IL CRISTALLO, 2011 LIII 2-3 [stampa]

L'EGO SAPIENS E L'ALIBI DEL DOCERE LA RAPPRESENTAZIONE DEL SAPERE DELL'IO NARRANTE IN TESTI AUTOBIOGRAFICI SETTECENTESCHI

di DOMENICA ELISA CICALA (KLAGENFURT)

Il presente contributo si propone di indagare se e in che misura la Lettera autobiografica di Muratori, la Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo e la Vita di Pietro Giannone, tre testi autobiografici italiani redatti nella prima metà del Settecento, possano essere considerati un luogo topico per la rappresentazione narrativa di forme del sapere. Partendo dall'analisi dei contenuti del sapere trasmesso, si propone una riflessione sul ruolo dell'io narrante come ego sapiens che, in virtù dell'alibi del docere, mette per iscritto il racconto della sua vita, e si analizza il modo in cui nei tre testi autobiografici l'insieme delle conoscenze acquisite riceva una veste narrativa.


1. Quadro di riferimento storico e culturale


All'inizio del XVIII secolo la frammentazione politica, l'arretratezza economica, la mancanza di una borghesia innovatrice e il forte peso della tradizione rendono la cultura italiana poco aperta ad accogliere soluzioni innovative; tali condizioni si rispecchiano sul piano letterario nell'attività dell'Arcadia, la cui produzione è fortemente improntata dal rifiuto del cattivo gusto della poesia marinista in nome del classicismo, del ritorno all'ordine e di un carattere d'evasione attribuito all'attività poetica, caratterizzata da connotati apertamente filo clericali1.

Nel corso del Settecento, secolo di maggiore fioritura del genere autobiografico, l'attenzione al ruolo esercitato dall'io nella società, l'importanza che nel sistema di pensiero illuministico assumono i principi razionali in opposizione a tutte le componenti irrazionali, la necessità di trasmettere informazioni utili e concrete a partire dalle esperienze empiriche e materialistiche avute, spingono gli intellettuali a raccontare la propria vita e ad affidare alla penna suggerimenti e consigli che, inseriti nella narrazione delle vicende che li vedono protagonisti, hanno lo scopo di arrecare un'utilità al lettore. A rendere abituale tra gli intellettuali europei la prassi introspettiva e la stesura di un testo autobiografico contribuisce molto probabilmente anche il modello pedagogico diffuso tra i gesuiti di meditare e scrivere di se stessi2. In tale contesto i testi autobiografici redatti in Italia nella prima metà del secolo tendono a proporsi come resoconti memorialistici, nella cui tessitura narrativa l'insegnamento morale e le finalità didascaliche occupano un posto di rilievo e in cui l'io è una maschera monolitica: quella dell'autore maestro che trasmette il suo sapere per istruire i lettori.


2. Muratori: il sapere come strumento morale


L'humus culturale in cui inserire l'opera di Lodovico Antonio Muratori è quello del razionalismo e del metodo sperimentale di maestri come Bacone e Galilei. Muratori è un ecclesiastico modenese, dottore dal 1695 al 1700 della Biblioteca Ambrosiana di Milano, archivista e bibliotecario ducale a Modena per i due anni successivi e in seguito fino al 1720 consulente giuridico e politico di Rinaldo I d'Este; è inoltre uno storiografo e ricercatore erudito, pastore d'Arcadia, esperto conoscitore delle più avanzate tecniche di studio delle fonti epigrafiche, portavoce di un vivo senso civile e di una sensibilità volta a difendere il ruolo della ragione contro le superstizioni e i pregiudizi verso periodi storici, come quello medievale; è, dunque, un intellettuale che occupa una posizione di rilievo nel panorama culturale italiano d'inizio Settecento3.

Tra gli altri, anche a lui è rivolto l'invito a scrivere la propria vita da parte del conte Giovanni Artico di Porcìa che, seguendo il suggerimento di Antonio Conti4, ispirato a sua volta da un passo di una lettera di Leibniz5, desidera realizzare un progetto divulgativo delle vite di letterati italiani per mostrare ai giovani il metodo da seguire nei loro studi6. L'intento è anche di far conoscere gli intellettuali tra loro e promuovere una riforma della cultura italiana, in corrispondenza con il moderno spirito europeo del periodo e come manifestazione del risorgimento culturale italiano d'inizio XVIII secolo. Accogliendo tale proposta, Muratori, autore già nel 1703 dei Primi disegni della Repubblica letteraria d'Italia, in cui auspicava la nascita di una nuova organizzazione intellettuale all'insegna di un rinnovamento culturale, scrive una lunga lettera autobiografica, datata 10 novembre 17217.

