IL CRISTALLO, 2012 LIV 1 [stampa]

Comico, riso e modernità nella letteratura italiana tra Cinque e Ottocento,
a cura di Florinda Nardi, Roma, Edicampus Edizioni, 2012, pp. 208, euro 20

recensione di FRANCO ZANGRILLI

Recentemente a Roma è nata una nuova casa editrice, Edicampus Edizioni, diretta dal dottor Stefano Pioda. Ha già dato luce a diverse opere di fotografia, di narrativa, di critica letteraria. Nella collana "Studi e Ricerche", diretta dall'illustre professor Rino Caputo, è appena apparso un testo sul Comico, riso e modernità nella letteratura italiana tra Cinque e Ottocento, curato da un'acuta studiosa dell'argomento, Florinda Nardi.

Il volume è composto di sedici interventi di studiosi di diverse generazioni, formazioni, e orientamenti critici. Questa loro diversità non può non arricchire il complicato discorso sul comico ritenuto un fenomeno che si rinnova in ogni epoca e in ogni civiltà.

Con "Il comico veicolo di modernità", la Nardi afferma che non è un'impresa facile definire il comico e illustrare come si inserisce nel cuore della modernità, intesa nell'accezione di nuovi modelli del pensiero e della vita sociale che si affacciano nel corso della storia, di andare oltre i canoni del passato, di guardare avanti. Passando in rassegna le tesi sul comico degli studiosi di discipline diverse (filosofi, letterati, antropologi, ecc.), Nardi ne elabora aspetti e significati più rilevanti. Per lei il comico nasce dal riso di ogni natura, ma mentre il riso porta l'individuo a perdere il controllo di sé, il sorriso invece ne mostra il controllo; offre lo sfogo dell'energia psichica o di stimoli accumulati anche inconsciamente; produce una quantità di espressioni e di generi (ad es. la barzelletta, il buffo); è una proprietà dell'uomo che lo distingue dall'animale. Ed enfatizza che il comico ha molti punti in comune con la modernità, dall'incertezza alla consapevolezza, soprattutto perché ha la capacità di mutare, aggiornarsi ai tempi e «al gusto dei presenti», onde si deve parlare del comico moderno.

Con "Il comico dalla novella alla commedia", Guido Ferroni, facendo ampio riferimento al Decameron che influenza profondamente la commedia rinascimentale, imposta un discorso teorico che individua tre linee del comico, identificabili anche come generi e sottogeneri. Nella prima linea appartengono le "modalità": l'ironia che però è tipica di una società e quindi «si è allineati e pronti a coglierla»; la parodia che per lo più porta ai rovesciamenti del discorso, mentre la satira vuol essere un attacco contro qualcosa o qualcuno; il pastiche che mescola le cose su vari piani diegetici; il nonsenso che forma il gioco di parole e la distruzione del significato; il falsetto che lascia le cose sospese, tra il detto e il non detto; la facezia che è una novelletta affine al motto di spirito freudiano. Nella seconda linea fanno parte "le strutture": quella del gioco che sostiene la beffa a danno di qualche personaggio; quella del risarcimento a un personaggio che ha perso qualcosa e poi la recupera, portando alla conciliazione, al superamento di ogni ostacolo, e alla sua formazione-maturazione; quelle dell'illusione e del fantastico intrise anche di profonde contraddizioni e di scambi di identità, di cui è paradigmatica la figura di Don Chisciotte. Nell'ultima linea si inseriscono "i temi" della vita reale: l'amore che va da quello più ingenuo a quello più carnale; la religione con suoi riti, credenze, rappresentanti scandalosi e amorali; il mondo delle professioni (fornaio, maestro, medico, ecc); il viaggio che si rivela persino un'esperienza erotica.

Nell'insieme questi interventi illustrano chiaramente che tra il Cinque e l'Ottocento il comico muta e si rinnova con le ispirazioni e le filosofie originali dei nostri scrittori, da Machiavelli a Basile, da Goldoni a Parini, ad Alfieri. Ma gli interventi dedicati agli scrittori del primo Ottocento in poi suggeriscono che il comico attraversa un cambiamento radicale.

Laura Melosi implica che questo cambiamento comincia con Leopardi. Per lui il comico consiste nel mettere in ridicolo, in modo graffiante e fustigante, le gravi situazioni della «civiltà presente», gli avvenimenti seri e attuali della patria, come la miseria umana, i vizi dei potenti, le assurdità dei politici. Esaminando con minuzia appunti, abbozzi, dialoghi, e «prosette» di Leopardi che diventano anche molto satirici, la studiosa infine afferma che il suo comico esprime un «corpo di ridicolo» solido, fatto di cose della tragedia di vivere.

Roberta Meloni sostiene che dalla metà dell'Ottocento si parla non tanto del comico ma soprattutto dell'umorismo che meglio rappresenta la realtà intricata, come lo spirito inquieto della modernità. Con grande vivacità ne discutono giornalisti, critici, filosofi, psicologi, e scrittori italiani e stranieri. Parecchi scrittori e giornalisti nostrani si cimentano con la scrittura umoristica. Essa risulta variegata perché si sbizzarrisce a sperimentare a tanti livelli, anche con le tematiche di impegno civile e con le forme stilistiche. In certi scrittori si fa addirittura aperta, divagante, disordinata. Anche per Dossi, per Nievo e per Tarchetti l'umorismo diventa «una necessità storica e individuale insieme», una necessità di guardare con «doppio sguardo» i «tempi moderni», di smascherare le parvenze della realtà e dell'illusione. E questo porta la studiosa ad ammiccare all'arte umoristica di Pirandello.

Infine Donato Santaremo chiude il testo analizzando la tesi di Pirandello sull'umorismo «come strategia discorsiva del moderno».

Un testo utile sia agli studenti che vogliono familiarizzarsi con la materia sia agli specialisti che vogliono portare avanti la loro ricerca.

 

 

City University of New York, Baruch C.