IL CRISTALLO, 2012 LIV 1 [stampa]

LIBERO ANDREOTTI E IL MONUMENTO ALLA VITTORIA DI BOLZANO1

di LORENZO FERRARESE

foto: il Cristo risorto
foto 1- il Cristo risorto

bozzetto del bassorilievo
foto 2 - bozzetto del bassorilievo

Le premesse

 

Si è mentito quando si è parlato di una rimozione del monumento a Walter von der Vogelweide, che sorge in una delle piazze di Bolzano. Noi, rispettosi della poesia anche quando è mediocre, noi, che non possiamo accettare l'antitesi fra Dante e Walter von der Vogelweide, perché equivarrebbe a stabilire una possibilità di comparazione tra il Pincio e l'Himalaya, noi lasceremo intatta la statua di questo vecchio troviero germanico; ma in una piazza di Bolzano, per sottoscrizione del popolo italiano, sulle stesse fondamenta ove doveva sorgere il monumento alla vittoria tedesca, erigeremo un monumento a Cesare Battisti e ai martiri che col loro sangue e col loro sacrificio, hanno scritto per l'Alto Adige la parola definitiva della nostra storia.2

 

Il discorso pronunciato da Mussolini alla Camera il 6 febbraio 1926 rappresenta l'inizio della storia della realizzazione del Monumento alla Vittoria di Bolzano.

Ma già nel marzo 1926 le cose cambiano:

 

Si è riunita ieri, presieduta dal ministro della Pubblica Istruzione […] la Commissione pel monumento a Cesare Battisti in Bolzano. La commissione ha stabilito che il monumento sorga nel vasto spiazzo di là dal ponte sul fiume Isarco [sic]3, in modo da essere visibile dalle valli circostanti […] Il monumento non sarà dedicato a Cesare Battisti ma alla vittoria italiana.4

 

Probabilmente l'intervento della vedova di Battisti, contraria all'appropriazione da parte del fascismo della figura del marito, influì sul cambiamento di denominazione del monumento, senza dimenticare che i tre martiri avevano più collegamenti con Trento, che nello stesso torno di anni realizzava il monumento loro dedicato sul Doss Trento.

Nell'articolo del Corriere della sera precedentemente citato si rende anche noto che:

 

La commissione ha anche preso atto della scelta degli artisti fatta dal Capo del Governo nelle persone dell'architetto Marcello Piacentini e dello scultore Pietro Canonica.5

 

Ma Piacentini fa in modo di prendere su di sé tutta la responsabilità del progetto, e il ruolo di Canonica si ridurrà alla sola realizzazione dei tre tondi del frontone posteriore del monumento. In altre parole, Marcello Piacentini non vuole limitarsi a progettare un semplice brano di architettura monumentale, ma coglie l'occasione per ampliare il discorso e, partendo dal monumento, dare un'impronta a tutta la città di Bolzano, sia al vecchio centro storico, sia alla "Nuova Bolzano". Piacentini, oramai avviato a diventare uno degli architetti più influenti e potenti del regime, approfitta della libertà di azione che la sua posizione gli permette, e

 

[…] non si limita ad intervenire con il proprio contributo disciplinare nel solco tracciato dagli interessi economico-politici prevalenti, fornendo loro una concreta fisionomia tecnica e organizzativa, ma, in generale, dimostra la capacità di far confluire nell'attuazione di un programma promosso e sostenuto da precise istanze celebrative valori condizionanti di natura specificatamente progettuale.6

 

Del Monumento alla Vittoria egli intende fare il centro per il futuro sviluppo urbanistico del nuovo e del vecchio centro abitato, un vero e proprio fulcro intorno a cui far ruotare tutta la città, quasi il centro di un vortice che, più del monumento stesso, simboleggi e attui le forze dei tempi nuovi, un irraggiamento di vettori che mettano in rapporto dinamico le varie parti della città, sia quelle esistenti, sia quelle di là da venire. Il Monumento alla Vittoria, quindi, non vuole essere solo un orpello decorativo, celebrativo dell'italianità dell'Alto Adige redento e della forza del regime, ma ha l'ambizione di divenire il centro del futuro sviluppo della città, raccordando la parte tedesca dell'abitato con la parte nuova (e italiana). Ma Piacentini va oltre, e vuole che il monumento stesso non sia solo un'affermazione di italianità in terra tedesca, bensì uno strumento per ribadire l'unicità del regime e l'esclusione di ogni voce critica nei suoi confronti, a prescindere dall'appartenenza etnica:

 

A Bolzano vengono mescolati i simboli della patria con quelli del fascismo. Come ha scritto Emilio Gentile, il regime si appresta a "servirsi degli altari della patria per celebrare in uno Stato integralista, il culto del littorio. Il monumento di Bolzano, meglio di altri "altari", si fa simbolo di una "patria in camicia nera". Il suo dispositivo identitario è eloquente: come aveva chiesto Mussolini, salda la patria con il fascismo; e con arroganza esclude dal culto della patria chi non crede nel fascismo. L'identità si costruisce sulla base di un'alterità, che definisce netti i confini dell'appartenenza e dell'esclusione. Straniero non è solo chi non è italiano, come gli altoatesini sulle cui terre si costruisce questo edificio "segno di conquista"; stranieri e nemici della patria sono diventati anche gli italiani, sempre più minoritari, che amano la libertà e che ora si oppongono alla dittatura del fascismo.7

 

Vero centro della nuova Bolzano e generatore di quelle forze che avrebbero dovuto cambiare il volto alla città, il monumento si inseriva in un progetto che contemplava per la città vecchia anche interventi di diradamento e di sventramento vero e proprio, fortunatamente realizzati solo in piccola parte. Infatti, il progetto prevedeva il restringimento dell'alveo del torrente Talvera, per permettere la realizzazione di una grande piazza davanti al Monumento, su cui si sarebbero affacciati il Palazzo del Governo e il nuovo Municipio, prospicienti la città vecchia, in cui si sarebbe entrati attraverso un breve ponte affiancato da due edifici nuovi, una sorta di propilei dominanti la città "tedesca". Dal Monumento sarebbero partite poi le due strade principali verso Merano e verso la Mendola, attraverso nuove piazze e nuovi quartieri rigidamente connotati dalle loro funzioni, seguendo in questo le teorie urbanistiche della "zonizzazione". Vennero dunque previsti, e in parte realizzati, quartieri per impiegati, per operai, una zona industriale, edifici pubblici. Ma, a differenza di altre situazioni8, in cui il centro storico veniva a essere l'effettivo centro propulsore dello sviluppo urbanistico, Piacentini, avendo a disposizione un grande spazio poco abitato su cui intervenire, a Bolzano progettò anche un nuovo centro, che sostituisse, in nome dell'italianità dell'Alto Adige e a gloria del regime, il vecchio centro storico tedesco.

 

La realizzazione del Monumento alla Vittoria

 

[…] il Duce dette l'incarico all'architetto Marcello Piacentini di erigere un Monumento alla Vittoria a Bolzano. Aveva idee sue - il Duce - e come sempre chiare, precise: ne può far fede uno schizzo architettonico a matita, da lui sbozzato, ch'oggi può costituire cimelio prezioso, nelle mani del ministro Fedele.9

 

[…] Mussolini avrebbe personalmente abbozzato lo schizzo dell'arco e concordato direttamente con l'architetto alcune parti del monumento. Secondo Mario Lupano, Piacentini dovette convincerlo a desistere dalla proposta di coronare l'arco con un cannone puntato verso l'Austria. A ricordo dell'aggressivo suggerimento mussoliniano, l'architetto ha raccolto con un veloce schizzo l'idea su un taccuino.10

 

Non importa qui sapere se l'episodio sia realmente accaduto o faccia solo parte dell'agiografia mussoliniana, per cui il Duce ha, per definizione, idee "chiare e precise" praticamente su ogni aspetto dello scibile umano, architettura compresa.