Rivolgendosi al committente per ringraziarlo dell'invito e ammettendo con un mea culpa di non essere privo dell'umano sentimento della vanità, l'autore chiede licenza al pubblico di poter parlare di sé e con una captatio benevolentiae cerca di dare una giustificazione agli eventuali passaggi di autoesaltazione, nella consapevolezza che, descrivendo il percorso della sua formazione e il metodo dei propri studi, possa arrecare vantaggio ai lettori. Pensando alla sua fanciullezza, Muratori ricorda di aver sentito forte in sé la voglia, la gioia e la velocità di imparare, che costituiscono le basi su cui erigere l'edificio del sapere8. Il metodo dei suoi primi anni di formazione è stato quello comune agli altri, avendo frequentato le scuole pubbliche; ma nei suoi più teneri anni è riuscito a camminare forte negli studi, emergendo rispetto agli altri perché, cibando la sua curiosità di letture, ha sempre provato diletto ad apprendere. Dopo aver frequentato le scuole minori presso i gesuiti, ha studiato la logica, la fisica, la metafisica, il diritto civile e canonico e la teologia morale, intraprendendo la pratica della giurisprudenza; ma il genio dominatore lo ha indotto presto ad abbandonare quella strada per dedicarsi a letture amene, di poesia, prosa e opere di filosofia, unendo alla conoscenza degli autori moderni lo studio degli antichi9.


Descrivendo il suo curriculum studiorum, il narratore riconosce di aver avuto, oltre a un'inclinazione naturale allo studio, a una vivace intelligenza e a un talento per l'apprendimento, anche la fortuna di avere ottimi maestri che gli hanno permesso di affilare gli strumenti per affermarsi nella repubblica dei letterati. Nella narrazione l'autore fa riferimento alla sua esperienza alla biblioteca di Milano e alla sua attività a Modena come bibliotecario e consigliere nella contesa di Comacchio10; fa inoltre cenno alla sua intensa produzione erudita e al suo grandioso progetto di unire in un'opera tutte le storie d'Italia scritte dal 500 al 1500, spinto dal desiderio di allargare il pubblico tesoro del sapere e di gettare luce sul buio dei secoli di mezzo, che per un abbaglio aveva prima considerato come rozzi e barbari.

Con lo scopo paideutico di istruire i giovani e promuovere una riforma della cultura italiana, Muratori schizza le tappe dell'acquisizione del suo sapere, illustrando la storia dello sviluppo del proprio genio, e motiva la sua passione erudita e l'impegno riformistico all'insegna del concetto di universalità del sapere basato sull'enciclopedismo, da lui inteso come esigenza metodica11. Con un forte senso di compiacimento verso se stesso e una profonda soddisfazione di quanto fatto, si propone come esempio al lettore e, illustrando il progredire della sua parabola esistenziale, desidera ammaestrare chi è desideroso di intraprendere il cammino del letterato. Al sapere letterario, cioè ai contenuti del proprio bagaglio culturale e alle conoscenze acquisite nel corso della vita, si affianca il racconto di un saper essere e saper fare letterario, concretizzato negli ammonimenti morali e nei suggerimenti dettati dall'esperienza che pongono il narratore in una posizione di rilievo rispetto al lettore. Il sapere prende forma non solo nel racconto dei suoi studi, nei contenuti delle sue opere e negli insegnamenti ricevuti, ma anche nei consigli rivolti ai giovani e relativi al saper essere letterati e al saper fare letteratura. Ricordando la sua esperienza, il narratore suggerisce ai giovani di sottoporre alla rilettura e al labor limae di un amico i vari scritti per evitare errori dovuti all'inesperienza giovanile; invita a saper sfruttare il proprio tempo e le proprie capacità, ma senza perdere di vista la salute del corpo e ritagliandosi riposo e divertimento; insegna che sentimenti come l'invidia albergano nel cuore umano, anche in quello di eruditi e religiosi; avverte che la penna nella mano del letterato è come la spada in quella del nobile: bisogna, pertanto, usarla con giudizio e cognizione di causa e, nel caso si subiscano attacchi infondati, è bene servirsene solo dopo aver messo a bada l'impeto della rabbia, perché a rispondere non deve essere la passione, ma la ragione; occorre, infatti, tenere in considerazione che le opere letterarie sono scritte soprattutto per istruire infinite altre persone e che l'uomo di lettere deve essere prima di tutto un uomo onorato e dabbene, che segue sempre la via della verità, senza assoggettarsi ai desideri altrui, e il cui sapere affonda le radici nel messaggio evangelico12.

