegnatori, anche bravi, e dotati di ironia, umorismo. Anche su se stessi, con buona pace per chi ritiene che basti essere dei “comici” per salvarsi l’anima, per essere “spiriti liberi”, dotati di capacità di ridere di sé. Lo erano anche loro, e si lavavano le mani, dopo il lavoro fatto: obbedendo e rispondendo ad un ordine, e dandone altri, senza interruzione. Una catena di montaggio, di morte e sopraffazione: con tempo libero e divertimento; anche piccante, libero, disinvolto. Chissà se ci dice qualcosa, dell’oggi. Un libro obbligatorio.

 

                                  di Andrea Felis

 

1968. Südtirol in Bewegung

di Birgit Eschgfäller

 

Bolzano, Raetia Verlag, 2018, pp. 408

Ogni tanto si verifica una interessante biforcazione, oppositiva, una forbice insomma, fra periodo politico-culturale in cui si è immersi, e produzione culturale in senso proprio: con improvvisi picchi di qualità, sullo sfondo di un orizzonte immobile, stagnante, senza profilo. Se vi siete riconosciuti nella descrizione di contesto, ecco allora la qualità: un libro davvero intrigante e fresco, che tratta un tema del tutto inattuale: la rivolta giovanile del 1968. E per crescere in inattualità, con una avvertenza: stiamo parlando del 1968 in provincia di Bolzano, perlopiù nel mondo di lingua tedesca.

Il bel 1968.Südtirol in Bewegung di Birgit Eschgfäller è un testo controcorrente, sia per contenuto che per stile: solo apparentemente utilizza l’espediente del libro d’occasione, legato alla ricorrenza fatale (ahinoi, i 50 anni tondi tondi!) di un anniversario di un evento/periodo che ha trasformato il mondo, ci piaccia o no. Ma lo stile è invece analitico, descrittivo, anche pedantesco in senso positivo se con tale attributo si intende una acribia nei riferimenti di date, luoghi, temi, protagonisti. Il corredo fotografico è pertinente e, soprattutto per il lettore di lingua italiana, davvero ricco di sorprese: manca sul versante della pubblicistica italofona un esito analogo, e l’assenza pesa. Anche perché – e questo è forse il limite della bella e ricca ricerca della giovane autrice (nata nel 1986) – sarebbe interessante comparare la rappresentazione, e la documentazione, che proviene dall’altra parte della luna sudtirolese, con quella che qui si scopre.

Cosa emerge, dunque, di interessante? In primis, che alcuni nomi e protagonisti, per un certo periodo, hanno provato (non è detto vi siano riusciti) a muoversi su due mondi, linguistici, tradizionali, culturali. Anche la sinistra, nelle sue sfumature – come disse con brillante battuta il geniale Silvius Magnago – dal Dunkel Lagrein al Rosè, era infatti partecipe di una separazione socio-culturale che forse oggi è più sfumata, ma che nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso pesava assai di più. I gruppi di giovani dissidenti – forse l’aggettivo più calzante, per rappresentarli – del mondo di lingua tedesca che raccolsero gli stimoli che giravano qui e là dall’Europa o dagli Stati Uniti, rimanevano pur sempre confinati dentro un sistema di riferimenti di una parte di questa società, e l’altra o non la conoscevano abbastanza, oppure – per converso – la mitizzavano, ancora senza averne piena coscienza. Al più, i due mondi appaiono a volte vicini, più nelle foto che nei testi, guardandosi con curiosità, e rispetto: ma erano forse giovani che si incontravano guardando entrambi da un'altra parte, seguendo modelli diversi, “alternativi” – termine abusatissimo, ai temi. In effetti, mai guardandosi davvero in faccia.

Ed ecco quindi alcuni aspetti che tornano: il peso nel mondo giovanile di lingua tedesca della Südtiroler Hochschulerschaft, autentica fucina di formazione della futura classe dirigente, cui si permette, a fatica, di assumere anche il ruolo del ragazzo/a ribelle, nel passaggio dall’adolescenza alla maggiore età. E dove un Alois Durnwalder, in versione capelluta (ma non troppo) appare ridanciano a quasi timido di fronte all’obiettivo, insieme a giovani dal ciuffo più ribelle, ma appartenenti alla stessa Koinè, con lo stesso background: Vizentinum o Franziskaner, poi università – Innsbruck, o Vienna, o Padova; qualcuno Firenze, Napoli, Roma.

Di classe operaia sudtirolese, appena un ombra: e spesso legata a realtà associative di solidarismo cattolico (KVW) o sindacale; una minoranza, con scelta di campo nel mondo operaio di lingua italiana, sindacalizzato e/o comunista; pertanto, straniata, espulsa. La cronistoria si concentra sulle sorti poi del Südtiroler Kulturzentrum (SKZ), con la carismatica guida di Irmtraud Mair, generosissima e instancabile rpotagonista di una ribellione femminile, poi femminista, politica, con una rarissima capacità di fuggire le trappole del facile estremismo degli anni.

Ma la ricerca non varca quella soglia, leggendo la bella storia del SKZ quasi in forma paradigmatica, cosa forse non verosimile: la messa a disposizione di archivi privati ha virato soprattutto su Merano la sigla di una esperienza politico-culturale “approdata” poi nei tentativi generosi e forse non molto riusciti della Neue Linke, e poi degli ipotetici eredi. Rimane fuori tutto il resto, e lo si legge anche nella carenza dei profili biografici di tanti protagonisti, presenti solo di sfuggita. Il libro non sfugge neppure esso ad allinearsi a quella variegata produzione agiografica “ai danni” di Alexander Langer, un po’ ossessivamente riprodotto quasi fosse un primum immobile della storia della policromica vicenda delle sinistre locali: senza nulla togliere all’intelligenza o alla validità del progetto langeriano – che ebbe passaggi e appartenenze ideologiche quanto mai complesse, all’epoca, almeno fino al 1977 – la ricostruzione poteva forse dedicare una parte ad un elenco biografico ragionato di tanti altri protagonisti: Silvano Bassetti appare solo di sfuggita, della complessa vicenda di Josef Perkmann, intellettuale e poi quadro politico-sindacale comunista in dissenso critico, solo un accenno; di altri, quali l’intensa e tragica storia dell’intelligentissimo e sfortunato Peter Lusa, nemmeno un passaggio; anche del Norbert C.Kaser, che abbiamo tanto amato nel suo rivelarci un volto struggente e sofferto di questa nostra meravigliosa terra sudtirolese, come solo i veri poeti sanno fare, molto sfugge; di Mur, di Pörnbacher, di tanti altri che si schierarono fuori da questo schema, manca praticamente tutto.

Anche delle storie dei tanti ragazzi e ragazze che negli anni Settanta si incontravano fra politica e sentimento, fra manifestazioni e feste (il Foro Boario, le attività a Silandro, aperte e accoglienti). Non è esistita solo Lotta Continua, anche se andava forse meglio seguita la sua utopia quasi paradossale, che portava canzonieri e volantini certo a Sarentino, ma anche in Pusteria, Venosta; a Ortisei. Un po’ debole anche lo spazio dedicato all’intreccio, qui da noi ricchissimo e fecondo, fra arte, impegno civile e rivolta giovanile: e giovava avvicinarsi proprio alla vicenda ladina, con la sua macchina festosa del collettivo di pittori-scultori che fino al 1979/80 partivano a dare man forte – pittorica – alle manifestazioni giovanili, Monopolio compreso. Interessante è invece ritrovare, a firma di personaggi poi molto noti in contesti del tutto diversi, articoli molto impegnati, nel caldo dei vent’anni: chi non è stato socialista o comunista, diceva Billy Wilder, a quell’età…Altri tempi, altri volti. Nel 1970, a Bolzano, la SH aveva come ospite Max Horkheimer, ohibò…

 

                                  di Andrea Felis

 

Massimo Cianetti

Es: la vita ha gli occhi azzurri
 

Bolzano, Latmag, 2018, pp. 380

In questa nuova opera, Es: la vita ha gli occhi azzurri, forse opus magnum di Massimo Cianetti, scrittore e giornalista di origini toscane, vissuto quasi sempre a Milano ma di recente in Alto Adige, troviamo alcune caratteristiche stilistiche che si legano molto bene al roman-fleuve, che però non annoia, nel senso che anche la “ripresa” della narrazione intensifica la tensione precedente, approfondisce e rimemora la vicenda con una scrittura semplice ma mai semplicistica (questo è invece l'errore di molta scrittura di oggi), senza mai perdersi in quelle descrizioni e considerazioni a latere, che per esempio rendono a tratti “noioso” Proust nella Recherche du temps perdu, dove si ha il confronto tra visioni del mondo/Weltanschauungen diverse, legate anche ma non solo al conflitto generazionale.

Il tutto espresso con uno stile che alterna efficacemente discorso diretto e indiretto, paratassi e ipotassi, dove la varietas non è mai una ricerca di un formalismo sperimentalista (o post-sperimentalista, per dir meglio) fine a se stesso, ma produce appunto ciò che possiamo definire il confronto dialettico. Presenze “inquietanti” e “perturbanti” come Nostradamus (ossia Michel de Nostredame o Miquel de Nostradama), e Gustavo Adolfo Rol, due personaggi di epoche ben diverse (rispettivamente 1500 e 1900) non sono le sole, almeno per una certa “consuetudine borghese”: si parla anche di massoneria, che pure qui si concilia, in alcuni personaggi con la fede cattolica, teoricamente la seconda interdice o quanto meno sconsiglia l'affiliazione alla prima...

Ma la creatività latina e italiana riesce tranquillamente a conciliare orientamenti apparentemente diversi (dico “latina”, dato che nel mondo latino-americano erano cattolici e al tempo stesso osservanti nonché “rivoluzionari”): Augusto Cesar Sandino, eroe anti-imperialista del Nicaragua e Salvador Allende, il grande presidente socialista del Cile scalzato con un vile golpe da Augusto Pinochet, “telecomandato” dalla CIA, paradossalmente anch’egli massone ma ben presto espulso per negligenza, mancato pagamento delle quote associative e altro ancora.

Il romanzo di Cianetti ha tanti altri snodi: il rapporto vita-morte, la tematica della malattia, l'Eros, sempre legato al Thanatos, il conflitto generazionale che si manifesta anche in diverse concezioni non solo della vita, ma del denaro, della famiglia, dell’ubi consistam che si esprime anche in un radicamento territoriale, della “patria” che si trova “ubi bene” ... e molto altro ancora. Per chi ama lo “happy end” tradizionalmente inteso, il romanzo non sarà un motivo di conforto, ma (si spera) di riflessione proprio su ciò che sia e voglia dire “happy end”. Es (il riferimento a Freud non è celato, ma chiaramente espresso nel retro di copertina) è anche un vero e proprio anti-Bildungsroman, ossia un antiromanzo di formazione: contro le certezze della “saggezza” e del “saper vivere” (??), il personaggio del figlio che chiaramente simboleggia il futuro di una maniera di vivere e di concepire la vita e il mondo, sceglie la deterritorializzazione assoluta, quella che la concezione cristiana-borghese considera “immoralità”, perde l'ubi consistam nella ricerca frenetica del sesso e della droga e non si adatta a seguire la “saggezza” paterna, pur se faticosamente conseguita dall'esponente della generazione matura...

In controtendenza con i “livres du coeur” non è che in Es manchino i “buoni sentimenti” o siano carenti. Vengono messi in discussione. Non indulgendo alla creduloneria e alla superstizione di stampa magico-occultistico. Cianetti non lacera la schisi che però mantiene i due piani della realtà e del sogno, ma indubbiamente colloca un bel punto interrogativo accanto all'esposizione in breve delle convinzioni di tipo “esoterico”o pseudoesoterico citate sopra, affermando un probabilmente “sacrosanto” Ignoramus et ignorabimus. Torna in mente Emil Du Bois-Reymond, fisiologo e pensatore positivista del 1800...

Certo che questo è il testo nel quale Cianetti sviluppa al meglio la sua scrittura narrativa; e sia detto senza ascriverlo totalmente al fantastico italiano che ha in Dino Buzzati il suo hapax, in quanto c'è comunque uno “scarto” critico rispetto ai sogni premonitori, rispetto al “nescimus, sed scimus” che la figura del padre-patriarca (Napoleone di nome, non a caso....) sembra voler preconizzare-annunciare-profetizzare; diremo meglio che è un “fantastico post-modern” nel quale le certezze sono crollate...

 

                                 di Eugen Galasso

 

Il sistema di accoglienza in Italia. Esperienze, resistenze, segregazione

A cura di Gennaro Avallone

 

Con contributi di Yasmine Accardo, Ex-Opg Je So’ pazzo, Rocco Agostino, Vanna D’Ambrosio, Karima Sahbani, Adelina Galdo, Salvatore Casale, ASD Atletico Brigante, Daouda Niang, Pierre Dimitri Meka, Alagie Jinkang, Gennaro Avallone

Nocera Inferiore (SA), Orthotes, 2018, pp. 218

In un momento storico che vede la politica incapace di offrire mediazioni efficaci e letture organizzate della complessità, uno dei fenomeni strutturali a questo paesaggio contemporaneo - le migrazioni - viene amplificato in modo strumentale tanto alla polarizzazione della realtà sociale quanto a una sua semplificazione, funzionale a sua volta alle strategie di distrazione.

In occasione della presentazione pubblica della rete per l’accoglienza a Bolzano “ALI” (Accoglienza Legalità Integrazione) a dicembre 2018 presso Museion Passage, Vanna D’Ambrosio si è fatta portavoce attraverso una delle esperienze sul campo raccolte in volume: migrazioni e accoglienza sarebbero state trasformate secondo gli autori in un affare economico e politico... Trafficanti, mondo delle imprese, politici, una parte dei gestori dei centri di accoglienza, alimenterebbero i propri affari sulla pelle delle persone migranti, le quali, trattate come merce di scambio (tanto economico quanto ideologico), diverrebbero, scomparendo, mero oggetto. Tematizzando il sistema di accoglienza delle persone richiedenti asilo e rifugiate, il libro è scritto dall’interno del sistema stesso, con l’obiettivo di metterne in evidenza limiti, forme di segregazione e resistenze in movimento. Con la consapevolezza della necessità di superare questo modello, nel nome della giustizia sociale e della partecipazione, contro le politiche razziste e xenofobe che si stanno imponendo in Italia e nel resto d’Europa, a scrivere, spiegare e far comprendere cosa accade sono persone che hanno vissuto nel sistema di accoglienza, mediatori e mediatrici linguistico-culturali, attiviste ed attivisti, lavoratori e lavoratrici del settore, avvocati, ricercatori

La prospettiva adottata è esplicitata nell’introduzione da Gennaro Avallone, evidenziando il limite strutturale dell’accoglienza che crea una categoria di eccezionalità, rivolta a persone speciali da “ospitare”, alieni con diritti ridotti, eccezionalismo che si estende alle politiche emergenziali, create per contenere anziché includere, allontanare piuttosto che avvicinare. Nel contributo di Yasmine Accardo che rileva l’importanza della memoria dei fatti, si affronta la “malaccoglienza” con testimonianze raccolte attraverso il monitoraggio a partire dall’emergenza Nord Africa. L’Ex-Opg Je So’ pazzo riporta l’esperienza di un rovesciamento del controllo rivolto alle istituzioni, affinché garantissero i diritti delle persone, innescando un circolo virtuoso tra attività di supporto (sanitario, legale, formativo) e gli stranieri. Rocco Agostino affronta in casi concreti il sistema normativo tra lacune, inattuazione e discrezionalità. Adelina Galdo descrive limiti e opportunità del sistema Sprar. Vanna D’Ambrosio pone al centro il concetto di umanità in tre movimenti (chi è, come si perde, dove si perde), partendo dalle accidental communities come luoghi di rinnovamento sociale: “non persone” per l’imperialismo, “non cittadini” per il razzismo, “non umani” per il capitalismo. Karima Sahbani illustra il ruolo dei mediatori linguistico-culturali. Salvatore Casale si addentra in esperienze di vita tra lavoro e diritto. Con ASD Atletico Brigante il racconto in prima persona di un intervento territoriale dai campi di calcio alle rivendicazioni politiche e sociali. Con Daouda Niang, Pierre Dimitri Meka, Alagie Jinkang, un ulteriore cambio di prospettiva dalle motivazioni ai racconti di viaggio, la vita nel paese d’arrivo, geografia dei movimenti migratori tra guerre e violenze, ostilità contro i migranti e possibile cambiamento dalla voce degli sfruttati. Forse proprio da questa prospettiva, dal basso, del fare, la politica può ritrovare mappe per un’umanità rinnovata.