 

[…] Accanto al Mussolini aviatore, al Mussolini minatore, al Mussolini mietitore la propaganda di regime diffonde l'icona di Mussolini architetto11

 

E qui è importante sottolineare quanto la decorazione scultorea fosse per Piacentini importante per realizzare i suoi progetti, al punto che perfino nel contratto del 12 novembre 1926, che regolamenta l'effettuazione di lavori per il monumento, si legge:

 

Art. IV
L'Architetto Piacentini si assume in totale la responsabilità dell'esecuzione del Monumento nei riguardi artistici e costruttivi. Assume inoltre l'obbligo di sorvegliare i quattro scultori, sia nella interpretazione del progetto, sia nella esecuzione, onde si abbia a conseguire armonia e unità. […]
Gli scultori Sigg. Libero Andreotti, Pietro Canonica, Arturo Dazzi e Adolfo Wildt hanno dichiarato di accettare la direzione artistica dell'Architetto Piacentini nella esecuzione delle rispettive opere.12

 

Controllo ferreo, dunque, su tutto il progetto, dalla sistemazione urbanistica al minimo particolare decorativo, nell'intento di conseguire la massima unità e omogeneità del risultato. Impresa non facile, viste le differenze stilistiche tra gli artisti coinvolti nell'impresa, ma sostanzialmente riuscita. Piacentini usa il Monumento alla Vittoria di Bolzano per sperimentare soluzioni atte a creare un nuovo stile adatto ai tempi nuovi e a esaltare il simbolo per eccellenza del regime fascista: il fascio littorio.

 

Se Mussolini ha l'arroganza di imporre a simbolo di Stato un emblema di partito, l'architetto va oltre e inserisce un elemento ornamentale, che ha valenza politica, contingente nella regola millenaria degli ordini architettonici. Piacentini […] si dilungherà nella ricerca di un'esatta divisione della pianta della colonna in lobi per non farla somigliare né al tipo egizio, né al semplice fusto scanalato; motiverà la decisione di eliminare la base e il capitello con l'intenzione di esaltare il carattere di fascio del littorio.13

 

Vero atto fondativo di una nuova città, il Monumento alla Vittoria di Bolzano avrebbe segnato con la sua presenza la città di Bolzano nei decenni a venire, al centro fisico dello sviluppo urbanistico futuro e attuale, e al centro simbolico di tutte le battaglie politiche dal dopoguerra a oggi. E al centro del Monumento alla Vittoria, di quello che doveva essere, e fu, il fulcro, il "motore immobile" dello sviluppo della città di Bolzano si erge il "Cristo risorto" di Libero Andreotti.

Gli scultori coinvolti nel progetto del monumento sono, inizialmente, quattro: Libero Andreotti, Pietro Canonica, Augusto Dazzi, Adolfo Wildt, a cui si aggiunge in un secondo momento Giovanni Prini. Guido Cadorin, autore dei due affreschi della cripta rappresentanti "La custode della Patria" e "La custode della Storia", sarà l'unico pittore chiamato a collaborare al progetto.

Nonostante qualche incertezza iniziale, riferita al coinvolgimento - e all'emarginazione successiva dall'elaborazione del progetto finale - di Pietro Canonica e, come vedremo, soprattutto al contributo di Libero Andreotti, il programma iconografico elaborato da Marcello Piacentini per il monumento si delinea presto in maniera coerente e funzionale al messaggio che si vuol trasmettere.

Seguiamo Roberto Papini, che inizia la sua particolareggiata descrizione del monumento, apparsa su "L'illustrazione italiana" in concomitanza all'inaugurazione, dal Cristo di Andreotti, visto

 

[…] come simbolo della resurrezione degli eroi. S'erge bronzeo dall'ara di porfido, fra i colonnati che trasformano il monumento in cappella basilicale, l'arco onorario in sacello di preghiera. Sul fastigio sta la Vittoria alata; ma fra le mura consacrate dalla croce stanno i simulacri dei màrtiri; e i fasci littorii riassumono il loro antico significato d'emblemi d'una funzione di giustizia; e nella cripta le figure simboliche dell'amor di patria e della storia hanno le ali degli angioli di Dio. [..] Vittoria e sacrificio, connubio italico perché romano e cristiano insieme.14

 

Aggiungiamo che nella parte posteriore dell'ara con il Cristo si trova un bassorilievo di Andreotti che mostra il sacrificio di un giovane eroe soldato in un'azione di guerra.

Un sincretismo tutto novecentesco permea quest'interpretazione, e un tentativo di collegare la grande tradizione romana (e greca: non dimentichiamo che il monumento non ha archi, ma un architrave appoggiato a colonne scanalate, di ispirazione greca), con la rivelazione cristiana. Quindi, il sacrificio dei martiri italiani viene paragonato al sacrificio di Cristo per la salvezza dell'umanità. L'equazione che si vuole proporre è quella della continuità della civiltà italiana da Roma a oggi attraverso la rivelazione cristiana, e quindi la giustificazione della sua superiorità rispetto al resto del mondo e, in particolare, al mondo tedesco. Non a caso, su questa parte del monumento incombe la "Vittoria Sagittaria" di Arturo Dazzi. La potente figura femminile, con lo sguardo, e l'arco, rivolto a nord, quindi verso il mondo tedesco, è installata in posizione dominante a guardia del sacro confine, e l'epigrafe posizionata sotto, dettata dal ministro Fedele15, recita:

 

HIC PATRIAE FINES SISTE SIGNA
HINC CETEROS EXCOLVIMVS LINGVA LEGIBVS ARTIBVS16

In un primo momento si voleva usare il termine barbaros, poi probabili considerazioni di ordine politico fecero preferire il più neutro ceteros.17

Tutto ciò rientra nel cambiamento intercorso nella concezione monumentale tra prima e dopo la Grande Guerra.

 

Sarà poi la Grande Guerra, con il suo tremendo lascito di morti, a progettare una nuova monumentalità insieme più distante e tragica, ma anche più collettiva: nell'esaltazione dei morti per la Patria, caduti in una guerra proclamata, ma non sentita, come termine di un lungo Risorgimento. Che il regime fascista riuscirà a piegare a un'idea di statuaria in cui i valori di sacrificio e obbedienza sembrano ispirarsi a una "romanità" d'invenzione, che di fatto annichiliva ed esauriva la tradizione liberale.18

 

Se la scultura del primo cinquantennio dell'Unità d'Italia aveva privilegiato la commemorazione delle grandi individualità patriottiche, simbolo della ritrovata unità - Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Mazzini, ecc., con la rara eccezione rappresentata dal Monumento all'alfiere dell'esercito sardo di Vincenzo Vela -, la prima vera guerra moderna di massa, priva di vere personalità eroiche capaci di attrarre l'immaginario popolare, scopre ed esalta la figura dell'umile soldato eroe, non più al seguito di un grande condottiero, ma illuminato da una luce di eroismo e sacrificio, spesso accostato, come vedremo, alla morte e resurrezione di Cristo per la salvezza dell'umanità. Ed ecco allora il proliferare di monumenti al soldato semplice, anonimo, che con la sua abnegazione ha permesso la salvezza della Patria. Ma anche l'immagine, paradossalmente e specularmente contraria, di chi, nella guerra, vedeva la disumanizzazione dell'umanità:

 

Nach dem ersten Weltkrieg sahen wir in der kleinen südfranzosischen Hafenstadt La Ciotat bei einem Jahrmarkt zur Feier eines Schiffsstapellaufs auf einem öffentlichen Platz das bronzene Standbild eines Soldaten der französischen Armee, um das die Menge sich drängte. Wir traten näher hinzu und entdeckten, daß es ein lebendiger Mensch war, der da unbeweglich in erdbraunem Mantel, den Stahlhelm auf dem Kopf, ein Bajonett im Arm, in der heißen Junisonne auf einem Steinsockel stand. Sein Gesicht und seine Hände waren mit einer Bronzefarbe angestrichen. Er bewegte keinen Muskel, nicht einmal seine Wimpern zuckten.
Zu seinen Fiißen an dem Sockel lehnte ein Stück Pappe, auf dem folgender Text zu lesen war:

DER STATUENMENSCH
(Homme Statue)

Ich, Charles Louis Franchard, Soldat im …ten Regiment, erwarb als Folge einer Verschüttung vor Verdun die ungewöhnliche Fähigkeit, vollkommen unbeweglich zu verharren und mich beliebige Zeit lang wie eine Statue zu verhalten. Diese meine Kunst wurde von vielen Professoren geprüft und als eine unerklärliche Krankheit bezeichnet. Spenden Sie, bitte, einem Familienvater ohne Stellung eine kleine Gabe!