Dando tali consigli l'io narrante si chiede come egli stesso, che al momento indossa i panni del saccente, sia riuscito a metterli in pratica e s'interroga sulla sua identità e sul suo ruolo nella società. Cosciente dell'importanza del suo compito, Muratori esorta a seguire la via del bene, e la narrazione, caratterizzata dal tono monodico dell'epistola, oltre alle parentesi tipiche di opere di trattatistica morale, acquista l'aspetto precettistico dell'omelia pronunciata dall'alto del pulpito per esortare i lettori a rischiarare dentro di sé la fede nell'unico Dio che elargisce doni di grazia. Il sapere di cui è depositario e di cui desidera farsi portavoce si concretizza, dunque, a livello simbolico e figurativo e prende corpo sul piano lessicale e stilistico nella presenza di definizioni13 e nell'uso di verbi esortativi con cui dà avvertimenti e ammonimenti14. La rappresentazione letteraria del sapere, ovvero la sua manifestazione ed espressione per mezzo di termini e immagini, presuppone la necessità di ridurre in uno strumento leggibile un'astratta entità cognitiva e implica una finalità espositiva di autodescrizione. Con una lingua latineggiante, chiara e scorrevole e con uno stile austero e privo di ostentazioni retoriche, il tessuto diegetico presenta incastonate delle gemme di saggezza e il ricamo decorativo di un sapere che vuole emergere ed essere emulato. A sequenze narrative relative ai contenuti delle sue opere si affiancano anche momenti riflessivi in cui l'io, deposte le vesti del maestro conoscitore della veritas, parla da uomo.


3. Vico: il sapere come motivo di gloria


Come Muratori, anche Vico scrive la sua Vita su invito del conte Giovanni Artico di Porcìa, il quale la giudica come l'unica tra le vite dei letterati ricevute che corrisponda agli obiettivi del suo progetto e che sia da pubblicare15. Deluso per il mancato adempimento della promessa fatta dal cardinale Lorenzo Corsini, in seguito eletto papa col nome di Clemente XII, di provvedere alle spese di stampa della Scienza nuova, nel 1725 Vico mette per iscritto il suo racconto autobiografico con la coscienza dell'importanza della sua opera, di cui riconosce il peso nell'ambito della cultura europea, senza indugiare a compiacersi di illustrare al pubblico le proprie scoperte16. Egli racconta in terza persona i momenti più importanti della sua vita, presentandola come l'apoteosi di un predestinato, ovvero come la storia dello sviluppo di una mente provvidenzialmente guidata a scoprire il principio che unisce in un unico sistema tutto il sapere17. Proponendosi di tracciare senza finzione il percorso di sviluppo della propria forma mentis, senza rinnegare alcun passaggio che non sia prettamente legato allo studio della filosofia e della matematica, Vico vuole dimostrare al lettore la sua riuscita come letterato18.

L'io vichiano si presenta come genio autodidatta che, miracolosamente sopravvissuto alla caduta da una scala all'età di sette anni, lascia nella storia traccia di sé. Sin da giovane sente forte il desiderio di sapere e la sua vivace curiositas lo conduce ad aprire strade nuove nel mondo della scienza. Illustrando il suo metodo di studi e le tappe della sua formazione, racconta che, dopo la scuola dei gesuiti, ha studiato la logica, la metafisica, la filosofia nominalista scotista e platonica; indirizzato dal padre agli studi legali, ha unito a questi anche la lettura di autori greci e latini, tra cui Aristotele, Cicerone e Orazio, e dei toscani Dante, Petrarca e Boccaccio. Nel corso della narrazione riconosce come suoi modelli Platone, Tacito, Bacone e Grozio, difende il metodo scientifico di Galilei e confuta la fisica cartesiana19. Inoltre, facendo riferimento alla sua esperienza di precettore presso la famiglia dei conti Rocca, veste i panni del maestro, espone le sue considerazioni sul metodo da seguire negli studi e, uomo dotto ed erudito, esperto conoscitore di diritto, racconta di far parte del ceto civile del Regno di Napoli, ovvero di un gruppo di intellettuali che si propone di contribuire al rinnovamento della realtà politica napoletana.