 

                                    di Nazario Zambaldi

 

Ominiteismo e demopraxia.
Manifesto per una rigenerazione della società

Michelangelo Pistoletto

 

Milano, Chiarelettere, 2017, pp. 104.

 

Ad autunno 2018 il maestro dell’Arte Povera in visita a Bolzano ha presentato presso il Centro culturale Trevi il libro-manifesto edito a ottobre 2017, riprendendone essenzialmente le motivazioni: “siamo giunti a un traguardo della storia e ora dobbiamo compiere il passaggio necessario al proseguire di questa nostra civiltà. A Cittadellarte è nato un simbolo che indica la via verso il cambiamento della società. È il disegno del triplo cerchio. Esso rappresenta il Terzo Paradiso, ovvero il Terzo Tempo dell'umanità. L'arte ha animato ogni passo della vicenda umana con la forza della creazione che le è propria. In questo frangente epocale essa traccia le prospettive del nuovo percorso, ne avvia il cammino e ne assume, anche praticamente, la guida. Il cambiamento inizia da due aspetti fondamentali, la religione e la politica. L'Ominiteismo pone sia le persone sia le istituzioni religiose di fronte a se stesse per un giudizio che non arriva dall'alto, ma mette ciascuno e tutti direttamente davanti alle proprie responsabilità. La responsabilità diviene così la prassi che regola e unisce tutte le parti della società. La Demopraxia sostituisce il termine 'potere', dal greco kràtos (da cui deriva democrazia), con il termine 'pratica', dal greco pràxis (da cui demopraxia), per arrivare con la demo-pratica là dove non si è potuti arrivare con l'imposizione del demo-potere. Questo manifesto si conclude con le indicazioni indispensabili per realizzare demopraticamente quello che è stato il sogno della Democrazia” (Michelangelo Pistoletto).

Nel testo, scanditi in capitoli che traducono l’immaginario artistico dell’autore - lo specchio (davanti e dietro di noi), il simbolo del Terzo Paradiso, la mela morsa reintegrata - i principi che orientano le “demopratiche” vanno configurandosi. Il compito dell’arte oltre religione e politica è riaprire uno spazio edenico come “Ominiteismo”: capacità elaborativa della mente umana, autonomia della coscienza spirituale al di là dei mono- poli- o pan- teismi.

Questo laboratorio di cambiamento responsabile della società collocato alla fine del “secondo paradiso”, quello artificiale, apertosi fisicamente con la comunicazione tra i vari ambiti del sapere nella Cittadellarte, fondata a Biella in un complesso industriale tessile abbandonato, prosegue nei forum, uno dei quali in corso a Roma al MACRO, in precedenza a Cuba e in altre sedi, attivati dalle ambasciate e dagli ambasciatori del Terzo Paradiso sparse e sparsi qua e là, raccogliendo dal basso le energie delle comunità sul territorio in tavoli di confronto e progettazione. In questo percorso “dalla predazione alla domesticità”, dal profitto alla sostenibilità, il traghettatore è l’Homo artisticus che può condurci - integrando la natura del primo e l’artificio del secondo - nel Terzo Paradiso.

Apparentemente utopico - o atopico - il disegno di questo manifesto che possiamo dire politico in un senso che subito precisiamo, risulta al contrario come promesso dal titolo una guida pratica, orientata al fare, in questo senso una politica del fare che coincide con l’agire dell’arte. Il simbolo del “terzo paradiso” secondo un movimento “triamico” (ovvero che segue la dinamica del numero tre) in cui il segno dell’infinito forma un terzo ovale più grande al centro, se nei due più piccoli associa “IO” e “TU”, nell’ovale più grande trova “NOI”. Questa visualizzazione sviluppa il rapporto con il mondo in cui ci specchiamo, coerentemente con il lavoro sugli specchi che hanno reso famoso il maestro: la nostra presenza tra essi si proietta all’infinito, fonda un dialogo e pure un “trialogo” che è la realtà sociale, politica, che viviamo.

 

                              di Nazario Zambaldi

 

Ecologia del diritto
Scienza, politica, beni comuni

di Fritjof Capra, Ugo Mattei

 

San Sepolcro (AR9, Aboca Edizioni, 2017, pp. 256.

 

Fritjof Capra e Ugo Mattei sostengono che le crisi ambientali, economiche e sociali del nostro tempo derivino da un sistema giuridico basato su una concezione del mondo obsoleta. Capra, intellettuale di fama internazionale, fisico e teorico dei sistemi, e Mattei, eminente studioso del diritto, spiegano come il diritto possa divenire parte integrante dello sforzo di miglioramento del mondo, anziché strumento di accelerazione della sua distruzione. Il libro ripercorre da un punto di vista inedito la storia parallela del diritto e della scienza dall’antichità ai tempi moderni e mostra come le due discipline si siano sempre influenzate a vicenda.

Negli ultimi decenni, la scienza ha cambiato prospettiva e non considera più il mondo come una specie di macchina cosmica, comprensibile in ogni suo dettaglio, bensì come un sistema, una vasta rete di comunità fluide, di cui studia le interazioni dinamiche. Il concetto di ecologia esprime e descrive questa impostazione. Il diritto in vigore resta invece intrappolato nel vecchio paradigma meccanicistico: il mondo come un insieme di parti separate, cui corrisponde un diritto individuale, tutelato dallo Stato.

Gli autori delineano concetti e strutture di un ordinamento giuridico coerente con i principi ecologici che organizzano la vita sul pianeta. Ne consegue una revisione profonda dei fondamenti stessi del sistema giuridico occidentale, una rivoluzione copernicana del diritto. Alla parola ecologia associamo immediatamente la difesa dell’ambiente, collegando a questo concetto pratiche e politiche cui via via nell’ultimo mezzo secolo - e in modo più significativo nell’ultimo quarto - i paesi industrializzati hanno attribuito valore in un orizzonte che minaccia la sopravvivenza del pianeta. In questa prospettiva sorretta da narrazioni eco-sostenibili e prese di posizione dichiaratamente responsabili, accordi sanciti da firmatari internazionali contengono obiettivi che prevedono “riduzioni” di vario tipo, i cui risultati paiono spesso alibi entro un modello generale invariato, facile bersaglio dell’attuale clima negazionista che dagli Stati Uniti al Brasile all’Europa si va diffondendo.

Un cambio di paradigma invece è quello proposto da Capra e Mattei, che utilizzano il termine ecologia sullo sfondo di un approccio sistemico sviluppatosi a partire da autori come Gregory Bateson o, in Cile, Maturana e Varela. In questo solco l’ormai classico “Tao della fisica” di Capra disegnava una scienza - quindi un pensiero - che attraversasse e connettesse i vari ambiti del sapere, facendo emergere il concetto chiave comune a questi autori: la rete.

Il focus quindi sul diritto che norma la vita umana intende fornire basi operative a partire dal superamento del pensiero cartesiano e degli esiti del pensiero occidentale basati sulla separazione tra mente e vita. Questa operazione viene scandita con precisione nei capitoli del volume con una panoramica storica su diritto e giurisprudenza, individuando in macchina e capitale i modelli di questa separazione, proponendo il passaggio dalla macchina alla rete e dal capitale ai beni comuni.

L’eco-diritto è un programma politico fatto di pratiche tra cui si cita l’esperienza del Teatro Valle di Roma, un programma in cui il diritto stesso diviene “bene comune”. Ciò entro una visione e un piano di azione per le comunità in cui ad esempio “la proprietà non sarà tutelata, se esercitata in funzione di fini antisociali”.

 

                              di Nazario Zambaldi

 

Vittorio Giardino

Jonas Fink.
Una vita sospesa
Il libraio di Praga

Milano, Rizzoli, 2018, pp. 333

Ancora una straordinaria novità da quella fantastica linea di confine espressiva posta sotto il nome “graphic novel”: dopo aver salutato la meraviglia costituita dalla rinascita del diario di Anne (Frank), da poco in libreria un altro prodotto davvero memorabile, in un certo senso un oggetto “storico”. Si tratta del compimento di un’opera iniziata circa 25 anni fa, ed ora conclusa con l’ultimo capitolo, che dà unitarietà all’intera storia. Un autore di cui la cultura italiana dovrebbe essere orgogliosa, capace di coniugare, come i grandi maestri di cui è legittimo erede, notevoli capacità narrative, e impressionanti doti grafiche: stiamo parlando di Vittorio Giardino, maestro noto a livello internazionale da più di trent’anni, ma forse non ancora adeguatamente celebrato come meriterebbe dalla pubblicistica italiana, e non solo specialistica.

Certamente, con questo (capo)lavoro, Jonas Fink. Una vita sospesa - Il libraio di Praga, Giardino entra nel novero degli autori che sono partiti dalla “semplice arte del fumetto” (per parafrasare Chandler, che parlava però del delitto!), e sono approdati a qualcosa di diverso, di più misterioso, enigmatico, un pastiche formidabile, prodotto in anni di bulimia dell’immagine, in cui proprio all’immagine, alla figurazione, viene affidato – per capovolgimento dialettico, si sarebbe detto un tempo - un compito diverso da quello di rendere “più facile”, o più comprensibile, la fruizione del testo: partendo da un segno all’apparenza così solare, sintetico – la fatidica “ligne claire” franco-belga, nata negli anni Trenta del secolo scorso dall’inchiostro di Hergè, papà di Tin Tin - il Nostro, ingegnere civile che ha abbandonato il lavoro tecnico-scientifico per dedicarsi interamente alle tavole ed alla libera espressione artistica, ha costruito nel tempo una lenta ed inarrestabile macchina narrativa in cui il segno si fonde con la parola scritta, dilatando i significati ed uscendo – sempre! – dai margini della rappresentazione, solo visiva o solo scritta. E si autoproduce, magicamente, una terza forma narrativa, in cui i personaggi, le azioni, le storie, si muovono con impressionante, precisa, allusiva, realtà. Finzione, naturalmente: ma vera, pregnante, capace di produrre emozioni forti, addirittura spaesanti per chi si è sempre abbeverato alle forme classiche del fumetto, o della narrazione scritta.

Un libro che ha tutti i caratteri per essere già un classico, nel senso alto e nobile del termine: una lettura efficacissima dei meccanismi del potere oppressivo, dell’autoritarismo osceno travestito da “diritto del Popolo”, dei sistemi repressivi messi in atto nella quotidianità, e dei modi per sfuggirli. Nella Praga dell’orrendo comunismo di Stato versione boema, in cui convivono misteriosamente i frammenti di un mondo andato in pezzi, prima ad opera dei nazisti, poi degli stalinisti, scorre la palpitante e fragile esistenza di una famiglia ebrea, di appartenenza intellettuale, colta; e quindi doppiamente colpevole, agli occhi dei regimi che si sono succeduti. Sopravvissuta alla Shoah, la famiglia Fink, col piccolo Jonas dallo sguardo attonito e ferito, va lentamente in pezzi, quasi con dolcezza, inesorabilmente schiacciata dalla macchina totalitaria - con buona pace delle nuove anime belle della storiografia contemporanea che mettono in discussione la validità dell’aggettivo “totalitario”, di conio arendtiano – descritta con mirabile partecipazione nitore analitico.

Qualcuno potrebbe parlare di “postmodernismo” narrativo, composto com’è di frammenti, residui preziosi di un passato impossibile da restituire, frammenti di racconto visivo e scritto più veri del vero, finzione di spietata verosimiglianza: ma sembra di vedere qualcosa di diverso in questa narrazione di Giardino, una sensibilità da ultimo uomo del Novecento, il secolo sotto cieli d’acciaio, che contempla, partecipe, il cumulo di rovine che è andato crescendo alle nostre spalle. Cosa rimane di questo, delle dolorose battaglie per un pezzo di libertà, di dignità umana: con l’ormai appesantito Jonas dagli occhi cerulei, sulle rive della Moldava, anche noi ci posiamo, in abiti non nostri, in un paesaggio che non ci appartiene più: e guardiamo forse nel vuoto, forse lontano, a inseguire amori dissolti per forza, per sempre; a cercare una libertà che, ancora, si nega, in forme diverse.

 

                              di Andrea Felis

 

Il fiore di Anne, sboccia ancora?

Una riflessione (in)attuale

 

La sorte di alcuni libri appare qualche volta segnata: che si tratti del tempo trascorso, o dell’inclemente succedersi delle stagioni storiche e culturali, fatto sta che alcuni titoli paiono irrimediabilmente compromessi. Fuori i nomi, si diceva una volta: eccoli.

Con buona pace di maestri e devoti, la lettura de I promessi sposi rimane confinata nel limbo, ad uso di élite volenterose o di pensionati in cerca di una madeleine, di una rêverie; Verga, I Malavoglia: un esame di coscienza per chi ne afferma l’immortale attualità, insieme magari a Mastro don Gesualdo… E non si tratta tanto, o soprattutto, di un uso eccessivo, di uno sfruttamento fino all’osso dell’opera in questione. Ma di un uso improprio, di cui, nei tempi passati, uno dei principali artefici – o carnefice involontaria – era l’istituzione scolastica.

Come si sa, il pensiero è strutturalmente anarchico: se lo si costringe entro una gabbia, anche la più dorata, inevitabilmente cerca la via di fuga. Quello delle ragazze e dei ragazzi “in età scolare”, come si dice in pedagoghese burocratico, lo è cento volte di più, oscillante tra furia di cambiamento caotico e desiderante, e desiderio opposto e complementare di ordine, come insegnava il dottor Freud in Berggasse 19 a Vienna, un secolo fa. Che la scuola abbia mantenuto questo ascendente, nell’epoca della distrazione annichilente di massa, è dubbio, quasi una speranza: vorrebbe dire che un residuo di resistenza culturale, anche come corpo calloso e ostinato, permane. Ma la liquidità evanescente dei saperi, il tourbillon perlopiù irritante e inutile della disinformazione a cascata, rendono difficile credere a tale pervicacia di un nucleo solido di culture, come sostrato collettivo. Eppure qualche segnale, come perle dagli abissi, ogni tanto riluce.

Tutti probabilmente ricordiamo la recente soglia della pornografia web rappresentata dalla diffusione della fotografia di una patetica matrona romagnola in maglietta nera, in visita pellegrina a Predappio sulla tomba di un tiranno che distrusse una nazione, con la scritta “Auschwitzland”, nei caratteri inequivocabili disneyani: e ancora prima la riproduzione del viso che più di ogni altro ha incarnato la triste, immane e meccanica ferocia del campo di annientamento polacco, quello della eternamente giovanissima Anne Frank, usata in uno stadio a celebrare l’idiozia umana volontaria, assoluta, totale, accompagnata da una intento penosamente “divertente” in forma di adesivo, allo scopo di insultare (sic!) la tifoseria avversa. Il viso di una ragazzina intelligente, inquieta, semplice nella sua naturale – ed ora eterna – immaturità di adolescente, torna ora potentemente nei disegni e nelle parole di un libro travolgente, Anne Frank, Diario, che un uso ingenuo ma corrosivo di tipo scolastico aveva relegato nelle cantine delle antiche e consunte memorie scolastiche, quelle non sempre gradevoli condite di richiami, verifiche destrutturanti, disarticolazioni di senso (i test!).."

Ari Folman e David Polonsky – il primo scrittore e regista, il secondo illustratore, già complici nel 2008 nel lungometraggio Valzer con Bashir coronato dall’Oscar – riconsegnano un testo straordinario, fresco, spiazzante per limpidezza e ferocia analitica, tenero e terribile come sa essere un adolescente, restituito in toto alla sua originalità, alla sua inclassificabilità. Andrebbero poste delle avvertenze: non vi è nulla di “infantile”, e va usato con precauzione, nella sua implacabile, terribile, ilare verità.

 

                                    di Andrea Felis

 

Lilli Gruber

Inganno
Tre ragazzi, il Sudtirolo in fiamme e i segreti della Guerra Fredda

 

Milano, Rizzoli, 2018, pp. 432

Tre ragazzi, il Sudtirolo in fiamme e i segreti della Guerra Fredda, recita il sottotitolo. Infatti, in quanti sanno che cos’era veramente accaduto a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta in Alto Adige nel periodo in cui questo territorio era stato scosso parecchie volte dalle esplosioni di bombe? Che ne sanno oggi i giovani della cosiddetta “Notte dei Fuochi” dell’11 giugno 1961?