Wir warfen eine Miinze in den Teller, der neben dieser Tafel stand, und gingen kopfschüttelnd weiter.19

 

Il contributo di Libero Andreotti

 

L'attività di Andreotti nel campo della scultura monumentale era già iniziata nel primo dopoguerra, nel 1922, con la realizzazione del Monumento ai caduti di Roncade, seguito nel 1923 da quello di Saronno e dal Monumento alla Madre Italiana in Santa Croce a Firenze del 1926.

Dalla fine della prima guerra mondiale si assiste, in Italia, a un proliferare di omaggi resi ai caduti della Grande Guerra, sentita veramente, e per l'ultima volta, come episodio di valenza aggregante, quasi ultimo e definitivo atto (e mito fondatore) del processo di unificazione della penisola. Centinaia di monumenti sorgono nelle piazze italiane, moltissimi, oltretutto, frutto di sottoscrizioni e collette popolari, e gli scultori sono impegnati come non mai per soddisfare tutte le richieste.

Perfino un artista come Libero Andreotti, reduce da esperienze parigine nell'anteguerra di tutt'altro genere, viene coinvolto quasi suo malgrado, come vedremo, in questo processo di monumentalizzazione delle città e dei paesi.

Arrivato tardi alla scultura, intorno ai trent'anni, Andreotti scolpisce le sue prime opere nel 1902, provenendo da esperienze di ottimo illustratore e di mediocre pittore, sulla scia di Fattori e di un impressionismo venato di simbolismo.

Gli anni trascorsi a Parigi, tra il 1909 e il 1914, lo mettono in contatto con quanto di meglio potesse offrire allora il panorama artistico internazionale. Eccolo allora guardare con interesse a scultori come Bourdelle e Minne, nonché a pittori come Maurice Denis20, che gli aprirà la strada a un simbolismo di carattere religioso che, dopo le prime prove parigine, come il Beato Angelico del 1915, si svilupperà in pieno nel dopoguerra.21

Ma Andreotti produceva anche statue, sulla scia di Paolo Troubetzkoy, adatte al clima spensierato della Parigi d'anteguerra che premiava artisti in grado di soddisfare le esigenze di una borghesia ricca e compiaciuta di se stessa. Opere in cui si faceva sentire prepotente anche l'inevitabile influenza di Auguste Rodin e di Medardo Rosso, veri punti di snodo tra un secolo, e un'arte, che finiva e un nuovo secolo che si apriva, pieno di speranza e di fiducia nel futuro.

La tragedia della prima guerra mondiale e la propensione di molti artisti a ritornare alla tradizione e al confronto non accademico con l'arte del passato porterà alla nascita di quel movimento eterogeneo e composito che verrà indicato dalla storiografia come "Ritorno all'ordine", espressione forse impropria e riduttiva, anche se efficace per definire una tendenza a ricollegarsi con gli "antichi", con il classico.

Anche Libero Andreotti venne influenzato da questo clima. Costretto in fretta e in furia a lasciare la Francia allo scoppio della guerra, nel 1914 si stabilì a Firenze, dove entrò in contatto con Ugo Ojetti, intellettuale e uomo di potere che molto influirà sulla sua produzione posteriore. Sarà proprio Ojetti a spingere Andreotti a dedicarsi al monumento, perché in lui vedeva:

 

Lo scultore "giusto" nella propria ottica: dalle sue ultime opere, cresciute in presa diretta su quei modelli francesi [Bourdelle, Maillol, Bernard. N.d.A] bastava scortecciare le residue tracce di intellettualismo chic per mettere a nudo le radici toscane e farne le limpide epifanie dei propri pensieri.22

 

Ojetti, nella sua polemica contro i monumenti "di pasta, stoppa e vetro"23 e nella sua battaglia contro gli eccessi delle avanguardie per un ritorno alla tradizione nazionale, trovò in Andreotti la potenza e la semplicità di concepire la scultura monumentale che affondava le sue radici nella grande statuaria italiana medievale e rinascimentale. Andreotti, invece, concepiva il suo cambio di linguaggio rispetto alle sue opere parigine come una scoperta della commozione per la figura umana creatura di Dio.

La contraddizione nascosta in queste due visioni dell'arte, soprattutto di quella monumentale, l'equivoco insito nel rapporto conflittuale tra una scultura pubblica che tendeva sempre più alla retorica dei sentimenti e, subito dopo, alla celebrazione del regime, e le esigenze intimiste, religiose del nostro scultore non tarderanno a emergere. E le polemiche sul Monumento alla Madre Italiana di Santa Croce, nonché il fallimento dell'impresa del Monumento ai Caduti di Milano amareggeranno gli ultimi anni di Andreotti, "monumentajo per forza".24

 

Roma, 18 maggio 1926
Sono lieto annunziarle inclusione vostro nome tra i quattro scultori del monumento Bolzano saluti affettuosi Piacentini25

Roma 3/6/26
Caro Andreotti - Ho combinato definitivamente con il ministro Fedele l'assegnazione dei lavori: a Lei è rimasta dunque l'ara. Le manderò a giorni le misure esatte: intanto non ho voluto tardare a darle la notizia. Riceverà forse oggi stesso la lettera ufficiale del Ministero. Tanti cari saluti. Marcello Piacentini26

 

Con un telegramma e questo breve e conciso biglietto inizia l'avventura di Libero Andreotti nell'impresa della costruzione del Monumento alla Vittoria di Bolzano. Il progetto, partito, come abbiamo visto, il 12 febbraio 1926, procede, per merito di Piacentini, a grandi passi e con molta rapidità, e già il 12 giugno 1926 l'architetto scrive una lunga lettera ad Andreotti, dandogli le prime particolareggiate indicazioni sull'opera da compiere:

 

Roma 12 giugno 1926

Caro Andreotti,

Le ho spedito un primo schizzo dell'ara. Dopo lunghi colloqui avuti con alcuni del Comitato si è determinata l'idea di intensificare sempre più il concetto di dedicare il Monumento più alla Vittoria e meno o quasi affatto ai Martiri Trentini. In una parola è questo il Monumento che l'Italia erige per la sua guerra e per la sua vittoria. L'ara quindi che rappresenta l'elemento più significativo e spirituale di tutto il Monumento deve corrispondere a questo concetto. Mentre la vittoria è simboleggiata dalla grande figura del fastigio, nell'ara deve essere simboleggiata la guerra: insomma l'ara rappresenta sostanzialmente il Monumento al fante. Avrei perciò pensato di svolgere in essa una concezione completa, non episodica, ma epica, che dicesse nelle sue varie pagine la storia sintetica della guerra e l'esaltazione del soldato.
Sulla fronte principale il quadro di sinistra dovrebbe rappresentare la partenza del soldato che si distacca dalla madre attirato da una vittoria ad ali spiegate. I tre pannelli posteriori dovrebbero rappresentare la guerra combattuta: si potrebbero attribuire alla guerra della terra, del mare e del cielo.
Per questo o attingere ispirazione a un simbolismo classicheggiante, figurando nella prima la lotta di un uomo con un centauro, nella seconda una dea del mare in lotta con un uomo, e nella terza un'aquila che solleva un soldato, ovvero, più veristicamente, rappresentare nella prima un corpo-a-corpo tra due soldati, nella seconda una scena tragica nell'interno di un sottomarino, nella terza la morte di una o due figure (forse muliebri) colpite da una bomba lanciata da un aereoplano. Queste tre rappresentazioni simboleggerebbero pure implicitamente i tre sacrifizi, del soldato in combattimento, del soldato che muore per cause indirette, del cittadino.
Tornando sulla fronte principale il pannello di destra rappresenterebbe la fine della guerra, il ritorno dell'eroe morto, trasportato dalla vittoria ad ali spiegate. Questi due pannelli della fronte a loro volta possono simboleggiare i due grandi martìri: della donna (madre, sposa, sorella) e del soldato. Nel centro la resurrezione, la immortalizzazione, la incoronazione del milite ignoto che guarda in alto verso il cielo, incoronato di alloro.
Sui quattro angoli la sua magnifica idea delle quattro virtù cardinali. In basso un altare, in alto una tazza fumante.
Materiali: tutto lo scheletro lo vedo sempre in porfido viola. Il quadro centrale dell'apoteosi del milite ignoto in argento, le quattro virtù pure in porfido che dovrebbero fare tutt'uno con l'architettura, con modellazione squadrata e rigida. I pannelli possono essere o in bel marmo giallo o rosa, o in bronzo.
Mi dica Lei il suo pensiero e la Sua sincera impressione. Io credo che potremo in questo modo compiere opera veramente epica e sostanzialmente significativa.
La saluto con molto affetto