Nel tessuto narrativo della Vita di Vico il sapere costituisce la trama senza cui non si può ordire alcun intreccio: al racconto della sua formazione, alle meditazioni riguardo alla sua fortuna, alle inclinazioni e ai progressi, agli sforzi e alle riflessioni, segue una sintesi contenutistica delle sette orazioni inaugurali tenute in qualità di docente di retorica all'Università di Napoli ad apertura dell'anno accademico e relative ai fini dello studio. Sebbene tale posizione non gli garantisca stabilità economica né gli dia la soddisfazione desiderata, Vico riconosce all'eloquenza l'insegnamento dell'intero sapere20. L'autobiografia presenta anche la descrizione della spiacevole parentesi della sua mancata nomina alla cattedra di giurisprudenza di Napoli e si conclude con la presentazione dei temi esposti nel suo capolavoro.

Tracciando con uno scopo autoencomiastico l'autoritratto del proprio ingegno, il narratore protagonista rivendica la consapevolezza di essere depositario e scopritore del sapere e di aver apportato un contributo di novità nella repubblica letteraria con la stesura dei Principi di una scienza nuova, summa del suo pensiero. Alla base della sua filosofia e gnoseologia c'è il concetto di sapere basato sull'antitesi tra intellegere divino e cogitare umano: affermando che l'oggetto proprio della conoscenza umana è il mondo della storia, di cui nella sua opera indaga l'ordine e le leggi21, Vico propone un'interpretazione della storia come progresso civile e descrive lo sviluppo delle attività umane attraverso la ripetizione di costanti del divenire storico e l'alternarsi progressivo di corsi e ricorsi della civiltà umana.

Ribadendo l'utilità del sapere scientifico per il bene comune e rivendicando l'importanza della scienza nella vita dell'uomo, Vico parla di sé in un discorso accademico di taglio filosofico e traccia, con uno stile solenne e concitato, teso e vibrante, la parabola della sua esistenza. Nella convinzione di aver giovato all'umanità con le sue opere sublimi, dà sfoggio delle proprie abilità oratorie e mette per iscritto solo ciò che vuole venga ricordato dai posteri22. Il racconto ha un ritmo incalzante e a livello linguistico presenta un certo grado di complessità per la presenza di arcaismi, latinismi, termini aulici e figure retoriche, epitheta ornantia, sentenze e litoti che impreziosiscono la narrazione di elementi che collocano il personaggio protagonista al rango di filosofo che si propone come simbolo dell'erudizione di un'epoca. Si concorda, dunque, con Fubini nell'affermare che Vico traccia un ritratto mitico di se stesso23: l'autodiegesi è una lode razionalistica del proprio ingegno e un'esaltazione del proprio operato che parte dall'interpretazione degli innumerevoli segni che fin dalla fanciullezza fanno presagire un futuro ragguardevole; il testo unisce, inoltre, alla sensibilità storica il senso del divenire e dell'affermazione dell'io trasmettitore del sapere24.

Pastore d'Arcadia col nome di Làufilo Terio, nominato anche storiografo regio, Vico è esperto di giurisprudenza, filosofia e filologia e nella sua autobiografia si ritrae nelle vesti di ego sapiens, umanista, scopritore e fondatore di una Scienza nuova. Tracciato il percorso evolutivo del suo pensiero, chiarite le tappe della sua formazione e riconosciuti i quattro autori di riferimento, Vico è nella condizione di poter dire che nella repubblica delle lettere non ci sia un sistema che unisce la filosofia platonica, subordinata alla religione cristiana, con la filologia che fonda a livello scientifico la storia delle lingue e quella delle cose. Ponendo la provvidenza divina come base su cui fonda tutto il sistema, Vico arreca all'Italia il vanto di non dover invidiare le opere scritte in ambiente protestante, perché scopre i principi di tutta l'umana e divina erudizione proprio nel grembo della religione cattolica.

L'autobiografia vichiana può, perciò, essere definita un ritratto pieno di luce e carico di un monotono tono elogiativo, ovvero un mosaico di tasselli che, privi di sfumature di colori sgargianti, realizzano un'immagine resa imponente dall'imbottitura di dottrina, da cui trapela un vasto e profondo sapere, contraddistinto dalla convinzione di novità.