Lilli Gruber, nota giornalista a livello nazionale per essere stata la prima a condurre un telegiornale di prima serata e attualmente per condurre la trasmissione Otto e mezzo su La7, ha scritto un nuovo volume riguardo la storia locale nel Novecento (di cui sono già usciti Eredità e Tempesta), essendo lei stessa originaria di questa terra: Inganno. A differenza dei primi due, Inganno è un volume in cui realtà e finzione si mischiano in un racconto al quanto singolare, nel senso che la parte narrativa racconta nel solito stile, secco e molto cinematografico, cioè ricco di immagini suggerite, di tre ragazzi che vissero la loro giovinezza, spensierata e ardente di passione amorosa e politica, proprio in quegli anni. La parte saggistica, invece, si compone di esiti di ricerche condotte in vari archivi di stato, delle forze dell’ordine (carabinieri e guardia di finanza) nonché nelle biblioteche di Bolzano, ma anche di interviste a persone direttamente coinvolte, dal generale Sulig alle figlie dei due più noti “terroristi” o “combattenti per la libertà” (a seconda del punto di vista venivano chiamati così), Georg Klotz e Luis Amplatz, dall’ex presidente della provincia Luis Durnwalder a Lidia Menapace, ex assessore provinciale ed ex senatrice in parlamento. Troppo giovane il primo per poter davvero testimoniare, mentre la seconda porta in primo piano le sempre attuali divergenze di convivenza tra i gruppi linguistici.

Un altro aspetto di cui, forse, si era poco parlato finora, Lilli Gruber ce lo espone in modo molto chiaro in entrambe le parti: di come il fervore di coloro che lottavano per mantenere la propria identità culturale fossero stati “usati” dai poteri molto più grandi, interessati a tutt’altro. Gli Usa temettero l’avanzata dell’allora Urss, e quindi dei comunisti, per cui andava assolutamente rafforzato il confine del Brennero e molto benvenuti erano i vari Klotz e Amplatz che seminarono bombe e zizzania nella terra attinente. L’Italia si considerò “salva” per la vittoria della Democrazia Cristiana, ma la crescita del Partito Comunista fu una spina nel fianco degli alleati per cui andava controllato, quel confine. Come? Creando, anzi facendo installare armi nucleari in tutta l’Italia del Nord, tra cui in un sito all’inizio della Val Pusteria (Sito Rigel), e aumentando la presenza militare in zona… Il tutto era giustificato dai continui attentati che dagli iniziali attacchi ai tralicci di alta tensione passarono poi a stragi anche di civili, bombe piazzate in stazioni e treni.

Parallelamente c’erano state le varie riunioni tra Austria e Italia, la presentazione della questione sudtirolese all’Onu e l’elaborazione di uno statuto per l’autonomia dalla Commissione dei diciannove sotto il governo Moro. Altri coinvolti erano i diversi gruppi di estrema destra in Germania, Austria e Francia, tant’è che si può affermare, senza tanto deviare dalla reale situazione storica e dalla sua successiva evoluzione, che l’Alto Adige fu il banco di prova per la strategia della tensione attivata dai servizi segreti internazionali in collaborazione con le diverse formazioni di estrema destra. Sarà un caso che poco tempo dopo l’entrata in vigore del cosiddetto Pacchetto che decretava l’avvio a una amministrazione autonoma della provincia di Bolzano esplose la bomba a Milano in Piazza Fontana nella Banca Nazionale dell’agricoltura? Siamo nel dicembre 1969, e “qui ha inizio un’altra storia”, dice la frase finale di questo libro che a nostro avviso dovrebbe diventare una lettura obbligata nelle scuole, oggi.

 

                            di Elfi Reiter

 

Simona Vinci

PARLA, MIA PAURA

 

Torino, Einaudi, 2017, pp. 126

Un libro intimo e coraggioso che racconta una malattia e allo stesso tempo una condizione mentale ed emotiva, una malattia di cui si parla poco perché, lo sappiamo tutti, in questa società la prima vergogna è mostrarsi fragili, inetti, vulnerabili.

Parla, mia paura è una storia vera, quella dell’autrice, Simona Vinci, che per anni ha sofferto di attacchi di panico e depressione. Così ripercorre alcune tappe della sua vita, le paure che le hanno attraversate, le riflessioni nate intorno a queste paure, e tutte le parole (lette, ascoltate e scritte) che hanno aiutato a dar loro il giusto spazio. Quasi un saggio di “anatomia” della paura, analizzata nelle forme psichiche e fisiche che può assumere, come se fosse un vero e proprio corpo, od organo estraneo che cresce lentamente e inesorabilmente e per la quale la parola scritta agisce come il bisturi che consente di estirparla.

“Molti di quelli che hanno sofferto e soffrono di attacchi di ansia e di panico – si legge – ricordano perfettamente le circostanze nelle quali si è verificato il primo. Lo squarcio. Il taglio. La cesura. Il momento a partire dal quale tutto cambia e comincia lo stato più spaventoso: la paura della paura”. Ed è questo il sunto del libro, il flagello che regna nei sui dieci capitoli. Dieci istantanee che l’autrice ha deciso, con coraggio, di raccontare al mondo, forse per superare proprio quella paura di cui tanto parla. Con sguardo clinico, mai autoindulgente, la scrittrice seziona gli anni, i giorni, gli attimi che l’hanno portata giù, negli abissi della depressione, e poi i passi che ha percorso per risalire. Scava nell’intimità del suo corpo, in un percorso di ricerca dell’identità, ma anche nel suo passato e in memorie dolorose.

Non creda il lettore di trovare un atteggiamento consolatorio, niente affatto: quello della Vinci è uno sguardo severo, incapace di ogni ipocrisia e senza pretese assolutorie. Ci rivela per esempio quanto inutili siano i consigli ragionevoli, finché l’orizzonte di chi è depresso o ha un attacco d’ansia non torni ad aprirsi, ma anche quanto possa essere utile la semplice presenza di chi è capace di ascoltare senza giudicare, senza pretendere di minimizzare un malessere che, per chi lo prova, è realmente insormontabile.

Anche la maternità non viene edulcorata e Simona Vinci, con rara lucidità e sincerità, riesce a narrare quel groviglio di ansia e tenerezza, sensi di inadeguatezza e di colpa, cieco furioso attaccamento e altrettanto furioso desiderio di indipendenza, che diventare madri inesorabilmente comporta: “Intravidi il mio sguardo in uno specchio e notai quanto fosse diverso da prima. Era lo sguardo delle donne che hanno bambini ancora piccoli, uno sguardo differente da tutti gli altri. C’erano dentro stanchezza, orgoglio, pietà, calore, rabbia, distanza. Tutto mischiato. Era uno sguardo intoccabile, impermeabile, lo sguardo di colei che sa cosa significa essere mangiati vivi … Chi non ha figli conosce soltanto il peso della propria esistenza, non sa cosa voglia dire caricarsi addosso il peso intero della vita di qualcun altro. Non importa se si hanno sorelle e fratelli, madri o padri anziani a carico. È diverso. Perché loro non sono passati attraverso di te per nascere, possono essere tua responsabilità, certo, ma non li hai partoriti tu. Con un figlio, non cambia se ti sottrai, se ti distrai, nemmeno se abbandoni, quel fardello non potrai posarlo da nessuna parte. Non è una valigia. Non è un pacco. È un organo interno. Fa parte di te. Anche se non siete la stessa cosa.”

Sopraffina indagatrice della natura umana, con un linguaggio fatto di termini sapientemente scelti, duri e taglienti e per questo così intensi e coinvolgenti, Vinci racconta il suo male di vivere e, qualunque sia la nostra storia, possiamo ritrovare nelle sue pagine quella mattina in cui siamo rimasti a letto e credevamo non ci saremmo più alzati; quella sera che abbiamo bevuto fino a dimenticare perché avevamo iniziato; quella volta che abbiamo lanciato il telecomando, un bicchiere, una ciabatta.

"Ogni giorno usciamo di casa e qualcosa di terribile potrebbe accaderci. Ogni giorno ci alziamo dal letto e sappiamo che potremmo morire. L'unico potere che abbiamo è tentare di vivere al meglio il presente senza farci annientare dal terrore del futuro. L'unico potere che abbiamo è continuare a cercare lo sguardo degli sconosciuti senza vedere in loro dei nemici, ma sperando di trovare degli amici. L'unico potere che abbiamo è fidarci della nostra immaginazione e cercare di guidarla verso pensieri positivi, anche quando stiamo attraversando una selva oscura: il buio può parlare e non è detto che le sue siano soltanto parole dolorose."

Parla, mia paura è un libro utile, che racconta la paura senza giudicarla, definendola non come un male da combattere, ma come una parte di noi da accogliere e accudire. Una lettera ai lettori, di una franchezza disarmante, una finestra aperta su un mondo interiore ricchissimo e complesso, tanto da lasciare senza fiato e che merita senz’altro di essere letta.

 

                                    di Alessandra Sorsoli

 

Educazione e Libertà

Atti del convegno di Castel Bolognese (22 ottobre 2017)
a cura di Andrea Papi

 

Ragusa, La Fiaccola, 2018.

Da sempre il movimento libertario propone non solo e non tanto “scuole” (dove già l'espressione è connotata in modo radicalmente diverso, vista l'origine carolingia, dunque imperiale della schola) ma forme di educazione (in cui il termine riguarda anche quello di “istruzione”) alternativa, “altra” rispetto alle forme di educazione-istruzione classica. Tali forme di educazione sono, come insegna e documenta il pedagogista e storia della pedagogia, Francesco Codello, principi di educazione libertaria. Sono presenti da sempre nella storia, culminando nell'esperienza tolstojana di Jasnaja Poljana e in quella di Summerhill di Alexander Neill, che sussiste tuttora.

Come rileva dal canto suo il coordinatore del convegno Educazione e Libertà da cui questo libro nasce, Andrea Papi, saggista per anni attivo quale educatore e artista nell'Asilo Nido di Forlì, “Apprendere fa parte del patrimonio genetico con cui nasciamo ed è uno strumento formidabile di affinamento costante della relazione con l'altro da sé, il mondo con cui entriamo in rapporto” (p. 14). Aggiunge inoltre: “"Non ha perciò senso supporre di insegnare ad apprendere. Avviene già naturalmente […]. Semmai, dal momento che per farlo al meglio c'è bisogno di una condizione di libertà per potersi manifestare e muovere, si potrà favorire e aiutare affinché ci sia effettivamente, sapendo che limitazioni e condizionamenti imposti sono anche limitazioni dell'apprendimento” (ibidem).

A questo punto il problema del “come” educare-insegnare rimane, certo volutamente, aperto. Replica in maniera non peregrina (tutt'altro) Raffaele Mantegazza, docente di scienze umane e pedagogiche presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell'Università di Milano Bicocca: “L'educazione è tutta intrisa di società: di questa società. E in un contesto sociale caratterizzato dal potere, l'educazione è una relazione di potere” (p. 28), tanto che “aprire una comune per ragazzi, iscrivere i propri figli a una scuola libertaria, è un atto asimmetrico, presuppone una scelta sulla nostra società […] non contrattata con i bambini e i ragazzi; diciamolo fino in fondo: una scelta imposta” (p. 30).

Fatti salvi i principi sanciti attualmente dalla Costituzione, che garantiscono a “enti e privati” il diritto di “istituire scuole e istituti di educazione” (art.33), ma nel contempo prevedono Esami di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole e per la conclusione di essi e “per l'abilitazione all'esercizio professionale” (ibidem). Si tratta, in altri termini, della continua spinta-morsa verso l'utopia (Otto Ruehle, volendo, ma in tutti i pensatori variamente definibili come “libertari”) e la realtà che, bene o male, contempla limitazioni e determinazioni precise, che regolano la vita sociale: un dilemma cui, francamente, appare difficile sottrarsi, specialmente in un contesto sociale che, lo si voglia o meno, risulta essere sempre più complesso.

 

                                     di Eugen Galasso

 

Marco Boato

Il lungo '68 in Italia e nel mondo. Cosa è stato, cosa resta

 

Brescia, La scuola, 2018, pp. 350.

 

Non è un titolo scelto a caso quello che l'autore dà al saggio in questione, ma indica una ben precisa periodizzazione: l'anno 1968 fu l’anno cruciale di una fase lunga che nasce prima e finisce dopo e che va dai primi anni Sessanta alla fine dei Settanta. Il bilancio per Boato è positivo e l’eredità storica del 68, nonostante errori ideologici, contraddizioni politiche, ingenuità e slanci utopici, resta fondamentale soprattutto per alcuni mutamenti di costume e istituzionali che hanno trasformato la società italiana.

Il lungo 68 osserva e comprende in un orizzonte più ampio vicende e persone del passato (da padre Camillo Torres a Mao Tse Tung…). Boato non dà nulla per scontato. Spiega, ragiona e interpreta, in quella che egli stesso ha definito una “ricostruzione storico-critica del 68”. In queste pagine vibra ancora, non spenta, la fiamma della convinzione e anche della passione, peraltro mai abbandonata dall'autore anche nella sua attività politica contemporanea.

La realtà del 68 italiano è indagata nei prodromi delle lotte sociali e delle inquietudini intellettuali dei primi anni sessanta, nelle ragioni legate ai cicli economici del dopoguerra, nelle ventate di ribellione che venivano dalle generazioni beat americane e dalle lotte di liberazione nel terzo mondo, fino alle innovazioni profonde che si agitavano anche nel dissenso cattolico post-conciliare. Inoltre la mappa del 68 tocca paesi dall’Africa all’Asia, dalla Germania agli Stati Uniti, dalla Francia (il maggio francese) alla Turchia, alla Spagna, ai paesi dell'Europa orientale, al Brasile, al Messico, alla Cina della rivoluzione culturale ecc.

Nel libro di Boato le ricostruzioni e le argomentazioni sono articolate con precisione e rigore, supportate da un apparato di note e riferimenti bibliografici documentatissimi. Un capitolo ad esempio ricostruisce un aspetto che potrebbe sembrare “obsoleto” o marginale: “I partiti della sinistra e il movimento del 68”. Si racconta la complessa dialettica di posizioni assunte via via dai partiti della sinistra storica verso le lotte del 68, e la ragione è evidente: nel movimento il difficile rapporto coi partiti, e soprattutto col Pci, era un tema cruciale. Altrettanto accurato è il capitolo su un altro tema poco visitato, ma importante per comprendere certi meccanismi che portarono alla formazione di una nuova “élite sessantottina”, e cioè il passaggio dai cosiddetti “organismi rappresentativi”, i parlamentini delle vecchie rappresentanze più o meno partitiche degli universitari, al movimento di massa, che partiva dal basso e rifiutava le precedenti sigle.

Nella seconda parte del libro l'autore si scioglie verso una narrazione più memorialistica, misurata ed attenta. Non senza indulgere ad un ricordo cui si dimostra particolarmente affezionato e che rivela, già dieci anni dopo il 68, il suo atteggiamento antiretorico: si tratta di una “poesia nel decennale” intitolata Il 68 è morto: viva il 68! scritta nel gennaio del 78 per il settimanale diocesano “Vita Trentina” e che diede il titolo anche all'omonimo volume edito da Bertani. Boato ricorda altri incontri di profondo interesse con poeti e intellettuali tra cui Pasolini, Herbert Marcuse, Carlos Franqui, Mauro Rostagno, Renato Curcio.

Il secondo capitolo di questa seconda parte raccoglie le più frequenti domande che oggi e negli anni passati le generazioni più giovani hanno posto a Boato in dibattiti e assemblee; e le sue risposte, un po’ da studioso e da prof e un po’ da protagonista e militante, che ancor oggi dà o cerca di dare, in primo luogo a se stesso. Inevitabile quella se ci sarà un nuovo 68, originale quella se Papa Francesco è un “sessantottino”. Alla domanda se il terrorismo possa considerarsi una conseguenza diretta del 68la risposta dell’autore è particolarmente netta: dall'analisi delle diverse formazioni clandestine in campo, degli atti di violenza armata compiuti e delle diverse fasi, l'autore esclude che la violenza terroristica nasca dal 68 e afferma che il terrorismo fu la tomba dei movimenti collettivi del 68.
 

                                    di Carlo Bertorelle

 

Commedia in versi
da restituire a Niccolò Machiavelli
Edizione critica secondo il ms. Banco Rari 29

a cura di Pasquale Stoppelli

 

Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2018, pp. 105.

 

Tra il 1796 e il 1799 Giambattista Pasquali, lo stampatore delle commedie di Carlo Goldoni, pubblica le opere di Nicolò Machiavelli e nel settimo tomo include un testo anepigrafo da lui denominato Commedia in versi senza titolo. Pur tra non pochi dubbi sollevati in ambito accademico, tale attribuzione regge fino a quando nel 1892 Pio Ferrieri, sostenuto da due manoscritti della Medicea Laurenziana, individua l’autore in Lorenzo Strozzi. E tale rimane fino all’odierno e decisivo intervento di Pasquale Stoppelli che ripropone il testo conteso rivisitandolo con gli strumenti della filologia più rigorosa e sostenuta da un ricco apparato di note esplicative.