Suo aff.mo Marcello Piacentini.27

 

Come si evince da questo particolareggiato progetto, il ruolo di Andreotti nella realizzazione dell'apparato scultoreo doveva essere, in prima battuta, il più importante rispetto a quello degli altri scultori coinvolti: un'ara enorme, piena di bassorilievi e statue, inserita al centro del monumento, con, a fianco, i busti dei Martiri Trentini inseriti in nicchie. Questo progetto verrà rapidamente ridimensionato, probabilmente anche per l'intervento di Wildt, autore dei tre busti dei martiri trentini, a cui verrà in pratica affidata la sistemazione dell'interno del monumento.

Andreotti propone un accostamento al Salmo di Debora, in realtà uno dei primi cantici della Bibbia (Giudici, 5). In questo cantico Debora racconta la storia della guerra contro i Cananei, a cui seguirà un lungo periodo di pace. Il raffinato soggetto dimostra la profonda frequentazione di Andreotti con i testi sacri, e una citazione dal testo appare sul modello di ara preparato da Andreotti. La celebrazione della vittoria e degli eroi guerrieri veniva quindi tradotta da Andreotti in termini profondamente religiosi, cosmici, andando addirittura alla radice della religione cristiana, assolutizzando un argomento che invece voleva essere declinato in termini molto più retorici ed emozionali. Non stupisce dunque il rifiuto di Piacentini di accettare un soggetto così lontano dagli intenti celebrativi del monumento. E si riconferma l'intima contraddizione dell'artista Andreotti, oramai volto a una interiorizzazione dell'espressione scultorea, tesa a esprimere in forme assorte e contemplative la commozione per la figura umana, nel mistero della sua unione con Dio, costretto invece a muoversi faticosamente tra le maglie dell'ufficialità e dell'invadenza della committenza.

Il 12 agosto 1926 Andreotti scrive sconsolato a Carpi:

 

P. mi propone di ridurre a due le 4 virtù cardinali. Ma adesso è più chiaro è più preciso ed ho come la sensazione che un'intesa senza compromessi non sia più possibile. Rispondo subito a P. in modo che non trapeli la mia delusione […] Del resto non è la prima né sarà l'ultima - la prima fu il suo disegno per l'ara, poi la sua lettera dei centauri - delle sirene e della tazza fumante.28

 

Ma cosa era successo in così breve tempo da modificare in maniera così radicale il progetto di Piacentini esposto nella lettera del 12 giugno? Probabilmente, il coinvolgimento di Adolfo Wildt nella realizzazione dei busti dei tre martiri segnò un cambio di rotta nella concezione dell'interno del monumento. Adolfo Wildt era in quel momento lo scultore italiano più famoso in Europa - anche se dopo la sua morte nel 1931 cadde quasi nel dimenticatoio della storia dell'arte, e solo da poco si è ricominciato a studiarlo29 - e quindi in possesso di un potere contrattuale piuttosto forte.

Ciò indusse sicuramente Piacentini ad affidare a lui la sistemazione dell'atrio del monumento, che infatti passò dal progetto iniziale piacentiniano di taglio tradizionale, con l'ara al centro e nicchie alle pareti per contenere i busti, a uno spazio quasi metafisico in cui le tre teste, appoggiate su alti basamenti, si stagliavano contro pareti lisce, ritmate solamente dal gioco dei materiali diversi, e inquadrate da accenni di cornici. Una tale sistemazione aveva bisogno di spazio per essere pienamente fruibile nei suoi valori spirituali, e la mole dell'ara progettata da Andreotti non poteva sicuramente conciliarsi con lo spazio metafisico disegnato da Wildt. Ecco allora il ridimensionamento del progetto di Andreotti. La rinuncia alle statue delle quattro virtù dovette essere piuttosto dolorosa per Andreotti. In una lettera del 9 giugno 1926 ad Aldo Carpi, Andreotti si dichiara contento di poter finalmente "ritirare dal Catechismo le belle quattro dimenticate Virtù cardinali e farne quattro belle sculture."30 E in un'altra lettera del 1° settembre 1926, oltre a lamentarsi della mancanza di notizie da parte di Piacentini, afferma di lavorare alle sue virtù "ogni giorno".31

Il 6 ottobre 1926 Piacentini conferma l'impossibilità di realizzare il progetto iniziale comprendente anche le quattro statue delle virtù. Nonostante ciò, Andreotti scrive a Piacentini una lettera non datata, ma presumibilmente del 24 luglio 1927, in cui appare un accenno al bassorilievo:

 

Caro Piacentini
Finalmente ho abbandonato il Cristo che si sta già formando e che consegnerò subito per la fusione. Ho avuto ieri la visita di Vignali32 a cui ho pure chiesto un prezzo per la fusione del primo modello che tu mi dicesti desideri avere per te. - [...] e mi dirai se intraprendere il bassorilievo, lieto di potervi consumare tutto intero il mio tempo di queste vacanze. Non sono ancora riuscito ad avere da Mauri un preventivo esatto, so soltanto che mi puoi con preavviso di qualche mese, trovare il lastrone di 2.40x2.50x0, 50 di granito [...] che verrebbe a costare in caso più di 3000 Lire almeno. Gli mando la fotografia del bozzetto per poter fare gli altri scandagli [...]33

 

Altra corrispondenza sul bassorilievo non c'è. E anche la critica dell'epoca non si sofferma più di tanto su quest'opera. Eppure, il bassorilievo fa parte integrante del programma iconografico del monumento, rappresentando

 

[…] un campo di battaglia raffigurato con due vittorie in opposta diagonale, l'una che sorregge il caduto, l'altra che indica il segno del combattente […]34

 

Anche la stampa dell'epoca non ne parla molto. In un articolo pubblicato sul Messaggero del 10 luglio 1928 si legge:

 

Nella parte posteriore dell'altare, l'Andreotti ha ingegnosamente immaginato un grande altorilievo, pure in bronzo, (m. 2, 80x2, 40), raffigurante - in basso - una vittoria che incita il soldato, dei più giovinetti, a lanciare una bomba a mano, ed - in alto - un'altra vittoria, che vola in senso inverso e si trascina per i cieli lo stesso soldato morto, ma avviato all'eternità della gloria.35

 

Da notare che la descrizione è completamente sbagliata, frutto forse di disattenzione da parte dell'osservatore o, più probabilmente, di cattiva interpretazione di un comunicato stampa. O, forse, il travisamento del soggetto rispecchia il clima dell'epoca, che voleva eroi da innalzare in cielo e non vittime da compiangere. Infatti, mentre il bassorilievo rappresenta, in alto, una Vittoria che incita il giovane a lanciare una bomba a mano, in basso lo stesso giovane, morto in combattimento, viene abbracciato e pianto dalla stessa Vittoria. Non dunque un'apoteosi dell'eroe, ma commozione per la morte di un giovane. La pietas umana di Andreotti si scontra con le esigenze della propaganda politica.

Forse la sua posizione, sul lato dell'altare che dà verso il parco, alle spalle del Cristo, ne impedisce una chiara visione, fatto sta che meriterebbe un'attenzione maggiore. La oramai consumata capacità di Andreotti di gestire le masse nello spazio con l'apparente semplicità di linee verticali e orizzontali e piani netti riesce a trasformare un'immagine potenzialmente retorica in un episodio di salvazione evangelica, in diretto rapporto col Cristo Risorto sul davanti, vero salvatore dell'umanità.