4. Giannone: il sapere come causa di persecuzione


Portavoce dei fermenti culturali illuministici dell'Italia meridionale è anche Pietro Giannone, un giurista pugliese che, laureatosi a Napoli in diritto civile ed ecclesiastico nel 1696, si afferma negli ambienti colti della città partenopea, partecipando agli incontri tra i nobili, gli avvocati e i letterati organizzati dal viceré spagnolo duca di Medinacoeli nell'ambito dell'Accademia Palatina. La sua fama comincia a diffondersi nel 1721-1723 con la stesura dell'Istoria civile del Regno di Napoli, in cui ribadisce l'idea che il motore della storia consista nel soddisfare i bisogni della società e che la politica sia da considerare come l'arte di adeguare il funzionamento delle istituzioni alla soddisfazione di esigenze concrete. Nella sua opera Giannone rivendica il ruolo dello stato moderno come garante dello sviluppo civile e del benessere comune e argomenta l'infondatezza della superiorità del diritto ecclesiastico e della politica della Controriforma, in difesa delle prerogative dello Stato austriaco di Carlo VI. L'esposizione di tali idee gli costa l'accusa di eresia da parte dei membri della Congregazione del Santo Uffizio, la scomunica e il rifugio coatto alla corte di Vienna. Con l'illusione di ricevere un incarico adeguato alla sua formazione giurisdizionalistica e alla sua attività forense, spera di poter ritornare a Napoli; ma il suo esilio nella capitale imperiale si protrae dal 1723 al 1734, quando il Regno di Napoli passa sotto il dominio di Carlo di Borbone e l'imperatore austriaco deve licenziare i sudditi napoletani da lui stipendiati. Così nei due anni successivi, fa tappa in diverse città d'Italia fino ad arrivare in un villaggio savoiardo dove, a pochi chilometri dal confine ginevrino, viene catturato a tradimento e messo in prigione.

Durante la carcerazione nella fortezza di Miolans, dall'aprile 1736 al gennaio 1737, mette per iscritto il racconto della sua Vita25. Con lo scopo apologetico di difendersi dalle accuse ingiuste e dimostrando come il suo sapere abbia rappresentato il motivo della sua persecuzione, la voce narrante rievoca da prigioniero i momenti più drammatici della sua esistenza e con amaro scetticismo delinea la sua vicenda personale sullo sfondo di un mondo dominato da poteri che, sulla mente libera di un intellettuale impegnato ad analizzare la realtà per migliorarla, si impongono solo con l'uso dell'illegalità e della violenza26.

Con una lingua descrittiva e chiara, con un periodare lungo e articolato, caratterizzato da uno stile lineare privo di preziosismi retorici e da un tono cronachistico con digressioni, accelerazioni e pause, il narratore protagonista racconta la sua historia calamitatum. Stipulando nel proemio un patto referenziale con gli amanti della verità, spiega che, trovandosi chiuso in un castello, privo di contatti con altre persone, ha la necessità di alleggerire la noia e il tedio e desidera tracciare una sorta di bilancio esistenziale per trarre conforto dalle buone azioni compiute e pentirsi delle cattive. Il racconto non è da intendere come un soliloquio, ma come un testo in cui, tramite insegnamenti e massime, omissioni e silenzi, l'autore comunica il suo sapere e rivendica la portata innovativa delle conoscenze da lui acquisite. Essendo oggetto di attacchi maligni da parte di nemici che vogliono oscurare e bistrattare il contenuto dei suoi libri, si serve della scrittura per fornire una narrazione fedele e sincera, cominciando dal discernere tra i suoi veri scritti e quelli che gli invidiosi gli attribuiscono. Oltre a difendersi dagli avversari, desidera mettere in guardia il lettore delle difficoltà a cui sono soggetti tutti coloro che si accingono a percorrere la strada della verità e che pensano di trascorrere la vita in libertà e sicurezza. L'istinto dell'uomo è, infatti, tendente al male e il mondo è governato da uno spirito maligno che sopprime ogni tentativo d'affermazione da parte di esseri probi. Il lettore, dunque, se leggendo la sua vita non vi troverà fatti illustri, potrà tuttavia considerarla come una guida e riflettere sull'inutilità di studi astratti relativi a temi che non servono a condurre l'uomo sulla via della virtù. Descrivendo i momenti più importanti della sua vita, Giannone lascia la sua versione dei fatti e con un intento didascalico si propone di istruire i giovani, dando ammonimenti e consigli su come affrontare amare contingenze.