L’indagine filologica chiarisce i dubbi circa la paternità di questa commedia in endecasillabi e settenari che racconta di due mariti frustrati. Catillo è sessualmente imponente solo con la propria moglie della quale è innamorato l’amico Camillo a sua volta pure lui insoddisfatto della propria consorte. Scatta il meccanismo comico proprio della drammaturgia rinascimentale alimentata dal gioco degli equivoci e degli inganni, fino allo scioglimento finale con il sorprendente accordo della scambio delle mogli tra i due amici.

Stoppelli dimostra che la grafia, certe espressioni linguistiche, nonché temi e concetti appartengono al repertorio espressivo, intellettuale e creativo di Machiavelli. Non pochi passaggi e sfumature testuali si ritrovano soprattutto nella Mandragola di poco successiva alla Commedia in versi, la cui stesura è circoscritta al periodo 1512-1513 mentre la sua rappresentazione avviene con ogni probabilità nel 1518 a Palazzo Medici di Firenze in occasione delle nozze di Lorenzo il Magnifico con Madeleine de la Tour d’Auvergne.

Perché l’autore della commedia fu allora riconosciuto nel mediocre Strozzi e non nel talentuoso Machiavelli? L’ambizioso Strozzi, figlio di una ricca e influente famiglia cittadina, smanioso di entrare nella cerchia dei letterati fiorentini, approfitta della condizione di isolamento politico e di difficoltà economiche dell’amico Niccolò, in quel momento ex cancelliere allontanato da Firenze. Perciò gli chiede e ottiene una copia manoscritta della Commedia in versi prontamente ricopiato apportando modifiche all’originale. “Successivamente – spiega Stoppelli – lavorano insieme su quella trascrizione. Machiavelli rivede il lavoro di Strozzi, ritocca le didascalie, fornisce il prologo, l’argomento e aggiunge una scena all’inizio dell’atto quinto”. In questo modo il testo diventa il copione per il citato debutto.

Questa vicenda tanto controversa quanto significativa è contestualizzata da Stoppelli nella cornice del coevo teatro fiorentino, animato da autori di primo piano ma anche da modesti e ambiziosi di successo che all’occorrenza ricorrono a mezzi non propriamente nobili pur di strappare un ruolo di riguardo nella aulica corte medicea. Anche questo è un aspetto non trascurabile, anche se scomodo, utile per indagare i rapporti tra potere, cultura e strategie per conquistare una certa (moderna) visibilità come ha dimostrato lo stesso “machiavellico” Lorenzo Strozzi.

 

                                         di Massimo Bertoldi

 

 

Marco Tutino

Il mestiere dell’aria che vibra
Una visita guidata nei segreti della musica e dell’opera lirica

 

Firenze, Ponte alle Grazie, 2017, pp. 256.

«La musica non è un oggetto, accade (…) Si manifesta, sempre diversa, veste il tempo di un suono, oppure torna in un luogo immanente e invisibile. In mano, tangibile, solo una partitura, piena di segni che non sono che piccole tracce misteriose che dovrebbero consentire agli interpreti, vocali e orchestrali, di far vibrare l’aria» (M.T)

Per tutti gli appassionati di opera, come per gli spettatori occasionali, per i teatranti di ogni ordine e grado, ma anche per chi della scena ha solo un vago sentore, Il mestiere dell’aria che vibra è un libro curioso appassionante, in cui l’autore, ripercorrendo la propria biografia che lo ha portato a essere uno dei più acuti e sensibili compositori della lirica contemporanea, e rendendo al contempo omaggio ai “mestieri della scena”, accompagna in un viaggio incantevole attraverso i multiformi sentieri della composizione e dell’evoluzione musicale e culturale di un’epoca e di un Paese.

Lo stile narrativo limpido e ironico, ammiccante ma mai autocelebrativo, rispecchia il profondo amore per il proprio lavoro e per il proprio linguaggio espressivo e conquista il lettore sin dalle prime pagine, permettendogli di insinuarsi nelle pieghe artistiche e umane del processo creativo, dei suoi meccanismi intuitivi, dell’elaborazione sensibile di una materia, di quegli scarti interiori che portano la ratio a dialogare con una regione più fonda, più nascosta, più sottile, che alberga nel nucleo pulsante dell’artista e lo fa traduttore di una realtà universale cui il compositore dà forma e suono.

Tutino racconta e raccontando crea davanti ai nostri occhi uno scenario vivo e vitale, che chi conosce la sua musica non può non legare all’intensità del suo suono, all’assoluta teatralità delle sue composizioni – i cui libretti attingono a piene mani e con grande fedeltà dalla letteratura contemporanea e le donano una veste inedita, spesso spiazzante, sempre incredibilmente viva – capaci di rendere, nella trasposizione lirica, tutto il corpo drammatico di capolavori come La Ciociara o Miseria e Nobiltà (un’emozione assoluta, quest’ultimo, per tutti gli appassionati di teatro, un tributo a Scarpetta e al grande Eduardo come se ne vedono pochi), così come l’incanto fiabesco di un Pinocchio, un Gatto con gli Stivali o di un Peter Pan nel “dialogo concertante” Peter Uncino (con una strepitosa Milva nella parte di Capitan Uncino), il verismo intenso e tragico de La Lupa, o ancora la purezza drammaturgica di un Cirano.

Ponendosi in una franca relazione dialettica col lettore, l’autore parte dagli esordi, non facili, e dal confronto con quell’urgenza che lo ha portato a definirsi, assieme ad un nutrito gruppo di altri giovani colleghi con cui poi ha condiviso il proprio manifesto culturale, “neoromantico”, orientandosi verso un tipo di composizione musicale che potesse recuperare i valori del grande passato operistico inglobando allo stesso tempo i multiformi linguaggi (e metalinguaggi) del presente con la loro ricchezza espressiva e vitale, in contrapposizione a una temperie culturale e artistica – quella degli anni Ottanta – che tendeva a criticare aspramente e a rigettare la connotazione melodica per spingersi in territori decisamente più avanguardistici, elitari, spesso autoreferenziali. In lucida analisi retrospettiva, su cui a tratti sospende il giudizio, Tutino mette il suo silente interlocutore a confronto con il coraggio delle scelte – le sue, le molte, spesso sofferte – e con la necessità di rimanere fedele alla sua chiamata creativa (al suo “Angelo”, come il Maestro la definisce), traghettandolo con onestà e senza piaggerie attraverso il variegato mare delle sue battaglie e dei suoi trionfi.

Luca Ronconi, Gabriele Salvatores, Giorgio Gallione, Valter Malosti, Pierluigi Pizzi, Gabriele Lavia, Leo Muscato, Hugo De Ana, Damiano Michieletto, Giancarlo Cobelli, Francesca Zambello, Rosetta Cucchi tra i registi che hanno messo in scena le sue opere, acclamate e rappresentate in tutto il mondo. Il mestiere dell’aria che vibra è un tributo d’amore alla musica e al teatro, e a tutti coloro che ne fanno parte e che ne rendono possibile la magia, pur in un Paese – il nostro – dove la bellezza e la cultura devono spesso arduamente lottare per vedersi riconosciute, incoraggiate e sostenute.

 

                                       di Alessandra Limetti

 

Silvia Ferreri

La madre di Eva
 

Castel di Sangro (AQ), Neo Edizioni, 2017, pp. 200.

Tra i dodici libri in gara per il Premio Strega 2018, La madre di Eva è un romanzo lucidissimo e lancinante che, attraverso il complesso tema della disforia di genere, interroga e si interroga senza retorica, senza schieramenti, senza falsi moralismi sulla potenza inclusiva della maternità, e sulla continua ridefinizione interiore che il ruolo genitoriale comporta in relazione all’assoluta affermazione di soggettività dei propri figli.

Fuori da una sala operatoria, sola, una madre attende l’esito della lunga operazione chirurgica che sancirà la riassegnazione sessuale della figlia, Eva. Uno “s-membramento” che fa da sostrato al rimembrare, il ricostruire faticoso e doloroso dei tasselli di vita che hanno condotto sin lì: l’infanzia e poi l’adolescenza di Eva, la discrepanza feroce tra l’oggettività della propria realtà corporea femminile e il vissuto esperienziale psicologico, quella consapevolezza di sé che, per Eva, è da sempre maschile.

Nel flusso del pensiero che si delinea pagina dopo pagina, Ferreri incide – attraverso una scrittura scevra di orpelli, essenziale e spesso dura, adamantina – riflessioni che nascono da un crudo sentire, acrobazie su un filo di parole sospese sul vuoto dell’incomprensibile, tese su quel legame assoluto e primigenio il cui segreto sfugge alle definizioni, all’incasellamento, ai quadri statistici: la madre di Eva, pur nella definitezza del suo letterario delinearsi, diventa quasi archetipica, matrice dell’essere al mondo, metaforico grembo che accoglie anche il tormento di una sessuazione lacerante – e socialmente stigmatizzata – e si fa, nell’accoglienza, principio di rinnovata generazione.

La madre di Eva è dunque anche una riflessione in senso ontologico sulla generazione e sulla rigenerazione, o meglio, sulle molte ri-generazioni verso cui la dialettica tra il nostro profondo sé e il nostro sé socialmente dato ci sospinge più o meno incessantemente. Ri-generazione di una figlia che si traduce ora in figlio attraverso una nuova nascita cruenta, strumentale, una maternità chirurgica che, una volta partoritolo, lo rigetterà al suo destino senza ulteriore cura; e ri-generazione di una madre che si ritrova a fare i conti non solo col passato, col suo carico di scelte giuste e sbagliate – su cui, comunque, l’autrice sospende neutralmente il giudizio –, ma anche con un vuoto rappresentativo riguardo al futuro: come sarà, che aspetto avrà, poi, questa nuova figlia-ora figlio, con cui trovare una nuova simmetria familiare e nuovi contorni sociali?

Entrano in questo gioco di ridefinizione il sentimento di essere stata la colpevole portatrice di una ontogenesi sbagliata, imperfetta, e il ripetuto confondersi, smarrirsi rispetto al proprio progetto genitoriale, rispetto al complesso sistema delle aspettative sociali, rispetto a una prefigurazione già data, già nota, consolante nella sua quasi-prevedibilità. E, invece, quello con cui fare i conti non è solo la presa in carico della diversità, ma dell’assoluta alterità del sentito, del percepito. È il cercare, disperatamente, di mettersi in una pelle aliena, quella di Eva e della sua radicale scelta, del suo grande salto nel vuoto. Un salto che nessun genitore potrebbe stare a guardare senza provare sgomento, ma anche senza compartirne il dolore. Davanti a un figlio che soffre non si può fare un passo indietro. È così che la madre di Eva sceglie. Sceglie di accettare la realtà e di farsi cura e contenimento dell’angoscia, accompagnamento nell’elaborazione del lutto per quella prima corporeità tanto detestata, per quel femminile prima rigettato e ora sepolto. E sceglie di essere di nuovo matrice attraverso la ri-nominazione del vissuto, pronunciando per prima, dopo l’operazione, la parola che evoca un differente venire alla luce. Un nome – Alessandro – da cui partire per rinnovare il legame d’amore attraverso una maternità e una filiazione inedite.

 

                                   di Alessandra Limetti

Paolo Caponi

Otello in camicia nera
Shakespeare, la censura e la regia nel Ventennio fascista

 

Roma, Bulzoni, 2018, pp. 134.

 

Come nelle scatole cinesi, Paolo Caponi posiziona alla fine del suo intrigante libro l’argomento anticipato nel titolo, Otello in camicia nera per dimostrare che “Shakespeare diventa terreno di incontro e scontro di una nuova concezione del teatro: è grazie a Shakespeare che si conosce, anche in Italia, un’applicazione pratica dei nuovi principi” della regia.

Si inizia con l’analisi della censura fascista verso i libri accusati di offendere le forze armate, lo Stato, il regime, la monarchia, secondo il modello assunto dal nazismo. La repressione culmina con l’istituzione della Commissione per la Bonifica Libraria (1938) che bersaglia soprattutto gli scrittori ebrei. Ma l’azione epurativa non è né semplice né lineare come si capisce osservando il campo teatrale. Nel lavoro del competente prefetto Leopoldo Zurlo, che in tredici anni esamina ben 18.000 copioni, scattano contraddizioni grandi e piccole prodotte dalla Storia.

Per esempio la reazione alle sanzioni economiche a danno dell’Italia per la condotta della campagna d’Etiopia impone nel 1935 alle compagnie teatrali il divieto di rappresentare testi di autore francese e inglese ad eccezione di Shaw per aver manifestato apprezzamenti (poi smentiti) verso il regime fascista e di Shakespeare in quanto considerato un “classico”.

La questione si complica con il moro Otello nel momento in cui sulla scia dell’ondata razzista che significa espulsione dei “mori” dal palcoscenico, il censore Zurlo interviene con drastici divieti tra i quali spicca la ripresa della Regina Pomaré di Ugo Falena e di Rino Alessi e Gutlibi di Gioacchino Forzano, scrittore molto legato a Mussolini. Shakespeare – spiega Caponi – è assimilato allo spettacolo italiano tramite la mediazione di Giuseppe Verdi. Il suo Otello trionfò a La Scala nel 1887 e diventò patrimonio popolare durante il Fascismo. Tuttavia negli anni Trenta il repertorio del Bardo trasferito sul palcoscenico è soggetto a cambiamenti: vicino alle manipolazioni testuali orchestrate dai cosiddetti Grandi Attori o Mattatori di tradizione, avanza una attenta e rigorosa revisione filologica intorno alla quale matura il teatro di regia che, pur in ritardo rispetto alle coeve realtà europee e accompagnato da un aspro dibattito, produce in Italia i primi esperimenti.

Uno di questi è condotto da Pietro Sharoff, regista russo ma italiano di adozione e autore di un celebre allestimento di un Otello nel cortile di Palazzo Ducale di Venezia (1933) che diventa scenografia “naturale” dello stesso intreccio narrativo. Ma l’elemento innovativo più importante è il mutamento dell’attore: non più l’istrionismo del Mattatore ma il ruolo aderente alle pieghe del testo secondo il principio di immedesimazione teorizzato da Stanislavskij e introdotto in Italia dallo stesso Sharoff. “Sapevano tutte le parti a memoria, essendo stato soppresso qualsiasi ausilio del suggeritore”, scrive Giacinto Matteucci per “L’Arte Drammatica”.

Questo Otello realizzato secondo i dettami della regia è proposto al pubblico dell’Eliseo di Roma e qualche mese dopo al teatro Argentina il Moro veneziano è assunto da Mario Ricci, regista e protagonista che incarna “l’antico modello dell’attore che clama, che canta, che incede, che trascende, rinsaldando la catena di una tradizione quanto mai nobile e forte, mediterranea e nazionale”, commenta Mario Ramperti per la rivista “Scenario”.

In questo confronto a distanza tra i due Otello si muovono le due anime del coevo teatro italiano sospeso tra conservazione della centralità del Grande Attore e apertura al teatro di regia che significa innovazione e adeguamento alla cultura europea. E questo crea un certo turbamento e una inquietante confusione di identità che il libro di Caponi inquadra con illuminante maestria.

 

                                        di Massimo Bertoldi

Viola Papetti

Manganelli legge Shakespeare

 

Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2018, pp. 81

Gli scritti shakesperiani di Giorgio Manganelli risalgono al periodo 1948-1956 e sono interventi sparsi presenti nei cinque quaderni degli Appunti critici custoditi nel Centro Manoscritti dell’Università di Pavia. Il merito di Viola Papetti è di aver ordinato e valorizzato questo inedito e prezioso materiale letterario, posizionandolo nel percorso intellettuale dello scrittore milanese.

Come Manganelli legge Shakespeare? Innanzitutto si dissocia dalla “umanità dei caratteri” e dei valori morali e metafisici presenti nei grandi personaggi tragici come erano stati inquadrati da Mario Praz nella celebre volume Letteratura inglese. Nel brevissimo monologo dedicato ad Amleto e pubblicato dalla Papetti il re di Danimarca è un guerriero solo, isterico, sconfitto, che pare incarnare la ragione di Stato del principe machiavelliano e la concezione della tragedia propria del romanticismo tedesco. In un passo Amleto manganelliano dice di sé: “Ma io stesso ero vile – non agitato da scrupoli, non inqueto per amori e odi meno che vili; la mia viltà inquinava la pura vena di quella malignità, e, infine, fu più forte di me”.

Il parametro analitico assunto dallo scrittore per inquadrare i personaggi del Bardo, annota la Papetti, è la consapevolezza “della natura promiscua e labile delle passioni, della loro indicibilità” che determina in loro “la tragicità di cartapesta, la furia sessuale infantile, l’assenza di misura”. Così Macbeth vive un precario equilibrio tra “le pure forze della religione della tribù – santi e demoni – e una sua condizione di anarchia, istintiva e inconsapevole”.