Al suo Cristo Risorto, Andreotti lavorò con passione e con fatica. Un bozzetto del 1927 già comunque delinea quella che sarà la forma definitiva della statua. L'unica differenza sostanziale è l'eliminazione del drappo che scende in diagonale dalla spalla sinistra: sembra che Andreotti abbia voluto privilegiare l'esaltazione della purezza del tronco del Cristo, quasi trasformandolo in colonna, simbolo radioso di salvezza, non drammatico ma comunque evocativo di una serenità classica, quasi donatelliana, - ma anche con particolari assonanze con la statuaria egiziana, messa in evidenza dall'inquadramento delle colonne - nella citazione del volto del crocefisso di Santa Croce. Leggiamo cosa scrive Piacentini sulla posa in opera delle sculture di Andreotti

 

Roma, 18.6.28
Mio caro Andreotti,
oggi ho fatto ritorno a Roma, ed ho trovato la tua lettera. Sono assai seccato che questa benedetta gente del Ministero non ti abbia ancora mandato la terza rata: hanno tutti i visti (ho fatto mettere pure la firma di Colasanti!) e tutti i sacramenti, e non hanno ragione di farti ancora attendere.
Oggi tornerò ancora una volta alla carica. Anzi senz'altro preparerò il saldo definitivo. Il tuo lavoro è superba opera d'arte: il Cristo e il bassorilievo formano insieme il tuo capolavoro.
Con il porfido dell'ara si fondono benissimo, appoggiati sul pavimento completamente nero.
Il Cristo è battuto dal sole alla mattina, il bassorilievo nel pomeriggio: ambedue si delineano tra due fasci bianchi-rosati, con un effetto di nobiltà intenso. Il bassorilievo sul posto sta perfettamente: non dico che sembri piccolo, ma, tale è la mole d'intorno, che risulta opera dettagliata e non rude, come poteva sembrare al tuo studio. Ciò che desideravo. C'è del classico e del pisano: rammenta, come chiaroscuro, uno dei grandi pulpiti toscani.
L'interno del monumento, con i suoi molteplici marmi (porfido, nero di Mari, serpentino verde, cipollino dorato, paonazzo d'avorio, e la gemma di lapislazzuli) sembra un museo: ha tutta la ricchezza delle grandi sale del Vaticano.
Di sera il Cristo viene tutto avvolto in una luce che scende conicamente dal soffitto - di faccia in mezzo alla oscurità generale. Effetto teatrale, ma mistico e assai suggestivo.
Fummo dispiacenti di non averti con noi. Io arrivai, è vero, molto tardi, ma lo feci solo quando fui certo di potervi trovare a Bolzano.
Devi però venire alla inaugurazione: per lo meno due o tre giorni prima. Ne riparleremo.
Ti sono grato del grande contributo che hai portato con così profonda coscienza al mio lavoro.
Ti abbraccio con molto affetto.

Tuo Marcello Piacentini36

 

E si arriva al 12 luglio 1928, anniversario della morte dei tre Martiri Trentini. Esattamente due anni dopo la posa della prima pietra, il Monumento alla Vittoria di Bolzano viene inaugurato.

Andreotti, suo malgrado, è costretto ad andare all'inaugurazione. Le amarezze per il ridimensionamento del progetto nel corso del biennio precedente si fanno sentire, e anche la consapevolezza delle critiche, che, come vedremo, vengono elevate nei confronti del suo Cristo. Fortunatamente, il viaggio si rivela migliore del previsto. In una lettera alla moglie Margherita scrive:

 

Ed eccoci giunti davanti al monumento che nell'assieme è bello e si presenta pieno di dignità. […] L'opera mia non mi sembra al di sotto degli altri. […] Bolzano è deliziosamente ordinata. […]37

 

Negli stessi giorni Andreotti scrive ad Aldo Carpi le sue impressioni sul viaggio a Bolzano per l'inaugurazione del monumento ed esprime liberamente le sue opinioni:

 

Sono stato a Bolzano. Cerimonia imponente magnifica. Paesi incantevoli. […] Il monumento è bello nel suo insieme, sproporzionati i testoni di Wildt. La Vittoria di Dazzi niente più di un elemento decorativo ordinario. Il mio Cristo è stato incassato in una nicchia e avrebbe fatto meglio se si fosse tenuto più a filo, ma non fa male, assai bene il rilievo. Ma che pena vedere l'opera propria oramai al suo posto - Che fare? - Pazienza e vendetta - Non ci resta altro da fare, caro Aldone. Mi è stato risparmiato il tuffo nel disonore che mi attendevo ma tutto era stato preparato a dovere e doveva ricordarmelo il Vescovo di Trento che davanti al mio Cristo niente a parer suo giustificava la bassa campagna fatta contro quest'opera dalla Duchessa d'Aosta persino - […] La Duchessa d'Aosta so che è molto amica di Romanelli e credo anche di Canonica… Romanelli non c'è e Canonica fa pietà con le sue tre puttane […]
Un particolare divertente è che Wildt ha stampigliato della sua firma i suoi tre testoni di margharina [sic], egli temeva forse che alcuno se ne appropriasse la paternità.
Egli non c'era, sdegnoso, mi hanno detto che attendesse l'invito di S.M.38

 

Giudizi taglienti e impietosi, come si vede, forse dettati dalla delusione per le difficoltà incontrate nei due anni precedenti nella realizzazione delle sue opere, ma anche dall'amarezza per gli attacchi e le critiche a lui portati da un certo ambiente vicino alla casa regnante, come si evince dai pochi accenni nelle lettere, attacchi che forse sortiranno i loro frutti nel fallimento dell'ultimo progetto pubblico di Andreotti. L'artista è oramai preso completamente da questo progetto monumentale: il Monumento ai caduti di Milano. Ancora illuso di poter riuscire ad affermare la propria libertà di immaginazione, di eliminare la retorica dalle sue figure, di basarsi solo sulla bellezza dei corpi, Andreotti si scontrò con una serie di vincoli che lo soffocarono.

La sua ricerca spirituale, il suo percorso esistenziale oramai non avevano più spazio in un mondo che sempre più si avviava alla celebrazione del regime e al trionfalismo dell'uomo onnipotente.

 

Non fu sconfitto il suo lavoro: in poco meno d'un decennio, con largo anticipo su Arturo Martini, egli si era reso che la scultura era "lingua morta". Quella monumentale, s'intende.39

 

Analoga delusione soffrirà Arturo Martini qualche anno dopo, nel 1935. Già estromesso nel 1933 dai grandi lavori per il Foro Mussolini - per palese incompatibilità con le richieste retoriche e celebrative della committenza -, venne sconfitto nel concorso per il monumento a Emanuele Filiberto per Piazza Castello a Torino da un progetto retorico e passatista di Eugenio Baroni, e accusato di astrattezza intellettuale.

È tempo di trionfo del regime, di celebrazione del Duce, di affermazione retorica di potenza. E non c'è più spazio pubblico per artisti che invece, continuamente interrogandosi sul proprio lavoro e sul proprio percorso, cercano un rapporto di più ampio respiro con la cultura europea, rischiando però di chiudersi in una sorta di torre d'avorio, in una pretesa di superiorità morale nei confronti del quotidiano. Insomma, Andreotti, scottato dalle esperienze istituzionali e sempre più determinato a seguire finalmente la sua via intimista e religiosa, si rese conto che

 

L'"anello che non tiene", il "punto morto del mondo", in quegli anni di monumenti e solennità, era di essersi smarrito tra le glorie nazionali, di non trovarsi più in sintonia con il clima culturale europeo.40

 

Libero Andreotti morì nel 1933, a cinquantotto anni. Finito il periodo monumentale, negli ultimi anni si dedicò, finalmente, a dare forma e volto a figure interiorizzate nella sua coscienza, fantasmi silenziosi che scrutavano il mistero della vita e dell'arte, ritornando anche a guardare i suoi antichi maestri. Non ebbe quindi il tempo per approfondire ulteriormente i dubbi e le problematiche relative all'arte scultorea e al suo posto nel mondo. Ma sicuramente avrebbe sottoscritto quanto, dodici anni più tardi, un artista di poco più giovane, e come lui interessato ad approfondire il significato esistenziale del fare arte, del fare scultura, Arturo Martini, avrebbe dolorosamente scritto:

 