Anche nel racconto autobiografico giannoniano vengono ripercorse le tappe della sua formazione: da fanciullo viene mandato ad apprendere prima la grammatica, poi la filosofia scolastica scotista, la logica, la fisica e la metafisica; in grado di applicarsi con straordinario impegno e grande capacità, è però ben presto consapevole che lo studio delle lingue, della geografia e della cosmografia è più consono all'età giovanile e, trasferitosi a Napoli, si dedica a studi più concreti e alla giurisprudenza. Allo studio delle leggi affianca quello della storia romana e, come Muratori, rivaluta l'importanza del periodo longobardo e del Medioevo; al diritto civile unisce presto lo studio di quello canonico e della storia ecclesiastica. Nella narrazione l'autore espone numerose sintesi contenutistiche delle varie letture effettuate, parafrasa passi biblici, fa riferimento a epigrafi, alle opere di modelli come Erodoto, Diodoro Siculo e S. Agostino e, risalendo al cuore autentico del messaggio evangelico, illustra la chiave di lettura con cui interpretare la storia e fornisce le coordinate con cui leggere la sua opera bandita dalla Curia. L'io giannoniano si presenta come buon discepolo desideroso di sapere, come uomo dal carattere integerrimo e solitario, come storiografo, giurista e pensatore politico, invidiato, calunniato e perseguitato, come conoscitore dei vari rumores e dei tanti complicati e delicati meccanismi politici che portano all'elezione di sovrani e allo scoppio di guerre e si descrive come una nave costretta a solcare le onde di un mare in tempesta e che anela al raggiungimento di un porto sicuro.

Il sapere di Giannone non solo è legato alla conoscenza diretta delle fonti e allo studio delle opere di maestri, ma è un sapere che scaturisce anche e soprattutto dall'esperienza diretta di testimone di eventi storici ed episodi salienti nell'ambito della corte, che gli permettono di formarsi un'idea disincantata della realtà in cui vive. Perciò, se da un lato un posto di primo piano occupano i riferimenti alla sua attività di avvocato ed esperto giurista, rappresentante del clima illuministico napoletano, dall'altro domina sullo sfondo un affresco storico della società italiana d'inizio Settecento, caratterizzata da clientelismo e nepotismo, corruzione e intrighi, raccontati con la lente d'ingrandimento del narratore protagonista, che osserva, descrive e commenta i cambiamenti politici che si verificano sullo scenario europeo. L'autobiografia di Giannone offre così un quadro panoramico della realtà storica della prima parte del Settecento e si fa strumento di trasmissione della necessità di un saper essere e della mancanza di libertà causata dall'esposizione delle proprie idee: il sapere è per Giannone motivo di persecuzione dal momento che sul saper fare letterario s'impone il peso schiacciante dell'incapacità dei detrattori di saper leggere, comprendere e interpretare il significato del messaggio veicolato con la scrittura. Il sapere è tuttavia un bagaglio necessario a condurre una vita all'insegna della giustizia e deve servire all'acquisizione di una buona morale27.


5. Conclusione


La sapientia e la cultura animi sono i connotati che contraddistinguono la descrizione della vita dei tre intellettuali che attraverso le pagine autobiografiche trasmettono il loro sapere. Muratori, Vico e Giannone descrivono nella loro Vita il loro percorso formativo per narrare il metodo dei loro studi e proporsi come modelli. In particolare, Muratori nella Lettera autobiografica traccia la storia dello sviluppo del proprio ingegno nell'esaltazione della sua passione erudita; Vico nella Vita scritta da se medesimo racconta le vicende della sua formazione che culmina nella pubblicazione della Scienza nuova; invece Giannone, perseguitato e imprigionato per aver esposto le sue idee, affida alla Vita la sua apologia e racconta le proprie vicissitudini per servire da guida a chi, come lui, deve affrontare a causa del suo sapere le insidie di un mare in tempesta. L'alibi del docere giustifica, dunque, l'atto della scrittura della vita che ha così un intento didascalico, in un contesto epistemologico in cui la pagina scritta diventa strumento di (auto) riflessione.