Nel 1964, anno dell’Hilarotragoedia, Manganelli si occupa di Romeo e Giulietta forse pensando ad una traduzione. L’attenzione è rivolta alla “qualità erotico-tragica del linguaggio, non dei personaggi”. In polemica con le versioni teatrali concentrate sulla rappresentazione di quel “frigido delirio di cuori dolenti e anime itifalliche” Manganelli interpreta le anime shakesperiane “attive, violentissime costanti linguistiche, e dunque ambigue, instabili e contraddittore”. In merito abbondano gli esempi offerti dalle altre tragedie analizzate quali Timon of Athens, Cymbeline, Henry VIII, Coriolanus, Titus Andronicus.

La figura di Amleto ritorna nel racconto visionario Un amore impossibile compreso nella raccolta Agli dèi ulteriori (1972). Il concitato scambio epistolare con la principessa di Cléves precipita rapidamente nel nulla. Dalle tenebre Amleto scrive questo: “Questa è una regione caliginosa, dove ascolto il ticchettio di infiniti orologi. C’è della carne, ma non vedo corpi. Sto accoccolato sulle soglie di un mare ignobile e volgare, mi stringo addosso i miei vestiti ormai bizzarri, non muoio, non morirò. La mia principessa! Dove sono perduti i nostri sarcofaghi?” Sembra una citazione di Hamletmachine di Heiner Müller.

Chiude il cerchio shakesperiano la riscrittura di Othello con il titolo provocatorio Cassio governa Cipro per la Biennale Teatro di Venezia del 1974. Si tratta di un’opera di straordinaria rottura. Otello diventa servo della perversa Desdemona, Jago incarna il criminale e l’indagatore del suo stesso gesto delittuoso di cui tutto sono complici.

In definitiva Manganelli legge Shakespare in modo assai originale e libero da interpretazioni canoniche tanto da arrivare a produrre visioni spregiudicate ma fondate e questo nobilita lo stesso scrittore unitamente alla ricchezza dell’universo di Shakespeare e, non da ultimo, alle competenze interpretative e metodologiche della stessa Papetti.

                                      di Massimo Bertoldi

 

Sonia Bellavia

Vienna e la Duse
(1892-1909)
 

Bari, Edizioni di Pagina, 2017, pp. 213.

Nel 1891 Hermann Bahr assiste a San Pietroburgo a un’esibizione di Eleonora Duse impegnata ne La moglie di Claudio di Dumas figlio. Ne rimane folgorato e scriverà: “È qualcosa che trascende il potere della parola”. L’incontro tra l’attrice e lo scrittore austriaco risulterà decisivo per la fortuna di entrambi. Da questo assunto si muove lo studio di Sonia Bellavia che ricostruisce e analizza i rapporti tra Vienna e la Duse (1892-1909) con rigorosa precisione storica nell’assunzione delle fonti e dei documenti d’epoca. Quello che emerge, oltre alla profondità dell’arte drammatica dusiana, è un suggestivo affresco del mondo teatrale viennese inquadrato nel vivo di una stagione irripetibile per qualità artistica e intensità creativa.

Nella capitale danubiana la Duse debutta al Carlstheater nel febbraio 1892 con la compagnia condivisa con Flavio Andò. Presenta i suoi cavalli di battaglia, dalla Signora delle Camelie di Dumas a Fedra di Sardou e Casa di bambola di Ibsen. Bahr racconta che “fece un effetto irresistibile” per l’eleganza gestuale e la declamazione realistica; per Hugo Wittmann colpisce soprattutto “l’interiorità della recitazione, che consentiva lo sguardo, nei momenti importanti, verso la grandezza e in tutte le profondità dell’animo umano”.

La consacrazione è posticipata di qualche mese. Al ciclo di spettacoli primaverili assiste Hofmannsthal, secondo il quale la Duse non recita il testo, bensì ciò che sta “in mezzo al testo”, non pronuncia semplicemente la parola, disegna con la voce “tutto l’evento psico-fisiologico che precede il formarsi della parola”.

Bellavia segue come un’ombra gli spostamenti dusiani: ripercorre le recite trionfali al Neues Deutsches Theater di Praga, il ritorno a Vienna con Cavalleria rusticana di Verga, la tournée al Lessingtheater di Berlino dove si fa applaudire anche nella goldoniana Locandiera. Uno spettatore d’eccezione come Hauptmann ricorderà la Duse come “la più grande impressione d’attrice” in circolazione. Con le recite del biennio 1893-1894 la Divina conquista le due capitali dello spettacolo tedesco in accesa rivalità, la “vecchia” Vienna amante della fantasmagoria di eredità barocca e la “nuova” metropoli berlinese. Ma lo stile asciutto, la voce sibilante e i movimenti essenziali del repertorio dell’attrice italiana alimentano maggiormente l’immaginario austriaco. Nel 1895 al Theater in der Wien colleziona altri trionfi con Casa paterna di Sudermann.

Nel nuovo secolo l’estro artistico della Duse è interpretato alla luce delle esplorazioni freudiane della psiche. Lo stesso Bahr, autore di fondamentali scritti e articoli a lei dedicati, recepisce la sua recitazione come “qualcosa di più forte di quanto un gesto o una parola potessero mai esprimere, […] qualcosa che agiva di per sé” simile alla trance ipnotica. Tuttavia gli spettacoli ottengono valutazioni critiche contraddittorie: scatenano entusiasmi La Gioconda di D’annunzio in scena al Burgtheater mentre, nel 1902, Francesca da Rimini risulta un fallimento controbilanciato dal successo de La città morta. Si tratta di un declino che accelera nel periodo 1904-1909 tanto che quando ritorna a Vienna nel 1923 trova una accoglienza a lei sconosciuta, tra freddezza e indifferenza. In mezzo c’era stata la Grande guerra.

Vienna e la Duse è un libro luminoso che appassiona il lettore perché la scrittura adottata dalla Bellavia, limpida e di certosina precisione, estende la ricostruzione storica dal teatro alle altre coeve manifestazioni culturali in un intreccio che sembra esso stesso un vincente e intrigante copione teatrale.

                                            di Massimo Bertoldi

 

Sandro Ottoni

Halb ländlich
Bozen 1966.
Eine Kindheit im »Semirurali«-Viertel

 

Aus dem Italienischen von Dominikus Andergassen

Merano, edizioni alphabeta verlag, 2018, pp. 170.

Del loro Land i lettori sudtirolesi sanno moltissimo. Storia, tradizioni, abitudini, personaggi e tipi umani; e poi paesaggio, colori, masi, castelli, palazzotti, città (o meglio i centri storici delle città): tutto questo è stato raccontato, illustrato, recitato, messo in scena mille volte. Esiste insomma una vasta produzione intellettuale in lingua tedesca dedicata al Land Südtirol, sia che gli autori vogliano celebrarlo, sia che cerchino la resa dei conti con la loro Heimat.

Ciò di cui i lettori sudtirolesi sanno poco o niente è invece quel mondo tutto italiano, che la traduzione del libro di cui parliamo definisce halb ländlich: le Semirurali di Bolzano appunto, raccontate da Sandro Ottoni in Un anno alle Semirurali, pubblicato nel 2006 da Fernandel. Bene fa quindi edizioni alphabeta verlag, per iniziativa di Aldo Mazza, a proporne una versione in tedesco. Dobbiamo pur conoscere le narrazioni dell'altro se vogliamo comprenderlo e conviverci; e siccome non siamo tutti bilingui, sono da salutare con favore questa e altre traduzioni promosse dall'editore: testi di autori locali italiani in tedesco e testi di autori locali tedeschi in italiano.

Il traduttore Dominikus Andergassen ha fatto un ottimo lavoro, risolvendo con intelligenza e creatività le difficoltà dovute all'uso frequente di espressioni dialettali e invenzioni linguistiche. Le prime, nella maggior parte dei casi, le ha mantenute spiegandole con brevi incisi; i giochi e le storpiature linguistiche le ha reinventate, come nel caso di “esclogitare” che diventa “auskundforschen”. Per il resto, la scorrevolezza del testo lo ha agevolato, perché Sandro Ottoni, ovvero Giacomo Chiodi, il bambino di dieci anni che a partire dal suo cortile scopre il mondo, ha azzeccato tutto in questo racconto. Il ritmo, il tono, le espressioni, le domande che il protagonista si pone e le risposte che si dà: a volte ingenue, a volte niente affatto infantili, a volte allegre e in certi passaggi autenticamente commoventi.

Siamo nel 1966: epoca lontana e passata, che ha lasciato poche tracce nel tessuto urbano e nell'immaginario collettivo. Le Semirurali e la Bolzano di allora non esistono più e probabilmente neppure i giovani altoatesini sanno molto di quegli anni, in larga parte rimossi anche dai loro genitori. Ciò rende questo anno di avventure e scoperte ancor più prezioso per il pubblico di entrambe le lingue che ancora prende in mano un libro e legge. Se alla comunità sudtirolese si può rimproverare di aver fatto in questi decenni del Südtirol l'ombelico del mondo, alla comunità altoatesina si può rimproverare l'opposto, e cioè di avere snobbato l'Alto Adige. In quest'opera Sandro Ottoni, per il resto autore anche di racconti fantascientifici, non lo ha fatto e anzi attraverso gli occhi e i pensieri del suo alter ego, ha guardato molto a fondo la realtà nella quale si è per così dire trovato catapultato.

Sono quadri molto ben tratteggiati quelli che l'autore dipinge con le sue parole. Ci portano nel mondo visto da un bambino di dieci anni del quale finiamo per immaginarci tutto, anche quello che l'autore non gli fa dire: e ciò è garanzia che il personaggio è davvero riuscito. Bello sarebbe reincontrarlo, Giacomo Chiodi, e sentire cosa ha da raccontare da adulto.

                                        di Lucio Giudiceandrea

Giorgio Manzi

Ultime notizie sull'evoluzione umana

 

Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 242

La lunga vicenda dell’umanità, in tempi come questi in cui si torna a dubitare di condividere con gli altri bipedi della nostra specie la cruda realtà dell’uguaglianza animale (già: siamo tutti animali della stessa specie, dalla Brianza al Polo nord, che si migri o si sia stanziali), è sempre una interessante questione. Di questo tratta un interessante libro, Ultime notizie sull'evoluzione umana di Giorgio Manzi che ha vinto il Premio del Fondo Autonomo Linceo "Alfonso Susca" per il miglior libro sulla diffusione della Scienza 2018. L’autore è una firma molto nota ed importante. Docente universitario a Roma, è forse il paleoantropologo più famoso e scientificamente autorevole che abbiamo in Italia, riconosciuto anche a livello internazionale.

In effetti, il libro di Manzi rappresenta un felice esempio di un altrettanto solare momento di discontinuità storica che si sta miracolosamente verificando in campo letterario nel nostro Paese: e cioè il sopraggiungere di un nuovo canone di scrittura, innovativo, efficace, non ridondante che è quello della divulgazione scientifica di alto profilo. I libri, oggi, di Rovelli, di Pievani, di Barbujani, sono alcuni dei recenti successi editoriali, cui ora si aggiunge la prosa chiara e lineare del docente romano: un viaggio ordinato, nitidamente descritto, affascinante non per le suggestioni ma per la bellezza rigorosa del metodo scientifico di una disciplina che per propria natura è ibrida, multiforme; e mette spesso in discussione ogni passaggio precedente di sapere.

A parere di chi scrive, la raccolta di articoli qui riuniti da Manzi ha il suo gioiello nel capitolo intitolato “Orologi e molecole”, dove illustra le più recenti acquisizioni relative alla pluralità delle umanità (genere Homo) compresenti fra 90mila e 60 mila anni fa (Sapiens, Denisoviani, Neanderthal, forse Erectus). Se molta importante antropologia culturale ha saputo confrontarsi sul tema della (delle) identità alla luce dei mutamenti in atto nell’era digitale e globalizzata, la riflessione che la paleoantropologia può sviluppare sullo stesso tema appare doppiamente affascinante: la sua prospettiva temporale è infatti, per così dire, rovesciata.

Da un punto di vista di discorso ricostruttivo della storia dell’umanità, la disciplina è doppiamente complicata: non solo lo sguardo è posato sul passato più remoto, del quale mancano del tutto documenti o segni linguistici – anche poco comprensibili. Ma il passato remoto, riaffiorando di continuo nuove testimonianze materiali, oggetti e resti, diventa oggi più leggibile che mai in passato (prossimo); grazie alla impetuosa innovazione strumentale sperimentale degli ultimi 40 anni, si rileggono in modo radicalmente innovativo i risultati “assodati” delle precedenti ricerche, sottoponendo ad una ridiscussione serrata e metodica gli assunti della stessa disciplina, ponendo nuovi elementi conoscitivi (si pensi all’applicazione delle genetica alla paleoantropologia).

Non solo. Mentre le scienze antropologiche che posano gli occhi sul presente (che può essere anche quello di 500 anni fa) rispetto all’”umano” hanno categorie tutto sommato robuste, la paleoantropologia sottopone a discussione forte lo stesso assunto di “umano”, ponendo domande importanti sulla natura stessa della specie, che ha visto in epoche remote ma conosciute la compresenza di esseri (umani?) di specie diverse. Questo il motivo per cui molta retorica politica contemporanea, con gli occhi di questa scienza, appare davvero divertente: chi ricostruisce il lunghissimo e tortuoso viaggio delle umanità per il pianeta, dalla culla africana (dato geneticamente certo), sorride di fronte al linguaggio “stanzialista” (non “sovranista”…) oggi così à la page!

                                          di Andrea Felis

William Shakespeare

Re Lear

 

a cura di Alessandro Serpieri

con testo a fronte

Venezia, Marsilio, 2018, pp. 460.

Alessandro Serpieri (1935-2017) è considerato uno dei più insigni studiosi e traduttori dell’opera di Shakespeare. Il suo rigore filologico e linguistico unitamente all’interpretazione letteraria del testo nelle sue implicazioni storiche e culturali, emerge anche in questa magistrale edizione di Re Lear.

Si tratta del dramma del re di Bretagna che intende dividere il regno tra le tre figlie, Goneril, Regan e Cordelia la quale, a differenza delle sorelle, non manifesta pubblici elogi d’amore verso il padre e perciò viene diseredata mentre il conte Kent, che la difende, subisce l’esilio. Ottenuto il potere, Goneril e Regan cacciano Re Lear in quale, sull’orlo della follia, vaga nel mezzo di una terribile tempesta assistito dal fedele Kent e dal buffone di corte. Intanto Cordelia, sposatasi con il re di Francia, sbarca a Dover con l’esercito francese mossa dall’intento di salvare il padre. Ma i francesi sono sconfitti in battaglia: Cordelia sarà imprigionata e Re Lear morirà di dolore.

Abissi e intrighi di una grande tragedia sinfonica è il titolo dato da Serpieri alla sua illuminante introduzione del volume di Marsilio e quelle parole diventano la chiave di lettura per affrontare la complessità di questa tragedia scritta da Shakespeare tra il 1606 e il 1609 attingendo utili informazioni da diverse fonti dell’epoca, da un precedente dramma di anonimo del 1605 trattante lo stesso soggetto storico, The True Chronicle History of King Leir e dall’Arcadia di Philip Sidney (1590).

A differenza delle tre altre grande tragedie shakesperiane – Amleto, Otello, Macbeth – lo sviluppo narrativo di Re Lear non è impostato sulla centralità del percorso esistenziale dell’eroe principale. Il percorso tragico di Lear si consuma in un’orchestrazione di tensioni corali, dall’andamento di una partitura per l’appunto sinfonico. Il risultato è il racconto del crollo di una struttura sociale e simbolica in cui le tanti voci solitarie si incamminano “verso un chissà dove”, afferma lo stesso Serpieri che precisa: “Per Shakespeare, d’altronde, il mondo della storia, sia che si tratti di quella relativa all’antico mondo romano nelle varie crisi, […] sia che si concentri sui vari regni e le varie guerre nell’Inghilterra del Quattrocento, sia cha vada a comprendere la storia del suo Cinquecento e del primo Seicento […] era sempre un mondo in crisi”.

Pertanto la decisione di Re Lear di consegnare il regno alle due figlie desiderose di potere assurge a metafora del cammino verso il vuoto prossimo a diventare abisso intrapreso dall’uomo quando è depotenziato e ridimensionato nelle sue funzioni.

Per agevolare il lettore di fronte a questo dramma dalla trama complessa, difficile da seguire per l’intreccio e la sovrapposizione di più percorsi narrativi, Serpieri inserisce nella sua introduzione un prezioso riassunto accompagnato da interpretazioni per ognuno dei cinque atti della commedia.