L'arte non sopporta teorie, generi, stili. È un discorso spontaneo, misterioso ma fatale, come lo svolgersi della nascita nel grembo materno; una facoltà naturale eterna che stupisce per la semplicità di ripetersi nel tempo come il filo d'erba.41

 

Conclusione

 

Nel bene e nel male, il Monumento alla Vittoria di Bolzano è stato ed è tuttora un punto di riferimento ineludibile per tutti i sudtirolesi, sia che venga attaccato, sia che venga difeso. In se stesso può essere preso a paradigma dell'ambiguità sociale e politica che ancora oggi permea il dibattito politico e sociale nella provincia di Bolzano. Dibattito a tratti paradossale, in cui si può assistere leggere la trasversalità dei significati che di volta in volta si sono voluti dare al monumento, con la strana convergenza di interessi tra posizioni tedesche di estrema destra, favorevoli alla distruzione del monumento in quanto segno potente dell'occupazione italiana, e posizioni italiane di estrema sinistra che, in nome dell'antifascismo, chiedono la soppressione di un simbolo del passato regime mussoliniano. L'estrema destra italiana, invece, risoluta a proteggere ad ogni costo il simbolo dell'italianità dell'Alto Adige, si trova a fianco di una sinistra moderata che, in una selva di sfumature e di distinguo, opera per mantenere il monumento, ma nell'ambito di una sua storicizzazione che permetta di disinnescare le tensioni che esso ancora suscita.

Non è questa la sede per analizzare le diverse, e opposte, ragioni che per tutti questi anni hanno contrapposto, anche molto violentemente, le svariate opinioni rispetto al suo significato e al suo destino.42

Quello che mi preme sottolineare è quanto sia importante il valore rappresentato dall'esistenza e dalla presenza di un monumento pubblico all'interno di una comunità, di quanto esso sia ancora in grado di veicolare messaggi ideologici, etici, politici, e quanto questi stessi messaggi vengano ancora sentiti come importanti in un'epoca che si vorrebbe dominata invece solo dalla comunicazione televisiva e digitale. E la violenza di cui il Monumento alla Vittoria è stato fatto oggetto nel corso della sua vita, anche in tempi recenti, dimostra quanto la sua presenza sia importante, e a volte ingombrante, e quanto necessario sia trovare una via che permetta la sua definitiva storicizzazione. Questa via, qualunque essa sia, può solo partire da un presupposto: la conoscenza.

I cittadini di Bolzano non conoscono il Monumento alla Vittoria. Per decenni esso è rimasto sbarrato, circondato da un sorvegliatissimo recinto, sempre presente ma nello stesso tempo lontanissimo, quasi un oggetto atterrato da un altro pianeta. Forse è giunto il momento di restituirlo alla città, di normalizzarlo, di conoscerlo. Solo ciò che non si conosce fa paura.

 

Il monumento pubblico - a differenza del memoriale, che rappresenta normalmente un lutto collettivo privo di un significato esemplare43 - è un oggetto architettonico ed urbanistico in grado di catalizzare gli umori di un popolo, le contrapposizioni, le speranze, le tragedie.

 

Il linguaggio del monumento nei confronti di un determinato evento è diverso dal racconto soggettivo dei suoi attori, dagli studi storici e dalla volontà politica dei suoi committenti. Il monumento è un'interpretazione dell'evento attraverso un linguaggio originale, proprio di un artista, e allo stesso tempo condivisibile, in un momento storico anch'esso definito e sempre diverso da quello dell'evento stesso. Al monumento non chiediamo di affermare la verità, bensì di esprimere la memoria dell'evento e di formularne un giudizio: solo all'arte si può affidare questo compito così difficile e prezioso per la società.44

 

Se questo discorso può essere vero in una società democratica, in cui le decisioni vengono prese dai cittadini o dai loro rappresentanti, per cui si può supporre che siano condivise, il problema del monumento pubblico si pone per i regimi dittatoriali, in cui il monumento stesso è sentito come incarnazione del dominio. In tutte le rivoluzioni, anche recenti, uno dei primi atti compiuti dai rivoltosi è stata la distruzione dei simboli del potere abbattuto: le statue di Mussolini, Stalin, Saddam Hussein sono state attaccate e distrutte dalla furia popolare, senza minimamente badare al loro valore estetico e di testimonianza storica. L'eliminazione dell'oppressore passa attraverso la distruzione materiale dei simboli che ne rappresentano il potere. Ciò influisce anche sul giudizio estetico nei confronti delle opere prese di mira.

E qui si apre un capitolo delicato: quasi automaticamente, se un monumento diventa, a torto o a ragione, un simbolo di oppressione, il segno di un potere sconfitto, diventa "brutto".

Si sa quanto le categorie di "bello" e di "brutto" siano sfuggenti, aleatorie, diverse a seconda delle epoche e delle vicissitudini del pensiero. Ma fa impressione leggere come ancora adesso, in maniera subdola o inconsapevole, vengano usate a fini strumentali. La demonizzazione del nemico viene attuata anche attraverso la descrizione della sua "bruttezza".

E stupisce che uno scrittore come Sebastiano Vassalli, spero provocatoriamente, proponga addirittura - e nel 2011, dopo il secolo breve del rogo dei libri del 10 maggio 1933 a Berlino e della "entartete Kunst" - che "si potrebbe vendere quel monumento agli sceicchi e l'Italia non perderebbe nulla. I nostri grandi monumenti sono ben altri."45

Quali? Chi decide? Chi scrive alla lavagna i buoni e i cattivi?

È questa la ragione per cui è importante che la Storia dell'arte rilegga e studi i monumenti pubblici, cercando di capire in maniera più corretta possibile le ragioni della loro erezione, i travagli della loro realizzazione, i contributi degli artisti che hanno collaborato ai vari progetti.

Libero Andreotti fu un uomo del suo tempo: aggraziato scultore di statuine per la ricca borghesia parigina all'inizio del Novecento, coinvolto nella prima guerra mondiale che lo segnò - e non solo lui - profondamente, strumento, controvoglia, delle ambizioni di intellettuali di potere come Ugo Ojetti e Marcello Piacentini, coinvolto in imprese monumentali di cui probabilmente non capiva completamente il senso, perso in una ricerca interiore per placare la sua inquietudine esistenziale. Il suo Cristo risorto rimane una delle più belle realizzazioni di scultura religiosa dell'epoca, come ritiene Nicolò Rasmo, anche se contestato da Pier Luigi Siena:

 

Senza nulla togliere al valore della composizione si può certamente ritenere eccessiva e retorica l'affermazione di Nicolò Rasmo (Bolzano, Manfrini, 1958) secondo la quale "Il Cristo Risorto" è fra le più notevoli espressioni dell'arte moderna" offrendo "per la solennità semplice ed armoniosa, una testimonianza del permanere di quello spirito che ha fatto grande l'Italia nella civiltà e nell'arte.46

 

E il bassorilievo con il giovane eroe che muore lanciando la granata fa parte integrante dell'immaginario retorico seguito alla tragedia della prima guerra di massa dell'epoca moderna, in cui per la prima volta è il popolo a emergere, e non il condottiero. Una massa che prepotentemente viene alla ribalta, diventa protagonista in prima persona della storia, la fa, o pensa di farla. Rivoluzione bolscevica, rivoluzione cinese, fascismo, nazismo, movimenti di liberazione nazionale in Africa, le attuali rivolte in Medio Oriente una sola cosa hanno in comune: la partecipazione delle masse agli svariati processi storici. Masse a volte consapevoli, a volte strumentalizzate, ma in ogni caso protagoniste.

