IL CRISTALLO, 2011 LIII 2-3 | [stampa] |
Se si dà un rapido sguardo al panorama cultural-letterario del Novecento si nota subito che parecchi scrittori si dedicano al giornalismo spesso con passione, partecipando a polemiche, controversie, dibattiti, su una vasta gamma di argomenti culturali, sociali, politici, religiosi, di attualità, soprattutto durante le guerre del nostro tempo e più recentemente sui fenomeni della globalizzazione, dell'ambiente, dell'abusivismo edile, dei progetti stradali, della protezione degli animali, dei problemi della scuola, dei provvedimenti di legge, del revisionismo storico, della nuova Europa, ecc. (per ulteriori informazioni a proposito si rimanda al mio saggio La favola dei fatti. Il giornalismo nello spazio creativo, Milano, Ares Edizioni, 2010).
Spesso lo scrittore confessa che dall'esperienza giornalistica impara a liberarsi della retorica, ad affinare gli strumenti dello stile, a scrivere in maniera più scarna, semplice, chiara. A volte anche all'interno del giornale fa letteratura, concepisce e stende il pezzo giornalistico come un racconto, un capitolo, un episodio, un frammento di un libro in formazione, come fanno De Amicis, San Secondo, Montale, ecc.
Spesso lo scrittore ha fatto e continua a fare l'inviato speciale (ad es. Baldini, Malaparte, Bontempelli). Spesso dalle cronache di viaggio sono nate felici opere letterarie. Anche il lungo racconto Sardegna come un'infanzia di Elio Vittorini nasce da un viaggio giornalistico compiuto nell'isola sarda tra il settembre e l'ottobre del 1932. Infatti parecchi scrittori danno il meglio di sé con servizi diaristci di avventure in paesi ignoti o con articoli di viaggio di natura varia (ad es. Cecchi, Parise, Moravia); mentre inviati speciali e semplici reporter più che giornalisti si rivelano veri e propri narratori (ad es. Scarfoglio, Buzzati, Fallaci).
Tanti sono gli scrittori viaggiatori e non viaggiatori che realizzano un giornalismo soggettivo, fantastico, una letteratura di alto livello (D'Annunzio, Alvaro, Calvino, ecc.).
A questa categoria appartiene Giuseppe Antonio Borgese che nell'arco della sua vita ha collaborato alle maggiori testate del paese (ad es. "Il Mattino", "Corriere della Sera"). Come tanti scrittori-giornalisti, anch'egli raccoglie i suoi pezzi in volume.
Giro lungo per la primavera, apparso per la prima volta nel 1930 presso i tipi della Bompiani e ora ripubblicato dalla Metauro Edizioni con una bella "presentazione" della curatrice Mariarosaria Oliviero, raccoglie le cronache di viaggio che Borgese realizza quando nella seconda metà del 1920 visita paesi dal vicino oriente all'Europa centrale. Sono cronache che spesso prendono la piega del reportage, dell'elzeviro, del pezzo documentaristico. Ma tutto ciò che si vede, si osserva, e si ode viene registrato con uno stile narrativo, icastico, laconico, nitido, ricco di stilemi allusivi e polisemici. E di volta in volta sembra trasformare la rappresentazione in un racconto inventivo, in un racconto pregno di sfumature e di sprazzi lirici.
Soprattutto quando si descrivono, in modo appassionato e con abbondanza di particolari, i quadri di noti e meno noti musei, i paesaggi cittadini, i paesaggi naturali che possono suscitare epifanie, emozioni, impressioni, e persino la sensazione del tempo ciclico: "tutta questa vallata è un paesaggio memoriale, un eterno ritorno" (55); a volte il paesaggio osservato spinge l'osservatore a dar vita al ricordo della sua madre terra siciliana: "il colore calcare dei macigni lassù al Maloja, il saluto verso il fiume e la val Bregaglia, il castello abbandonato, ricordano un paese, una casa, in vetta alla Sicilia" (56). La penna dello scrittore sembra una sorta di telecamera che indugia a focalizzare questo o quel particolare, di strade, di ville, di teatri, ecc. ; a impartire tratti antropomorfici alle cose inanimate come le montagne o altri aspetti del paesaggio: "gli ulivi, veramente pallidi, emaciati di sete, e il respiro, oramai muto, del mare […] Il sole, che s'è appena affacciato […], non sta a guardare il gruppo equestre? " (101-102); a captare il lato fantastico di un oggetto anche insignificante. Oltre a rivelare Borgese un descrittore molto raffinato, scrupoloso, sagace, la sua penna vuol essere un occhio fotografico teso a cogliere, pur con processi di trasformazione, le sottigliezze e i dettagli del cromatismo delle cose, le oscurità e le iridi della coscienza, i contrasti tra culture e civiltà diverse, gli aspetti inquietanti del passato e del presente, che possono riguardare anche la capitale della Grecia, come l'Atene antica e l'Atene moderna ritratta in una fase irrazionale di boom economico e d'espansione edile. E ci fa capire, questa penna, che è in atto la "primavera", il risveglio della poetica dell'autore attorno al '30: "L'occhio della mente è fisso a un nuovo stile interiore e poetico che per modo di dire ho chiamato Millenovecentotrenta. Questa speranza della primavera smarrita e ritrovata, questo mito personale di resurrezione, è ciò che cuce e lega insieme le pagine di questo libro" (38). In un altro momento metapoetico Borgese si augura che le sue parole fossero fonte di ispirazione, "avessero forza di accendere i desideri" di tutti (129).