Ricorda inoltre l’analisi di Sigmund Freud dedicata a Re Lear nel saggio Il motivo della scelta degli scrigni e ripercorre brevemente la fortuna storica del testo che nei Sei e Settecento, pur in misura inferiore rispetto ad Amleto e Otello, conosce non poche rappresentazioni teatrali. Considerato un capolavoro in età romantica da parte di Schlegel e di Coleridge, nel Novecento gode di grandi consensi come dimostrano la straordinaria interpretazione, cruda e crudele, conferita dalla regia di Peter Brook e le profonde riflessioni di Ian Cott nel celebre volume Shakespeare nostro contemporaneo, secondo il quale il testo sarebbe dominato al grottesco inteso come derisione e sconsacrazione dell’assoluto.

                                               Massimo Bertoldi

 

Fuori dal coro.
Eretici, irregolari, scorretti

di Giorgio Ballario

Massa, Eclettica edizioni, 2017, pp. 262

Quando si dice l’eterogenesi dei fini. Un libro che pretende di celebrare il “non conforme” (perifrasi che piace molto a molta bella gioventù di destra estrema), ed è espressione, in effetti perfetta, del tempo presente, del tutto conforme al pensiero – ed alla prassi – dominante in questo nostro momento storico.

Si sta parlando del libro del giornalista Giorgio Ballario del quotidiano “La Stampa” dal titolo Fuori dal coro. Eretici, irregolari, scorretti, pubblicato da Eclettica edizioni di Massa. Contestualizzando: la casa editrice è di Alessandro Amorese, editore proveniente dalla destra più o meno radicale, esponente di quel mondo culturale toscano radicale e battagliero che rivendica radici nel sovversivismo fascista degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Alcuni titoli al suo attivo: Fronte della gioventù. La destra che sognava la rivoluzione. La storia mai raccontata, (2013); FUAN. Prima parte: dai Guf al '68. Gli studenti nazionali tra piazze e atenei (2017).

Ballario sembra muoversi, nel suo testo, dentro lo stesso universo valoriale, forse più sfumato per riferimenti ideologici, o forse meno esplicito nel rivendicarli. Apparsi nel corso della effimera esistenza della rivista “Linea-quotidiano” (erede poco efficace dell’omonima testata rautiana, una sorta di “Manifesto” dell’estrema destra degli anni Settanta) fra il 2010 e il 2011, i pezzi di cui si compone il libro sono un collage davvero esemplare di una parte non banale del pensiero polit-cult contemporaneo, oggi egemonico, a livello popolare e dopo giugno anche politico. Qualcuno parla di un contesto “rossobruno”, di cui le direttrici sarebbero una sorta di congiunzione fra ribellismo arrabbiato, protonazionalismo popolare, istanze sociali e comunitaristiche di differente provenienza, mischiate dal collante “antisistema”: la lettura delle biografie “esemplari” di Ballario indica una sorta di breviario degli elementi costitutivi di questo stile, di questo “sentire” (postideologico, ma forse in procinto di trasformarsi in ideologia tout-court).

Girovagando fra le biografie più o meno storicamente dettagliate, spesso omissive o solo approssimative per difetto, di personaggi del secolo scorso (noti e notissimi: Brigitte, Bardot, Oswald Mosley, Steve McQueen, e via elencando; ma anche semisconosciuti, quali Roger Coudroy, Amedo Guillet, Ezio Vendrame) si possono ritrovare alcuni tratti comuni. Ma non il “cantare fuori dal coro”, o il fatto che “nessuno di loro […] è stato un ‘furbetto’, una carogna, un approfittatore, un leccaculo, un vigliacco”, come scrive con linguaggio ribaldo e compiaciuto l’autore nella Prefazione: ma perché si tratta – nella ricostruzione spesso forzata del giornalista, abile nel suo mestiere – di nemici, tutti, di quella che appare l’autentica bestia nera del Nostro, che ben rappresenta tanta parte del sentire dell’odierno umano consorzio italico (ben conforme). E cioè, nell’ordine: il “buonismo” e i “radical chic”. O anche “gauche caviar”, per ammiccare ad Oltralpe.

In sintesi: l’obiettivo è “Écrasez l’Infâme” quella che secondo l’autore, e la sua ampia digressione interpretativa forzando alcune biografie anche assai note – vedi per tutte Mosley, impresentabile fascista britannico fin maldestro nel suo passare da una parte all’altra dello schieramento politico britannico, e fallendo ogni obiettivo che si era proposto (tranne un ottimo matrimonio!) – è stata la malapianta della sinistra europea: riformista, non eroica, compromissoria, pragmatica. Addirittura Marcel Dèat, altro transfuga già dagli anni Trenta dal socialismo al nazional-socialismo francese, ministro a Vichy, merita una piccola lapide, in punta di penna: nonostante la poco eroica fuga e nascondimento piemontese in convento dopo la fine della guerra.

Fuori dal coro. Eretici, irregolari, scorretti è un libro curioso, che forse di questi tempi merita di essere letto: non per trovare elementi di correttezza storica, o per la capacità di ricostruire ambienti, atmosfere di epoche passate. Ma per capire il presente, il suo schema ideologico. La rabbia che modifica e trasforma la storia passata, la delusione e la ricerca di un colpevole, per avere ragione di un mondo che non è come ci piacerebbe fosse.

                                      di Andrea Felis

 

Come le maree
Il Salento incontra Alexander Langer

a cura di Roberto Molle

Poesie Storie Riflessioni
con un breve saggio di Mauro Bozzetti

Lecce, Giorgiani Editore, 2018, pp. 166

Manca ormai da 23 anni Alexander Langer (scomparso il 3 luglio del 1995), ma l'eco della sua opera e del suo pensiero non manca di diffondersi in tanti luoghi d'Italia, risvegliando anche in giovani generazioni attenzione e desiderio di conoscere di più. Conoscere di più del Langer portatore di speranza, uomo delle “utopie concrete”, capace di analisi ed intuizioni ricche di profezia in svariati campi dell'azione politica e morale.

Basti, per convincersene, un pensiero di Alex, tratto dallo scritto Non basta l'antirazzismo apparso sulla rivista «Nigrizia» nel maggio del 1989, quando il problema dei migranti cominciava appena ad affacciarsi: “Finché la nostra civiltà industrializzata e opulenta, consumistica e competitiva, imporrà a tutti i popoli la sua legge del profitto e dell'espansione, sarà inevitabile che gli squilibri da essa indotti sull'intero pianeta spingeranno milioni e miliardi di persone a cercare la loro fortuna – anzi la loro sopravvivenza - 'a casa nostra', dopo che abbiamo reso invivibile 'casa loro'. Perché meravigliarsi se in tanti seguono le loro materie prime e le loro ricchezze, che navi, aerei ed oleodotti dirottano dal loro mondo verso il nostro?”.

Questa pagina compare in epigrafe del volume Come le maree uscito da pochi mesi e che raccoglie poesie e pensieri dedicati a Langer da una ventina di autori del Salento e della provincia di Lecce, cui segue un saggio teorico sulla formazione culturale e sul contributo filosofico di Langer.

Non si tratta di citazioni commemorative. I testi sembrano proprio dialoghi diretti e riflessioni liriche (talvolta epiche) rivolti all'interlocutore scomparso e conosciuto in molti casi solo indirettamente tramite i suoi scritti, anche diversi anni dopo la morte. Sono lettere e biglietti che potremmo immaginare quasi scritti a mano, di tono elegiaco talvolta, ma anche di andamento narrativo come nel racconto in prosa di Cristina Pongiluppi che immagina la ricezione oggi della figura e dell'esempio di Langer da parte di un giovane studente liceale, in occasione di una conferenza tenuta nella scuola.

L'occasione di questo libro la racconta Roberto Molle, poeta e critico musicale, che scopre Langer attraverso la lettura de Il viaggiatore leggero e stimola amici poeti, scrittori e musicisti salentini ad elaborare storie e riflessioni su Alex e a svolgerle in un reading poetico-musicale. Nasce così l'evento Con un sogno di ragazzo nel cuore – un omaggio ad Alexander Langer presentato a Gemini (Lecce) il 17 giugno 2017 e replicato anche in seguito. Gli interventi che si erano succeduti sul palco formano la materia di Come le maree e ne mantengono la schiettezza e la forza, arricchiti poi da altri contributi. Tra questi il saggio del filosofo dell'università di Urbino Mauro Bozzetti che analizza alcune componenti del pensiero di Alexander Langer, e in particolare l'impronta religiosa, il rapporto tra potere e morale, fino alla “conversione ecologica”.

                                          Carlo Bertorelle

Il Teatro di Gigi Proietti nelle fotografie di Tommaso Le Pera

Prefazione di Antonio Calenda
Testi di Rita Sala, Duccio Trombadori, Tommaso Le Pera

Imola (BO), Manfredi Edizioni, 2018, pp. 263.

Questo corposo ed elegante volume è sostenuto dalla convergenza di due forze creative: da parte di Tomaso Le Pera l’arte di fissare con la macchina fotografica la poetica dell’attore nella sua varietà espressiva e nella gamma delle sue sfumature, da parte di Gigi Proietti la codificazione di un ampio repertorio mimico e gestuale.

È dal periodo delle esperienze dell’avanguardia teatrale romana di fine anni Sessanta raccolta nelle celebri “cantine” che si enuclea l’esperienza di Le Pera come fotografo di scena, poi proseguita lungo un percorso di ricerca che lo porta a superare la narrazione visiva statica e quasi statuaria dello spettacolo per approdare ad una tecnica della fotografia dinamica e in movimento, scattata nel corso della recita. Il suo catalogo, in cui figurano attori di primo piano del teatro italiano e che comprende anche molti allestimenti del Teatro Stabile di Bolzano per la regia di Marco Bernardi, è oggetto di un ambizioso progetto editoriale: dopo le monografie di recente pubblicazione dedicate a Mariangela Melato e Gabriele Lavia, ora è la volta di Gigi Proietti.

Prima della carrellata fotografica è importante leggere i brevi testi introduttivi perché offrono le giuste chiavi di lettura per inquadrare la figura dell’attore e per decodificare le immagini. Antonio Calenda, regista molto vicino all’interprete romano, lo definisce “dionisiaco, contraddittorio e oscuro, sui generis e imprevedibile. E come Dioniso sapeva modulare dai suoi precordi musica, canto, ironia e gusto del vivere”. La poliedricità e il sapiente istrionismo sono sottolineati da Rita Sala, mentre Duccio Trombadori ricorda gli influssi di Petrolini presenti in Proietti per contestualizzare le radici etno-geografiche di ascendenza romana nella sua rivisitazione moderna.

Gli scatti fotografici di Le Pera iniziano nel 1974 con La cena delle beffe di Carmelo Bene da Sem Benelli e proseguono con il celebre A me gli occhi, please! scritto con Roberto Lerici e interpretato nel 1976. Si tratta generalmente di primi piani che bene colgono nei ghigni e nelle smorfie, negli sguardi aggressivi e ironici, la cifra della mimica facciale dell’attore. L’impaginazione del materiale fotografico permette anche di decodificare il linguaggio della regia come ne Il bugiardo di Goldoni allestito nel 1979 da Ugo Gregoretti e nel Cirano di Rostand del 1985 in cui la regia dello stesso Proietti con Ennio Coltorti sviluppa belle scene corali. La sequenza de I 7 Re di Roma di Luigi Magni (1989) diventa un omaggio agli splendidi costumi di Lucia Mirisola. I tratti connotativi della comicità proiettiana esplodono in Ma l’amor mio non muore (2006).

A questi spettacoli si affiancano le fotografie di altri celebri titoli che hanno consacrato l’estro di Proietti, come La commedia di Gaetanaccio (1978), Come mi piace (1982), Per amore e per diletto (1985), Prove per un recital (1996) e Io, Toto e gli altri (2002). L’ultimo Proietti è immortalato nelle dieci foto tratte da Edmund Kean di Fitzsimons del 2016, in cui l’attore esibisce la gamma delle possibilità espressive dal comico al tragico, dal serio al faceto.

La Biografia e la Teatrografia completano le informazioni relative alla luminosa carriera di Proietti e attribuiscono al libro di Le Pera il valore di prezioso contributo per la memoria e per la storia del teatro italiano.

                                    di Massimo Bertoldi

Leonello Vincenti

Il teatro tedesco del Novecento
 

Postfazione di Cristina Grazioli

Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017, pp. 86

“In nessun campo artistico lo spirito tedesco sperò, dopo la guerra disgraziata di cogliere una più rapida e clamorosa rivincita come in quello della drammaturgia”. Così inizia Il teatro tedesco del Novecento scritto nel 1925 da Leonello Vincenti, germanista collaboratore della rivista “Il Baretti” fondata da Piero Gobetti. Lo scritto, oggi felicemente recuperato nell’ambito del progetto ideato dal Comitato Edizioni Gobettiane, costituisce una preziosa testimonianza del modo in cui un attento e erudito osservatore italiano si sia rapportato alla coeva scena tedesca degli anni Venti maturata nel clima febbrile della Repubblica di Weimar. E le sorprese non mancano.

Vincenti fa tabula rasa della molteplicità delle esperienze teatrali tedesche e riconosce solo l’Espressionismo quale autentico “segno dei tempi” ma privo di dignità artistica. Lo studioso, prima individua in Wedekind e in Strindberg i due pilastri ispiratori – il primo per aver raccontato i lati oscuri dell’istinto umano, il secondo per l’assunzione della visione estatica come rappresentazione del dolore; poi sviluppa un percorso storico all’interno della drammaturgia espressionistica basandosi sull’analisi dei testi e sulla ricostruzione dei profili dei vari autori. Ne coglie lucidamente l’essenza creativa – “protagonista ed autore coincidono” – ma la contesta duramente perché la considera di ostacolo alla resa universale delle tematiche trattate, dal rapporto conflittuale padre-figlio alla catastrofe della guerra. Il primato del soggettivismo produce una rappresentazione astratta della realtà e genera un linguaggio metafisico.

In questo modo Vincenti interpreta Il figlio di Hasenclever (“l’artificio è pietoso, al pari della retorica dei discorsi”), Battaglia navale di Goering, Trasformazioni di Toller (“già l’elenco dei personaggi sa di romanzo triviale”). Fa eccezione Fritz von Unruh, del quale dice: “il poeta sa sempre meno fermamente resistere all’ebbrezza titanica e vede farsi sempre più disperata e confusa la sua religione al dovere”. Pungente è il giudizio su Brecht e Kokoschka, manifestazioni di violenza e sensualità “crasse in una sorta di assai grossolano naturalismo”. Valutazioni positive spettano invece a Georg Kaser perché, “mentre i suoi colleghi amano indugiare nella novissima Arcadia, vaneggiando sentimenti e sentimentalismi”, l’autore di Gas I e II “mette nel centro del mondo il suo cervello”. La sua indagine dell’uomo costituisce l’unica e vera sostanza creativa dell’arte espressionista.

Per capire a fondo i riferimenti culturali, gli obiettivi e la recezione di questa storia del Teatro tedesco del Novecento concepita dal versante italiano dove la cultura dominante e la pratica dello spettacolo erano di fatto del tutto estranei alle ricerche dell’avanguardia tedesca, è fondamentale leggere la Postfazione di Cristina Grazioli. In poche ma illuminanti pagine offre al lettore gli strumenti necessari per una corretta comprensione di questo testo pionieristico capace di accompagnare ad un giudizio fortemente negativo sull’esperienza dell’Espressionismo una pregevole ricostruzione sulle caratteristiche e le peculiarità intellettuali dei suoi protagonisti.

Perciò contributi come quelli di Vincenti, pur di oltre novant’anni fa, oggi sollevano una domanda non trascurabile, ben posta dalla stessa Grazioli: “Con questa distanza si è difesa una specificità del teatro italiano o qualche cosa di irrecuperabile è andato perso?”.

                                            di Massimo Bertoldi

 

Nuove scritture dall'Austria

a cura di Giovanni Sampaolo
 

Roma, Artemide, 2017, pp. 142

È stato recentemente presentato a Roma, presso l'Österreichisches Kulturforum un originale volume, Nuove scrittura dall'Austria, che viene a colmare un vuoto letterario, di cui forse pochi sono consapevoli. Come scrive nella sua presentazione Elke Atzler, «l'Austria di oggi si distingue in ambito letterario per la notevole produzione di opere da parte di giovani e giovanissimi autori». Eppure «la letteratura austriaca più recente così come i premiati romanzi di successo sono largamente sconosciuti in Italia, perché nella maggior parte dei casi mancano le traduzioni italiane».