E ciò porta anche a un cambiamento del monumento pubblico, che, oltre ai dittatori di turno, celebra anche il soldato qualunque come simbolo del popolo intero. Ecco allora che considerare il bassorilievo di Andreotti come prodotto solamente di un'ideologia fascista è fuorviante, anche se in parte vero. Esso è il frutto di un sentire, all'epoca comune, che vedeva nell'anonimato del protagonista il simbolo dell'accresciuta importanza del popolo tutto nella gestione dello stato, e

 

[…] un trapassare, per così dire, dal gusto classicheggiante, o neoromantico, o neoidealistico della cultura liberal-borghese, all'enfasi vitalistico-nazionalistica della retorica fascista. […] con l'avvento del fascismo la rappresentazione eroica del combattente s'impone definitivamente su quella dolorante.47

 

Che tutto ciò fosse declinato in maniera diversa, e opposta, negli svariati angoli del mondo, e che spesso fosse un'illusione di cui il potere si approfittava, fa parte delle dinamiche storiche che già Walter Benjamin nel 1936 aveva lucidamente individuato:

 

Il fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però intaccare i rapporti di proprietà la cui eliminazione esse perseguono. […] Le masse hanno un diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella conservazione degli stessi. Il fascismo tende conseguentemente a un'estetizzazione della vita politica. Alla oppressione delle masse, che vengono schiacciate nel culto di un duce, corrisponde l'oppressione da parte di un'apparecchiatura, di cui esso si serve per la produzione di valori cultuali.48

 

L'estetizzazione della politica, quindi, diventa strumento per reintrodurre quei valori cultuali che, per Benjamin, caratterizzavano l'arte fino al XIX secolo, fino all'affacciarsi da protagonista delle masse sul palcoscenico della storia, valori che ora però acquistano un significato reazionario, in quanto usati per mantenere inalterati i rapporti di proprietà. Il prezzo da pagare è l'esaltazione della guerra:

 

Tutti gli sforzi in vista di un'estetizzazione della politica convergono verso un punto. Questo punto è la guerra. La guerra, e la guerra soltanto, rende possibile fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà.49

 

La profezia di Benjamin non tarderà ad avverarsi, e migliaia di esseri umani, educati anche attraverso l'estetica guerrafondaia dei monumenti di regime, andranno incontro alla morte senza ribellarsi.

 

L'umanità, che un tempo in Omero era uno spettacolo per gli dei dell'Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un livello che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim'ordine.50

 

Il fallimento di queste opere è evidente, e indubbie le responsabilità degli artisti, spesso una sorta di "anime belle" che, rinchiusi in una torre d'avorio, coltivavano ispirazioni più o meno sincere, facendosi però strumento di poteri che di lì a poco avrebbero mostrato il loro volto peggiore e disumano.

Dopo il 1945, anche nel campo del monumento pubblico cambia tutto.

 

Di fronte alla rapidità del processo di modernizzazione e al radicale mutamento dei parametri estetici, architettonici e urbanistici, tutta la scultura monumentale […] apparve improvvisamente invecchiata e antiquata, esempio di un'arte accademica e desueta, e in più insopportabilmente retorica. […] Resistenza e Liberazione avranno monumenti […] di intensità e carica espressiva ben diversa, pur movendosi in un arco stilistico che va dal realismo all'Espressionismo all'Astrattismo più puro.51

 

Crisi della scultura, dunque, e a maggior ragione crisi della scultura pubblica, soprattutto nel mondo occidentale. Il grande cambiamento avvenuto negli ultimi decenni nel capitalismo mondiale, globalizzato e anonimo, ha portato anche a una crisi di rappresentatività.

Come si fa a celebrare una multinazionale? O una banca? In quali valori condivisi si può coagulare il sentimento di un popolo, di una nazione, di una civiltà, in modo da poter essere anche rappresentati da un'immagine pubblica?

Chissà se la risposta è quella, per certi versi misteriosa, di L.O.V.E. di Maurizio Cattelan, espressa per altro attraverso un marmo finemente lavorato, come quelli di Wildt e Canonica (anche se non da lui), in cui il volgare gesto di origini americane si innesta in una mano priva di dita, ma chiaramente aperta in un saluto romano, posta in una piazza architettonicamente fascista, di fronte al simbolo dell'economia contemporanea, la Borsa di Milano. Una stratificazione e un coagularsi di significati che porta il monumento pubblico ad attualizzarsi nel rappresentare la complessità del mondo contemporaneo, oramai dominato da entità anonime e nascoste, rappresentabile quindi solo attraverso simbologie criptiche, segni, indizi che permettono, e forse pretendono, anche interpretazioni diverse e distanti tra loro. Siamo di fronte non più a un monumento pubblico assertivo di valori condivisi o di affermazione di poteri forti chiaramente identificabili, ma a un'opera che vuole usare l'arma del dubbio, della provocazione intellettuale per scardinare dall'interno il meccanismo del potere senza volto che domina la contemporaneità.

O forse la risposta è quella tutta politica (nel senso di p????) di Jochen Gerz, che cerca, ad esempio nel "Le monument vivant de Biron", di attualizzare e rivitalizzare un vecchio monumento ai caduti francesi con la partecipazione della popolazione stessa del paese - secondo lui la vera committente dell'opera - e la invita a collaborare attivamente per trasformare un oggetto oramai lontano dal sentire presente in un segno di unione della comunità intorno alla propria storia.

 

Gerz [era] convinto che nessun oggetto al mondo può sostituire la memoria, che il tempo vissuto è la dimensione che dà senso all'opera d'arte distruggendo i clichés tradizionali, vanificando l'apparenza come valore […] l'artista era convinto che i veri committenti dovevano essere gli abitanti di Biron […] Gerz ha bussato alla porta di tutti gli abitanti di Biron. Li ha ascoltati uno alla volta, per ore, prendendo appunti. Voleva sentire dalle loro parole per che cosa vale la pena di vivere e di morire. […] Quello che nessuno sapeva, nemmeno Gerz, è quanto profondamente la sua idea - l'idea di un artista - avrebbe sconvolto la vita della comunità.52

 

Forse bisognerebbe ripartire da qui.

 

Il Monumento alla Vittoria di Bolzano è un'opera più complessa di quello che appare: è simbolo di fascismo, è segno di rivalsa, è pretesto politico, è storia, è sociologia. Ma è anche opera d'arte, macchina estetica, fulcro urbanistico. Solo studiandolo in tutti i suoi aspetti si potranno disinnescare le tensioni che ancora suscita. A dimostrazione di quanto l'arte ancora abbia un'importanza che spesso viene sottovalutata, di quanto l'immaginario simbolico incida ancora profondamente nelle nostre menti e nella nostra pancia.

 

 

 

NOTE

 

1 Abbreviazioni: ALAP: Archivio Libero Andreotti Pescia. Il primo numero si riferisce al faldone, il secondo al documento. GLAP: Gipsoteca Libero Andreotti Pescia.

2 MUSSOLINI, Benito, Difesa dell'Alto Adige, in Scritti e discorsi dal 1925 al 1926, Hoepli, Milano, 1934, p. 262.

3 Si tratta invece del torrente Talvera.

4 "Corriere della sera", 21 marzo 1926.

5 "Corriere della sera", cit.

6 SORAGNI, Ugo, Il Monumento alla Vittoria di Bolzano, Neri Pozza, Vicenza, 1993, p. 4.

7 NICOLOSO, Paolo, Architetture per un'identità nazionale, Gaspari, Trieste, 2012, pag. 51.

8 Ricordiamo, solo per fare un esempio tra i tanti, la sistemazione del centro storico di Brescia. Cfr. CIUCCI, Giorgio, Il dibattito sull'architettura e la città fasciste, in Storia dell'arte italiana Il Novecento, Einaudi, Torino, 1982, in particolare pp. 281-285.

9 CUCCHETTI, Gino, Il nostro Monumento, in "La Rivista della Venezia Tridentina", a. X, n. 7, pp. 11-27.

10 NICOLOSO, Paolo, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell'Italia fascista, Einaudi, Torino, 2008, p. 137.

11 Ibidem, p. 135.

12 Contratto di affidamento dei lavori per la costruzione del monumento a Marcello Piacentini del 12 novembre 1926, in SORAGNI, Ugo, Il Monumento alla Vittoria, cit., p 74.

13 NICOLOSO, Paolo, Mussolini architetto…, cit., p. 174.

14 PAPINI, Roberto, "L'illustrazione italiana", a. LV (1928), Vol. II, n. 30, pp. 55-61.

15 Pietro Fedele (1873-1943), ministro della Pubblica Istruzione tra il 1925 e il 1928.

16 "Qui [sono] i confini della Patria. Pianta le insegne! Da qui educammo gli altri con la lingua con le leggi con le arti".