La resurrezione personale metaforizza la resurrezione collettiva che Borgese vede in progresso in vari paesi (come la Turchia, la Grecia, la Francia), ricchi di nuovi fermenti, iniziative, realtà, in società che mostrano dinamicità anche al livello culturale, sociale, economico, distante dal sistema statico di un'Italia fascista che, pur se amata, si osserva "simbolicamente" da un punto lontano di un paese straniero: "Giù, poco oltre Brissago, è la frontiera. Davanti agli occhi nostrani è il Pino, Italia" (12). Parlare della società fascista con un linguaggio simbolicamente velato, allusivo, allegorico, diventa un luogo comune tra gli scrittori-giornalisti anche quando svolgono l'attività dell'inviato speciale, come mostrano i reportage favolosi del Buzzati che mentre racconta della miseria in Africa si riferisce a quella della realtà fascista.
Secondo Borgese, l'Italia dovrebbe ritornare sulle orme del suo glorioso passato, ridare vita alla cultura spente e desueta, edificare nuovi miti, culture, realtà, cioè la resurrezione individuale e collettiva.
Borgese è affascinato dalle città visitate che prospettano la sintesi del passato e del presente, di opposti fenomeni culturali della storia. E contemplando le strutture architettoniche di Monaco di Baviera, viene a descriverla come una città del sole, quasi fantasticamente utopica, dove in una coesistenza armoniosa c'è lo stile greco, romano, rinascimentale, gotico, "c'è il dorico, l'ionico e comizio […], il rococò", c'è la presenza "del secolo scorso, e l'eclettismo del tempo qui è tutto fuso, è divenuto uno stile. Questa è la città di Luigi I, dei Wittelsbach; una creazione armoniosa" (65).
Un'altra città che ammalia il Borgese viaggiatore è Salisburgo. Ne descrive le caratteristiche del paesaggio periferico e ricorda come esso ha ispirato l'immaginazione di vari artisti, di uno Schiller e di un Beethoven. Realizzando il panegirico di questa città, la considera una piccola Roma d'Oltralpe, soprattutto perché la mano degli architetti italiani hanno fatto prevalere "il più bello, il più sano, dei nostri barocchi […] e salde ossature cinquecentesche" (80). E lá vede un vivaio della cultura teatrale, una città teatro anche nel senso che vi si mettono in scena opere di Mozart e drammi di Hofmannsthal, specie con la regia di Max Reinhardt: se ne realizza un profilo elogiativo delle capacità artistiche di uomo di teatro con fama internazionale. Anche tale profilo rivela la natura bozzettistica, ritrattistica, ed impressionistica dello stile di questo scrittore. E rivela un Borgese teso a fare osservazioni esegetiche riguardo alla scrittura di testi teatrali, come alla produzione scenica di diversi drammi.
In questi scritti Borgese rappresenta con attenzione minuta e scrupolosa, e con partecipazione, quando visita i luoghi e le abitazioni degli scrittori, come la residenza di Nietzsche, o i cimiteri dove sono sepolti; quando assiste alle manifestazioni e agli eventi letterari; quando frequenta le mostre e contempla certe tele con personaggi che sembrano presentarsi vivi in carne ed ossa.
Infatti in molti di questi scritti Borgese fa un viaggio sentito attorno e dentro il libro, le opere di scrittori prediletti che vengono discussi ed analizzati con approcci diversi, anche se molti sono considerati con una somma fretta (Dante, Ariosto, Foscolo, Carducci, Serao, ecc.); invece è alquanto dilatata la discussione che articola l'apologia della Parigi culla artistico-letteraria a cavallo tra otto-novecento, ricca di librerie, di biblioteche, e di grandi scrittori (Gautier, Baudelaire, Verlaine, Bourget, Cluadel, Rimbaud, ecc.). Si tratta di un viaggio che ne svela la fisionomia dell'esteta, del teorico, e del critico che non esita a largire giudizi di valore, a sottolineare riuscite e difetti artistici, modellandosi così un acuto conoscitore non solo della storia letteraria europea.
Ma il fatto che questi scritti giornalistici frequentemente trattano i temi relativi ai paesaggi naturalistici e cittadini, al mondo artistico e letterario, ai dati e fatti storici, antropologici, culturali, e non discutono mai in modo diretto dei problemi esistenziali, sociali, politici, è indice di come il Borgese giornalista riesce a barcamenarsi, ad evitare la censura e a non crearsi problemi con il regime fascista.
(City University of New York, Baruch)