L'antologia di cui qui si parla si propone proprio questo: colmare innanzitutto un vuoto di conoscenza dovuto alla barriera linguistica. Con lungimiranza l'Austria, nelle sue istituzioni deputate a meglio far pervenire all'estero la propria cultura, ha promosso già da anni un intenso e raffinato lavoro sulla letteratura, ritenendo che accanto alla musica e alle arti figurative, anche questo medium artistico custodisca delle enormi potenzialità per presentare e divulgare all'esterno/all'estero la propria realtà nazionale. È evidente che la letteratura, costruita su uno strumento comunicativo non immediato, necessiti di una mediazione specifica per essere fruita.

Da qui l'esigenza di una traduzione, colta da Giovanni Sampaolo dell'Università di Roma 3 che con i suoi studenti, in un riuscito e meritorio esperimento, ha dato voce italiana a 15 scrittori viventi - la maggior parte molto giovani - che operano e vivono in Austria. Lettori appassionati o anche soltanto curiosi, editor e operatori di case editrici alla ricerca di nuovi stimoli troveranno qui liriche, brani di romanzi, racconti, drammi e persino pagine di saggi «ad alta tensione poetica» come scrive Francesco Fiorentino nell'introduzione al testo.

La cifra che unisce tutti questi/e scrittori/scrittrici è data dalla loro - vorrei dire - atavica consapevolezza della forma e della lingua, dall'aver sempre presente che quanto si esprime è condizionato e condiziona il mezzo dell'espressione: fatto che rende il lavoro di traduzione particolarmente arduo e tanto più encomiabile. Ma non solo le modalità formali accomunano questi autori: la disposizione transculturale è la cifra che nelle diversità li rende specchio di una realtà molteplice quale quella dell'Austria contemporanea.

Diversi per provenienza e formazione (c'è chi è nato in Austria, ma chi in Corea, in Slovacchia o Bulgaria o Polonia o Moravia), tutti si devono confrontare con l'alterità che non può essere tenuta fuori dai propri confini: storie di migrazione, di esplorazione, di occasioni mancate, di eventi economici e sociali che irrompono nella quotidianità scardinandola e che però suggeriscono anche che «bisogna perdere la paura di non poter tornare al nostro mondo di ieri. E in un baleno quei milioni di scacciati, braccati, espulsi che sembrano assediare il nostro benessere non saranno più una minaccia, ma una parte del nostro mondo».

Anche se i loro nomi - si spera ancora non per molto - poco dicono al lettore italiano, ci piace ricordarli uno ad uno nel rigoroso ordine alfabetico con il quale compaiono nell'antologia: Thomas Arzt (1983), Dimitré Dinev (1968), Erwin Einzinger (1953), Susanne Gregor (1981), Alois Hotschnig (1959), Anna Kim (1977), Karin Peschka (1967), Irene Prugger (1959), Kathrin Röggla (1971), Carolina Schutti (1976), Lisa Spalt (1970), Michael Stavarič (1972), Anja Utler (1973), Anna Weidenholzer (1984), Daniel Wisser (1971).

                               di Paola Maria Filippi

 

Lavinia Mazzucchetti

Impegno civile e mediazione culturale nell’Europa del Novecento
 

a cura di Anna Antonello e Michele Sisto

Roma, Istituto Italiano di Studi Germanici, 2017, pp. 273

Lavinia Mazzucchetti appartiene alla schiera dei personaggi adombrati che, una volta rivelati, manifestano la luce della loro grandezza altrimenti sommersa. In questo caso il merito spetta al volume in questione curato con maestria scientifica e rigoroso accorpamento dei vari saggi da Anna Antonello e Michele Sisto.

Nella prima parte - L'intellettuale, la germanista, le relazioni - Giorgio Mangini ricostruisce la biografia e la fitta rete di contatti avviati da questa autorevole traduttrice e consulente editoriale con i vari Clemente Rebora, Arcangelo Ghisleri, Ernesto Rossi, Ferruccio Perri, che poi assumono dimensione europea con un preciso obiettivo: creare un ponte culturale, sostenuto da valori democratici, tra Italia e Germania come lucidamente dimostra il contributo firmato da Maria Pia Casalena.

Con i saggi successivi si entra nello specifico di queste azioni, a partire dall'intervento di Anna Antonello che analizza il carteggio con la germanista, traduttrice e insegnante Dora Mitcky del periodo 1914-1958, dal quale emerge, oltre ad una rapporto di vera amicizia, la condivisione di interessi letterari e obiettivi editoriali.

Lo spessore intellettuale della Mazzucchetti si evince anche da altri fondamentali carteggi esaminati da Elisabetta Mazzetti. Spicca la corrispondenza con Thomas Mann nel periodo 1920-1955 in cui si parla di temi legati al lavoro di traduzione e di diffusione dell'opera dello scrittore in Italia, vicino a cupe considerazioni sulla coeva situazione politica. Segue il complesso rapporto epistolare con Hans Canossa, oggetto di studi saggistici e traduzioni da parte della stessa, e con Gerhart Hauptmann concentrato negli anni 1929-1932 che esprime formale ma sincera ammirazione.

Sigilla questo percorso europeo l'attenta analisi che Arturo Larcati dedica a Die andere Achse (1964) e interpreta come un “particolare testamento spirituale” in quanto nelle note introduttive al volume miscellaneo da lei curato emerge il concetto di cultura come strumento fondamentale per combattere le forme autoritarie come si sono manifestate nelle dittature novecentesche.

La seconda parte di questo appassionante tributo alla Mazzucchetti indaga L’insegnamento, la traduzione, il lavoro editoriale. Prodotto dell’attività didattica della giovane germanista è la stesura di due manuali apparsi tra il 1916 e il 1933, Elementi di grammatica tedesca e Prime lettere tedesche. L’analisi di questi due importanti testi per le scuole classiche e commerciali compete a Francesca Boarini che riconosce un’impostazione tradizionale e individua elementi innovativi nelle argomentazioni e nei commenti di accompagnamento ai brani letterari.

Alla copiosa attività della traduttrice sono dedicati due saggi di qualità: Paola Maria Filippi inquadra lo scrupoloso lavoro filologico attento ai linguaggi contemporanei e alla logica delle operazioni commerciali e alle corrispondenze con il lettore fruitore. In merito analizza e pubblica materiali inediti relativi alle traduzioni schilleriane. Natascia Barrale arricchisce le competenze e conoscenze della traduttrice attraverso l’esame del fascicolo Studio sull’arte del tradurre della Fondazione Mondadori. I rapporti con l’editore milanese sono poi ricostruiti anche da Mariarosa Bricchi e da Michele Sisto, attento ad approfondire i contatti e le discussioni con Elio Vittorini per quanto riguarda le scelte delle pubblicazioni di opere attinte dalla letteratura tedesca.

Infine, per meglio verificare la mole di lavoro della infaticabile Mazzucchetti dal 1911 al 1952 è doveroso sfogliare la Bibliografia degli scritti e delle traduzioni pubblicate in Appendice a questo prezioso e assai documentato volume.

                                         di Massimo Bertoldi

 

La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole

di Vanessa Roghi

Bari-Roma, Laterza, 2017, pp. 244

La presentazione al pubblico a Bolzano al liceo classico Carducci, quindi al liceo Pascoli agli studenti, organizzata con la Fondazione Langer è stata l’occasione per parlare con l’autrice de La lettera sovversiva. Significativi i contesti, quello al Carducci in cui il dialogo era aperto anche a Federico Faloppa, autore a sua volta di Razzisti a parole, con focus sul potere, sulla parola che ancora esclude, la lingua che ancora è strumento di oppressione: mentre Don Milani si interrogava sull’accessibilità del sussidiario per i figli dei contadini e degli operai, ancora oggi non si riescono a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano libertà e uguaglianza tra cittadini, come stabilito dall’articolo 3 della Costituzione.

La testimonianza delle insegnanti di italiano licenziate il giorno prima senza alcun preavviso da un centro per richiedenti asilo nel capoluogo ci riportava all’attualità descritta nel libro: le riforme degli ultimi anni sembrano andare in direzione opposta all’articolo 3, dietro parole come “competenze” e “merito”, si nascondono in realtà tagli economici che penalizzano sempre i più deboli, i più fragili. Perché “per parlare di merito, bisogna che tutte e tutti siano nelle stesse condizioni alla linea di partenza”, invece, oggi come cinquant’anni fa, “il figlio del dottore” parte venti metri più avanti rispetto al figlio dell’operaio disoccupato, del precario sfruttato e del migrante.

Altrettanto significativo il contesto dell’incontro con gli studenti, coloro cui è dedicata l’apertura del libro “troppo onesti, troppo davvero buoni, questi ragazzi che hanno disimparato a contrapporsi”.

La ricostruzione filologica e contestuale dell’autrice porta fino a quel maggio del 1967 quando esce, per una piccola casa editrice fiorentina, Lettera a una professoressa, autori don Lorenzo Milani e gli alunni della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze. L’autrice ricostruisce la figura storica di Don Milani, il periodo precedente la Lettera, la genesi dei temi che si intreccia ai luoghi e alle persone, gli sviluppi successivi che attraverso l’italiano, come lingua, evidenziano le contraddizioni di un paese, l’Italia. Tra gli incontri, Pasolini e l’educazione linguistica come lotta di classe, la corrispondenza con Mario Lodi nel creare una “scrittura collettiva”, la prima traduzione della Lettera in lingua tedesca curata da Alexander Langer, fino a De Mauro e la questione della lingua, a una possibile democrazia linguistica con Rodari, a Erich Fromm che legge La lettera ai giudici del priore, alla pedagogia degli oppressi di Freire...

Ne emergono l’attualità dei concetti insieme alla distanza da quella realtà sociale, culturale, economica. L’“I care”, “me ne importa, mi sta a cuore”, il contrario del motto fascista “Me ne frego”. La ricerca di ciò che fa una “scuola buona”. Il tema dell’obbedienza, non più virtù.

Insieme a tutto quanto può essere invocato dalla pedagogia contemporanea - l’apprendimento delle lingue, imparare dalla vita e dagli esperti esterni alla scuola, l’approccio esperienziale, il teatro, la lettura dei quotidiani - rispetto per la personalità impone di vedere l’irriproducibilità di un mondo e di una vicenda umana, come lo stesso don Milani sosteneva: un mondo rurale in cui la scuola era un’alternativa al lavoro nei campi. Una pedagogia almeno in apparenza a tratti tutt’altro che democratica, in cui le “pedate” creano la “motivazione estrinseca”, dove la parola va conquistata come diritto, ma prima di parlare si deve conoscere, ascoltare chi sa. La domanda provocatoria dell’autrice al termine della conferenza sul motivo dell’attualità di un prete che insegna al di fuori della scuola pubblica mezzo secolo fa, ci riporta forse ai fondamenti di ciò che chiamiamo umanità, come al senso che dovrebbe animare le parole. Sullo sfondo la contraddizione vissuta dallo stesso don Milani, anche lui un “Pierino” figlio di dottori, ovvero parte di un’élite portata in giudizio, attraverso il linguaggio, misurando la coerenza tra le parole e le cose.

                                               di Nazario Zambaldi

 

Virgilio, Ovidio, Boccaccio, Marlowe, Metastasio, Ungaretti, Brodskij

DIDONE
La tragedia dell’abbandono

Variazioni sul mito
a cura di Antonio Ziosi
Venezia, Marsilio, 2017, pp. 337

Prosegue il progetto “Variazioni sul mito” di Marsilio con volumi che assemblano testi antichi e moderni trattanti lo stesso soggetto. Ai libri dedicati a Medea, Fedra, Romeo e Giulietta, Antigone, Elettra e Orfeo, ora si aggiunge Didone. La tragedia dell’abbandono.

Nell’Introduzione Antonio Ziosi illustra il percorso e le visioni letterarie dell’esule regina fenicia Didone, fondatrice di Cartagine che accoglie Enea in fuga da Troia, se ne innamora e, abbandonata, si uccide per aver tradito il defunto marito Sicheo. È quanto racconta Virgilio nel IV libro dell’Eneide qui antologizzato e dal quale emerge la forza irrazionale e i travolgente dell’amore che poi si trasforma in dolore tragico causato dalla partenza di Enea. Il poeta latino aveva rivisitato il mito originario secondo il quale Didone si sarebbe gettata tra le fiamme per non cedere a nuove nozze in nome della fedeltà.

Queste “due Didoni” tracciano le traiettorie seguite dalla letteratura. In merito Ziosi pubblica la Lettera di Didone a Enea, ossia la settima delle Epistole di eroine di Ovidio in cui la protagonista è descritta come donna, non più regina tormentata dal conflitto tra dignità e furor: si presenta nelle vesti dell’amante coinvolta in una storia di autentica passione e perciò disposta a tutto per trattenere Enea.

Le “variazioni” medievali disegnano la donna come mirabile esempio precristiano di martirio e castità. Citata nell’Inferno dantesco e difesa da Petrarca nel Triumphus Pudicitie, è in Didone o Elissa, regina di Cartagine da De mulieribus claris di Boccaccio (il testo si legge in questo volume) che si riconosce una mirabile convergenza tra il racconto virgiliano e le riletture medievali. La donna pagana muore a difesa della sua pudicitia e per paura di abbandonarsi ad uno “sconosciuto”.

La fortuna di Didone esplode nel Rinascimento e alimenta soprattutto la creatività dei commediografi. A titolo esemplificativo nel volume di Marsilio si legge La tragedia di Didone, regina di Cartagine di Christopher Marlowe. Scritta nel 1586, l’opera del giovane drammaturgo inglese si enuclea dal modello virgiliano con evidenti contaminazioni derivate dalla poesia ovidiana. Vittima degli effetti dell’amore distruttivo, la donna diventa figura laica e sedotta dal potere dei sentimenti e della bellezza.

Questa amante moderna dotata di marcato impatto scenico irrompe nel melodramma e non solo: dà avvio alla rivoluzione librettistica moderna inaugurata da Didone abbandonata scritta da Pietro Metastasio nel 1724 e presente nel volume in questione. Ottenne un successo straordinario sui palcoscenici italiani e europei. La totale rielaborazione dell’intreccio virgiliano produce una catena di amori conflittuali e non corrisposti, che riguardano e coinvolgono anche Enea e Didone nel prevedibile finale drammatico.

Si arriva al Novecento e Ziosi si concentra sulla poesia. Propone i Cori di stati d’animo di Didone da La Terra Promessa di Ungaretti che trasforma l’eroina in un luminoso simbolo poetico del dramma dell’abbandono della giovinezza e della memoria di segmenti di vita passata, come se nelle sorti della regina africana si nascondano vicende biografiche dello stesso poeta. Soprattutto nella visione ungarettiana il tramonto della vita si consuma in parallelo al declino della civiltà. Infine Didone e Enea di Iosif Brodskij, ovvero pochi ma intensi versi sulle conseguenze distruttive dell’amore intrecciate al destino della città di Cartagine.

                                        di Massimo Bertoldi

 

Mirella Schino

L’età dei maestri.
Appia, Craig, Stanislavskij, Mejerchol’d, Copeau, Artaud e gli altri

Roma, Viella, 2017, pp. 330

Ne La nascita della regia teatrale del 2003 Mirella Schino aveva analizzato teorie, metodi e poetiche dei padri fondatori del teatro del Novecento. Ora gli stessi ritornano ne L’età dei maestri, ma cambia l’impostazione analitica assunta dalla studiosa che unisce questi protagonisti in una fitta trama di reti e connessioni culturali e li rende simili ai personaggi di un romanzo storico. Il racconto affascina, si appoggia ad una scrittura fluida e assai gradevole, capace di coinvolgere qualsiasi lettore in un percorso in cui si incrociano “il rapporto con la Storia, le biografie, le passioni, le strutture sociali e gli spettacoli in quanto nodi di relazioni – tra attore e attore, tra attori e maestri, tra spettacolo e pubblico”.

Emergono come rivoli carsici i legami tra le ricerche teatrali assai diverse come concezioni e linguaggi in ambito registico tra Appia, Craig, Stanislavskij, Mejerchol’d, Reinhardt e Fuchs, oppure le contaminazioni tra teatri indipendenti e istituzionali. E la stessa dialettica informa di sé il rapporto tra attori di tradizione e nuovi attori.

La Schino segue come un’ombra questi registi, fino a coglierne le ansie e le emozioni, quando trasferirono i loro assunti teorici sul palcoscenico come si legge nella magistrali ricostruzioni di tre spettacoli epocali: Il gabbiano di Anton Cechov in scena nel 1898 al Teatro d’Arte di Mosca per la regia di Stanislavskij e Vladimir Nemirovich-Danchenko; Dom Juan di Mejerchol’d al teatro Akesandrinskij nel 1910; lo shakesperiano Hamlet allestito ancora al Teatro d’Arte nel 1912 da Gordon Craig.