17 PAGLIARO, Paolo, Il Monumento alla Vittoria, Quaderni del Matteotti, Bolzano, 1980, p.22.

18 Giovanni Carlo Federico Villa , Scolpire gli eroi, in BELTRAMI, Cristina; VILLA, Giovanni Carlo Federico, (a cura di), Scolpire gli eroi. La scultura al servizio della memoria, Catalogo della mostra (20 aprile - 26 giugno 2011), Silvana, Padova, 2011, p. 13.

19 BRECHT, Bertolt, Kalendergeschichte, Surkamp, Frankfurt am Main, 2001, p. 78. "Dopo la prima guerra mondiale, vedemmo, su una pubblica piazza della cittadina portuale di La Ciotat, nella Francia del sud, che festeggiava con una fiera il varo d'una nave, la bronzea statua d'un soldato dell'esercito francese, attorno alla quale si pigiava la folla. Avvicinandoci, scoprimmo che era un uomo vivo con un cappotto color terra. L'elmo d'acciaio in testa e baionetta in canna, se ne stava immobile nel caldo sole di giugno sullo zoccolo di pietra. Aveva il viso e le mani tinti d'un color bronzeo. Non muoveva un muscolo né batteva ciglio. Ai suoi piedi un pezzo di cartone, sul quale si potevano leggere le parole seguenti, era appoggiato allo zoccolo:

L'UOMO STATUA
(Homme Statue)

Io, Charles-Louis Franchard, soldato del ... mo reggimento, dopo essere stato sepolto dalle macerie davanti a Verdun, ho acquistato l'insolita capacità di rimanere perfettamente immobile e di comportarmi come una statua quanto mi piaccia. Tale mia arte fu esaminata da molti professori e definita malattia inspiegabile. Date, ve ne prego, ad un padre di famiglia senza lavoro il vostro piccolo obolo! Gettammo una moneta nel piatto che era accanto a quel cartello e proseguimmo scuotendo la testa." (trad. it. di Franco Fortini tratta da BRECHT, Bertolt, Storie da calendario, Einaudi, Torino, 1969).

20 Maurice Denis(1870-1943), fu protagonista, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, del dibattito sul rinnovamento dell'arte religiosa in senso moderno, e i suoi scritti, fatti conoscere fin dal 1907, soprattutto in ambiente fiorentino, da personaggi come Bernard Berenson, Ardengo Soffici e Ugo Ojetti, avranno grande influenza sugli artisti italiani, in particolare nell'ambito del "Ritorno all'ordine". Ugo Ojetti, ad esempio "mostra di conoscerne anche gli scritti e quei principi di equilibrio tra natura e ideale, sensibilità e ragione attribuiti da Denis a Cézanne e alla sua opera, riportata nel solco di quella di Masaccio e Piero della Francesca. Così le idee denisiane […] saranno poco più tardi riprese da Ojetti nei suoi 'Ritratti di artisti italiani'". ZAPPIA, Caterina, Italia, in BELLI, Gabriella, (a cura di), Maurice Denis. Maestro del Simbolismo internazionale, Catalogo della mostra, (Rovereto, 31 ottobre 2006 - 21 gennaio 2007), Skira, Ginevra Milano, 2007, p. 93.

21 "[…] Denis ha incarnato, più di chiunque altro nella sua epoca, il legame essenziale tra la pittura e il cristianesimo, spingendosi fino a scorgere nello sviluppo della prima, in Occidente, una conseguenza storica della diffusione del secondo.". RINUY, Paul-Louis, Ambizioni, dubbi e paradossi di un pittore cattolico nell'epoca contemporanea, in BELLI, Gabriella, (a cura di), Maurice Denis…, cit., p. 63

22 PIZZORUSSO, Claudio; LUCCHESI, Silvia, Libero Andreotti, Olschki, Firenze, 1997, p.73.

23 OJETTI, Ugo, "Commenti. I mille monumenti commemorativi della guerra", "Dedalo", II, gennaio 1922, p. 551.

24 ALAP, 8 - 28.

25 ALAP, 70 - 3.

26 ALAP, 70 - 2.

27 ALAP, 70 - 4.

28 ALAP, 8 - 7.

29 Vedi, ad esempio, la recente mostra Wildt. L'anima e le forme tenuta a Forlì e il relativo catalogo: MAZZOCCA; Fernando, MOLA, Paola, Wildt. L'anima e le forme, Catalogo della mostra (28 gennaio - 17 giugno 2012), Forlì, Musei di San Domenico, Silvana, Cinisello Balsamo, 2012.

30 ALAP, 7 - 36.

31 SORAGNI, Ugo, Spazi rappresentativi e spazi urbani tra le due guerre, cit., p. 47.

32 Gusmano Vignali, titolare della Società Artistica Fiorentina, fonderia specializzata nella la produzione di oggetti in bronzo.

33 ALAP, 70 - 42.

34 CASAZZA, Ornella (a cura di), Gipsoteca Libero Andreotti, Il Fiorino, Firenze, 1992, p. 144.

35 ALAP, 1 - 4, Monumento alla Vittoria di Bolzano, Estratto da "Il Messaggero", 10 luglio 1928.

36 ALAP, 70 - 26.

37 ALAP, s.d. (ma dopo il 12 luglio 1928), 13 - 32.

38 ALAP, 9 - 13.

39 PIZZORUSSO, Claudio, LUCCHESI, Silvia, Libero Andreotti, cit., p. 98

40 APPELLA, Giuseppe, Andreotti e Montale: uno sciame di pensieri, in APPELLA, Giuseppe; LUCCHESI, Silvia; MONTI, Raffaele; et alii, Libero Andreotti, Catalogo della mostra (31 maggio-4ottobre 1998), Edizioni La Bautta, Matera, 1998, p. 19.

41 MARTINI, Arturo, La scultura lingua morta, Abscondita, Milano, 2001, p. 40.

42 La bibliografia concernente la problematica politica relativa dal Monumento alla Vittoria di Bolzano è molto vasta. Per una panoramica storicamente esaustiva dell'argomento si può utilmente consultare il seguente testo: PARDATSCHER, Thomas, Das Siegesdenkmal in Bozen. Entstehung - Symbolik - Rezeption, Athesia, Bolzano, 2002, con bibliografia.

43 SAFRED, Laura, La rappresentazione pubblica delle memorie divise: il monumento alla pace di Erlauf e il memoriale del campo speciale 2 a Buchenwald, in "ACTA HISTRIAE", a. XVIII (2010), n. 3, p. 500. "La parola monumento ci fa pensare alla celebrazione di personaggi e fatti solenni anche se drammatici, degni di essere ricordati per la loro valenza fondante nella storia di una nazione e di una società; nel memoriale si rappresenta prevalentemente un lutto collettivo privo di un significato esemplare. Parliamo ad esempio di Memoriale ai Caduti della guerra in Vietnam a Washington e di Monumento al Milite ignoto a Roma. Talvolta è molto difficile distinguere o dividere i due significati, proprio a motivo della diversa e divisa ricezione degli eventi o dei protagonisti nella narrazione storica e nell'immaginario individuale."

44 Ibidem, p. 501.

45 VASSALLI, Sebastiano, "Corriere della Sera", 28 febbraio 2011.

46 SIENA, Pier Luigi, Il monumento nazionale alla Vittoria, in "Il Cristallo", a. XXI (1979), n. 1, p. 116.

47 MONTELEONE, Renato; SARASINI, Pino, I monumenti ai caduti della Grande Guerra, in LEONI, Diego, ZADRA, Camillo, (a cura di), La Grande Guerra…, cit., p. 633.

48 BENJAMIN, Walter, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2009, p. 36 (ed. orig. BENJAMIN, Walter, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, "Zeitschrift für Sozialforschung", Parigi, 1936).

49 Idem

50 Ibidem, p. 38

51 VILLA, Giovanni Carlo Federico, Scolpire gli eroi. La scultura al servizio della memoria, in BELTRAMI, Cristina, VILLA; Giovanni Carlo Federico, (a cura di), Scolpire gli eroi.., cit., p.8.

52 ALBERTINI, Rosanna, Biron, il monumento vivente, in Jochen Gerz. Res Publica. L'opera pubblica 1968-1999, Catalogo della mostra (10 settembre - 21novembre 1999), Bolzano, Museion, 1999, p. 28.