In che misura le riforme e le rivoluzioni teatrali si siano enucleate da un rapporto di continuità e rottura con il passato lo si evince dalla ricerca dei nuovi linguaggi del corpo e del gesto dell’attore. Nei molteplici codici espressivi, compresi quelli delle avanguardie, interagirono le lezioni del Grandi Attori italiani come Ermete Zacconi, Eleonora Duse, Tommaso Salvini.

Questa grande stagione di cambiamenti fu vissuta anche come esperienza di vita, ricerca di nuovi rapporti umani coniugati nei progetti artistici. Si cercò di “costruire spettacoli che non rispecchiassero la realtà, ma la ricreassero, satura, potente, più potente, più intensa della vita quotidiana”. Il teatro diventata arte del “vivente”, risposta i bisogni primari delle miserie della vita quotidiana, non semplice intrattenimento.

Così nel fondamentale capitolo L’età d’oro la Schino studia il teatro al tempo della Rivoluzione russa, dove l’urgenza di cibo e di legna è la stessa del spettacolo. Victor Šklovskij raccontò che “la Russia recita, recita tutta, avviene un processo di generale trasformazione di tessuti vivi in tessuti teatrali”. Questa “teatromania” parafrasava la tensione verso una vita nuova, migliore.

E una situazione non dissimile caratterizzò il teatro della Repubblica di Weimar. È la stagione della sperimentazione, dell’eccesso creativo, della proiezione cosmopolita, alimentata da Brecht e gli scrittori espressionistici, Jessner e Piscator, i teatro agitprop e i fumosi cabaret.

“Nell’Europa del primo dopoguerra – sostiene la Schino – la Germania e la Russia avevano un posto speciale, erano le due nazioni dove bisognava assolutamente andare per vedere e capire cosa dovesse essere il teatro dell’avvenire, cosa fosse il nuovo teatro”.

Poi i regimi totalitari fecero tabula rasa di una delle stagioni più ricche di creatività della storia del teatro. Recisero la pianta ma non strapparono le radici del nuovo teatro: nella Germania post 1945, per esempio, la ricostruzione riguardò in primis proprio gli edifici teatrali.

                                                 di Massimo Bertoldi

 

L’invenzione dei giovani

di Jon Savage

Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 494

Esistono tradizioni di scrittura in grado di fissare forme e modi della trasposizione di concetti e pensieri, fino a trasformarsi in stile che non ci è dato ritrovare nei canoni della lingua italiana: un settore davvero negletto dalla tradizione italiana è quello della storia della cultura.

Questo preambolo pare doveroso per contestualizzare la riedizione de L’invenzione dei giovani di Jon Savage. Erede di una stagione di analisti della cultura che hanno dato lustro sia all’accademia inglese che alla popolarità di categorie e concetti – si pensi a Hobsbawm, a Hill, a Stone, Ranger, ecc. – Savage nasce in un contesto extra-accademico, quale lettore dei movimenti musicali giovanili degli anni Settanta. Dapprima attento analista del Punk britannico nel periodo tatcheriano, Savage ha allargato l’area della sua indagine verso un tema storiografico fondamentale: i “giovani”.

Scopriamo il luogo e il tempo d’origine di questo concetto-categoria sociale: è la modernità industriale. L’autore svolge un excursus che parte dagli anni ’70 del secolo XIX in America, Inghilterra, Francia e Germania, e approda alla metà degli anni Quaranta del secolo successivo, quando la categoria del “Teen Ager” si fissa nella cultura occidentale quale soggetto di consumo, prima che altro. Lungo questo cammino si incontra una vasta fenomenologia dei “giovani”, che talvolta si manifesta nella forma di biografie esemplari: il ragazzino pluriomicida Jesse Pomeroy, condannato all’ergastolo nel 1876 negli Stati Uniti, che descrive il potere distruttivo senza ragione, la capacità di un ragazzino violato di rompere l’ordine delle rappresentazioni sociali. Gli “hooligan” ottocenteschi inglesi, le imprese dei Wandervogel tedeschi. Si risale lungo il Novecento con le sorprendenti rivelazioni di un percorso davvero molto familiare, quel mix di sete di consumo e di vitalismo a buon mercato; di impulso distruttivo, diversamente mischiato a volontà di cambiamento; di disorientamento collettivo epocale in una fase di cambiamenti globali, planetari; di astiosa attrazione e repulsione verso le diversità prima ignote: culturali, di stile, di apparenza. Su tutto, il potere fascinatorio di una musica travolgente, nuova, fortemente sensuale; la trasgressione e la sessualità che si impongono in modo irriverente, la sfida al buon costume e l’attrazione verso le sostanze psicoattive, o l’alcol; lo stordimento cercato, l’attrazione nichilista. Troveremo in queste pagine non Sid Vicious, o Kurt Cobain, ma ragazze e ragazzi degli anni Venti, negli USA del ragtime, che si fanno di morfina; o che annegano nel jazz, a Berlino, nei primi anni Trenta, il disgusto per l’irrigimentazione di massa nelle Hitlerjugend. O ancora le “khaki-whaky” del periodo bellico americano, 14enni che si ammalano di scolo e sifilide per l’estrema promiscuità casuale con i militari, non a scopo di lucro.

L’Italia in queste pagine rimane sullo sfondo ed è un peccato. Certo sarebbe stato interessante segnalare almeno in bibliografia i lavori di taglio accademico che proliferano nella nostra produzione pubblicistica. Si pensi al ruolo svolto dall’ONB e dalla GIL del fascismo per “fissare” una immagine di giovinezza, carica di valenze estetico-politiche, non molto diverse dai modelli delle civiltà industriale avanzate. O quanto l’approdo all’antifascismo sia stato, e molto, un fatto “generazionale”; e forse anche qui gli stili, la musica, ci direbbero molte cose. C’è un problema serio, per pubblicare in Italia qualcosa di questo tipo, però: ed è la debolezza di una tradizione di scrittura di storia culturale in grado di coniugare rigore e freschezza, comunicabilità e precisione storica. Scriviamo molto, in Italia, di storia; ma spesso la scrittura è accademica, rigorosa: ma illeggibile per un pubblico di non specialisti.

                                                 di Andrea Felis

 

Thornill

di Pam Smy

Crema, UovoNero, 2017, pp. 538

Il genere “graphic novel” è nato poco più di un decennio fa in contesto anglosassone, ed anche nell’editoria italiana si è ormai consolidato, in particolare fra i lettori più giovani, con un proprio profilo e propri autori di riferimento (Zerocalcare, tanto per fare un nome). La letteratura per ragazzi comincia a registrare anche qui un interesse specifico, e la recente uscita di un importante lavoro ad opera di Pam Smy testimonia l’accresciuta rilevanza che sta assumendo tale genere di letteratura.

L’autrice inglese, che insegna illustrazione alla Cambridge School of Art presso la Anglia Ruskin University, ha creato un prodotto dal titolo Thornhill, in cui testo ed immagini si alternano in una narrazione continua e cadenzata, dove la forza del testo si incrocia con quella del potere descrittivo dell’illustrazione: la gamma degli effetti grafici è controllata appieno attraverso una potente padronanza tecnica, una favola “nera” in cui la scelta della gamma dei grigi, dei neri, ed un bianco di luce accecante, si alternano fino a costringere il lettore ad entrare in un universo visivo e letterario completamente controllato dall’autrice.

La storia si svolge lungo un duplice binario temporale, sospesa fra il 1982 della vicenda tragica di Mary, ragazzina abbandonata dal mondo in una casa-accoglienza che non si accorge della sua sofferenza, e il 2017, il contemporaneo isolamento di Ella, adolescente sola con un padre invisibile, anch’essa in discesa verso la distruzione. Le 530 pagine del libro si leggono d’un fiato, le sospensioni prodotte da un foglio implacabilmente nero indicano una forza narrativa di genere tutta da esplorare. L’impressione però è quella di un’opera incompleta: è la prima volta di una notevole illustratrice con una prova narrativa anche di tipo letterario, e spesso si vede. Anche se il notevole Philip Pulman ha tenuto a battesimo il libro, una maggiore densità e maturità di scrittura avrebbe giovato alla narrazione, che qualche volta ripercorre con eccessiva frequenza luoghi comuni narrativi, che indeboliscono la struttura.

Rimane l’impressione che il genere sia ancora da sviluppare nella sua pienezza; e che risulti estremamente raro trovare autori in grado di controllare appieno la complessità della scrittura, e la competenza tecnica dell’illustrazione. Risulta evidente come in Inghilterra lo stile del disegno si posizioni su una grande tradizione di illustrazione, e molto meno di fumetto, a differenza del contesto italiano, dove il modello di riferimento dominante pare essere la strip. È un modo nuovo di creare una massa narrativa coinvolgente, e forse occorre possedere una cultura visiva – per potere godere appieno del genere – che in Italia appare un po’ offuscata, essendosi smarrita quella grande tradizione di disegnatori che si poteva vantare fino a 30 anni fa.

parere di chi scrive, per un breve, denso ed incredibile periodo siamo stati in cima alla capacità narrativa internazionale – aspra, lirica, sgradevole anche – per testo e disegni, con un autore passato come una meteora indimenticabile, che giusto 30 anni fa ci ha lasciato con un vuoto mai più colmato: e il cui nome era Andrea Pazienza. Il libro di Smy non è a quel livello meteorico. Ma rimane un prodotto interessante, ricco, bello da sfogliare. Nero e splendente.
 

                                                       di Andrea Felis

 

Luigi Manconi
Federica Resta

Non sono razzista, ma

La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura

Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 160

Un instant book raramente riesce ad apparire “fuori tempo”, proprio in virtù della sua natura: essere cioè un prodotto editoriale cotto e servito, nel caldo degli aspetti tematici trattati. Eppure, leggendo il recente libro a quattro mani di Luigi Manconi, sociologo e già senatore, e Federica Resta, giurista ed avvocato, sembra di essere catapultati indietro nel tempo, con formule critiche e stilemi analitici di un’altra epoca. Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura, è il titolo del testo prodotto da Manconi e Resta, ed esce ad un quarto di secolo di distanza da I razzismi reali, scritto al tempo dallo stesso Manconi con la fine analista e sociologa Laura Balbo, da alcuni anni lontana dai riflettori.

Eppure, mentre il libro di 25 anni fa appare curiosamente “fresco”, il recente titolo di Manconi, ancorché frutto di una riflessione nata a caldo, nel fuoco vivo del contenzioso politico-culturale degli ultimi mesi addirittura, appare segnato da una chiave interpretativa legata ad una fotografia sbiadita del fenomeno fatto oggetto della veloce riflessione. Le pagine dedicate alla distinzione fra atteggiamento xenofobo e fenomenologie razziste rimangono le più interessanti, mentre viene riconosciuta una natura più sfuggente di quel sentimento diffuso, “popolare”, di paura e di difficoltà/incapacità di solidarietà: questa altrove viene invece indicata come soluzione, magari sotto il nome di “compassione”. Rievocando un Levinas ormai forse un po’ frusto, ci si richiama alla categoria etica (“la postura morale degli europei”) del “correre il rischio del bene”, antidoto all’indifferenza che celerebbe il primo passo verso la disumanizzazione dell’Altro.

Il testo ha un esito curiosamente impolitico: pur essendo il frutto della riflessione di un già senatore – ed esperto analista socio-politico – e di una giurista, evidentemente ben dentro la normativa italiana sui Centri di Permanenza per i migranti, sembra più fare appello alla coscienza e al “rischio del bene”, che ad una impegno ed una assunzione di responsabilità più marcatamente politica, nel senso arendtiano del termine. E cioè, ad una assunzione di creatività operativa, di testimonianza attiva, nei modi e nelle forme che la vita civile ci consente, un “fare” – e non una “postura”. Il “prendere parte” sembra lontano. Lo sguardo è sull’aspetto morale della discriminazione, con la conseguente riprovazione. E qui si spiega il lungo pezzo dedicato a Calderoli, ed alla sua delirante definizione dell’ex ministro Kyienge come “orango”, definizione fornita in un contesto politico pubblico, e nel periodo del suo ruolo di vicepresidente del Senato: sarebbe l’esempio della banalizzazione “strapaesana” della xenofobia, “la bonomia” autoassolutoria del linguaggio politico.

Ma torniamo all’inizio: nelle scorse settimane a Macerata, dove il 3 febbraio Luca Traini – ex militante leghista poi passato all’estrema destra – ha ferito sei stranieri a colpi di pistola, il partito guidato da Salvini è passato dallo 0,6 del 2013 al 21 per cento del 2018. E il partito dei 5stelle, che ha espresso esplicitamente dissenso politico, nella precedente legislatura, verso il dibattito sullo “Ius soli” dei ragazzi figli di migranti, ha conquistato a livello nazionale il 32% dei consensi, e la Lega di Salvini il 18% (anche al sud, fenomeno ormai nazionale). Tra gli eletti della Lega, un senatore di colore: basterà la riprovazione, nei prossimi anni?  PS: nel testo, a Salvini vengono dedicate due battute di passaggio; a Beppe Grillo due sole citazioni, in nota. 

                                           di Andrea Felis

 

 

 

Antonio Gramsci

Il teatro lancia bombe nei cervelli

Articoli, critiche, recensioni 1915-1920
A cura di Fabio Francione

Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2017, pp. 235

Il titolo di questa interessante antologia di scritti teatrali compilati da Antonio Gramsci nel periodo 1915-1920 deriva da una sua riflessione in merito a Luigi Pirandello: «le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensieri». Il giudizio si riferisce a Il piacere dell’onestà in scena al Teatro Carignano di Torino che Gramsci recensisce nel 1917 per il quotidiano «L’Avanti!». Si tratta di un’eccezione perché, ad esclusione anche di Liolà, le commedie del premio Nobel sono viste come «povertà interiore, tedio, palude retorica, curiosità pettegola, verbalismo pseudofilosofico».

Dagli scritti raccolti e ordinati da Fabio Francione emergono altre e pesanti polemiche rivolte al teatro borghese e mosse da un lucido assunto critico di stampo marxista. Per esempio l’intellettuale sardo considera Appassionatamente di Alessandro Varaldo una commedia «senza bagliori di intelligenza» e Sale d’ottobre di Sabatino Lopez «un nulla adorno di parole drogate per palati casalinghi». Bersaglia inoltre la dipendenza quasi filiativa di molto teatro italiano dai modelli francesi considerati ormai obsoleti come le «sdolcinature piccolo-borghesi» che caratterizzano La volata di Dario Niccodemi, opera costruita sulla drammaturgia della leggerezza evasiva, ossia «grandi urli, situazioni piccanti, conflitti esasperati, che fanno scoccare il desiato applauso promettitore di un gran numero di repliche».

La polemica, di riflesso, si estende al sistema produttivo italiano determinato e condizionato dall’azione di avidi impresari che costringono gli attori ordinari a firmare contratti da fame in contrapposizione ai lauti compensi elargiti ai cosiddetti Grandi Attori come Ruggero Ruggeri fortemente criticato per il suo narcisismo perciò definito «infetto di febbre dannunziana». Il comunista Gramsci apprezza la ribellione tutta borghese di Nora in Casa di bambola di Henrik Ibsen secondo l’interpretazione dell’attrice Emma Gramatica; ammira inoltre l’attore siciliano Angelo Musco come artefice della diffusione del teatro dialettale e popolare e loda il capocomico Virgilio Talli paragonato all’«orafo  che trae dal metallo il suo timbro riposto, ne intuisce il valore effettivo, e lo sgrana in collane e monili di infinito pregio».

Trapela l’entusiasmo per lo spettacolo realizzato dagli operai, un prodotto culturale molto semplice che si concretizza in una rivista satirica (Arsenaleide) ma di grande valore ideologico e simbolico perché in questa esperienza al cospetto di un pubblico popolare «la cultura e l’arte finiscono col trovare anch’esse il loro posto nell’attività proletaria, non come esteriore dono della società borghese già esistente, ma come energia vitale del proletariato stesso».

In definitiva i 230 scritti pubblicati in questo pregevole volume, oltre a sintetizzare i gusti e gli orientamenti dello spettacolo italiano di inizio Novecento, arricchiscono e impreziosiscono l’impegno politico e culturale gramsciano a favore di un teatro popolare e d’impegno, importante per lo sviluppo della democrazia, come già aveva avvertito Guido Davico Bonino nel suo fondamentale e pionieristico studio Gramsci e il Teatro (Torino, Einaudi, 1973).

                                    di Massimo Bertoldi