Appare evidente che l'autobiografia italiana della prima metà del Settecento può essere considerata un luogo topico per la rappresentazione narrativa di forme del sapere, dal momento che, prevalendo in essa momenti gnomici e gnoseologici, l'io narrante si mette in scena come figura esemplare di sapiente e maestro di vita morale e, tramite parentesi aneddotiche, arricchisce la diegesi di pause dedicate al racconto di insuccessi e momenti di gloria, scelti per creare, in un testo dal taglio memorialistico e storiografico, il mosaico della propria vita. I tre autori danno forma al ricordo di sé e affidano al sapere un'adeguata veste narrativa per realizzare, tramite aspetti di mimesis e poiesis, imitazione e riproduzione della realtà umana, un perfetto intreccio tra testo letterario e trasmissione delle conoscenze acquisite. La letteratura è fonte ed espressione del sapere, veicolo e, al tempo stesso, oggetto di conoscenza: nei tre testi analizzati gli autori realizzano la rappresentazione narrativa del sapere mediante la descrizione dei contenuti delle opere pubblicate, attraverso la concettualizzazione e la definizione delle idee innovative fondanti il proprio pensiero, nonché con la presentazione dei risultati raggiunti sul piano dell'indagine intellettuale. Il sapere è raffigurato sotto forma di sintesi contenutistiche, citazioni, parafrasi, insegnamenti, massime, moniti e sentenze; ha lo scopo di orientare il lettore ad agire seguendo i suggerimenti indicati e assume una funzione esplicativa; è presentato come risorsa legata all'esperienza pratica, sociale e dipendente dalla particolare prospettiva interpretativa del singolo, e soprattutto come sostanza dell'essere, la quale rende l'uomo un maestro.

Alla luce dell'analisi condotta è possibile affermare che il sapere che emerge nei testi autobiografici di Muratori, Vico e Giannone si concretizza tra epistemologia, estetica e storia nella misura in cui, mediante riflessioni epistemologiche, rende esplicito il potenziale estetico del discorso scientifico e lo contestualizza entro le coordinate storico culturali di riferimento, permettendo di considerare la letteratura come una forma di rappresentazione del sapere e come strumento d'indagine conoscitiva. I tre autori manifestano la consapevolezza di conoscere se stessi e la volontà di proporsi come modelli in virtù del fatto che sanno di sapere: il monito che l'autore-narratore-protagonista sembra voler comunicare al lettore è che sei ciò che sai se sai chi sei. Il sapere è, pertanto, uno strumento prezioso che costituisce motivo di fama, ma anche di persecuzione e può essere paragonato a una lampada che illumina la vita dell'io narrante il quale, indossando le vesti del sapiens, pronuncia un discorso ex cathedra e persegue uno scopo pedagogico d'insegnamento morale.

 


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Starobinski, J.: L'occhio vivente. Studi su Corbeille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, Torino, Einaudi, 1975.

Trabant, J. (a c. di): Vico und die Zeichen, Tübingen, Narr, 1995.

Vigezzi, B.: Pietro Giannone riformatore e storico, Milano, Feltrinelli, 1961.


NOTE



1 Sull'Arcadia cfr., tra gli altri, C. Calcaterra: Il Barocco in Arcadia e altri studi sul Settecento, Bologna, Zanichelli, 1950; M. Fubini: "Arcadia e illuminismo". In: Dal Muratori al Baretti: studi sulla critica e sulla cultura del Settecento, Bari, Laterza, 1954, pp. 292-395; E. Sala Di Felice: L'età dell'Arcadia, Palermo, Palumbo, 1978. Per approfondire la situazione storico politica dell'Europa e dell'Italia nel Settecento cfr., tra i numerosi studi, M. S. Anderson: L'Europa del Settecento, Milano, Comunità, 1972; D. Carpanetto, G. Ricuperati: L'Italia del Settecento, Bari, Laterza, 1986.

2 Cfr. A. Battistini: Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 33. Se nei paesi protestanti la stesura di un diario sostituisce il sacramento della penitenza e ciò conduce sul piano letterario alle confessioni del ginevrino Rousseau, negli ambienti cattolici gli esercizi spirituali e l'archetipo della Vita Ignatii forniscono un esempio di trama narrativa autonoma rispetto ad altri generi letterari. Sul genere autobiografico cfr AA. VV.: L'autobiografia: il vissuto e il narrato, Padova, Liviana, 1986; P. Lejeune: Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986; J. Starobinski: L'occhio vivente. Studi su Corbeille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, Torino, Einaudi, 1975; G. Niggl (a cura di): Die Autobiographie: zu Form und Geschichte einer literarischen Gattung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1989.

3 Sul ruolo di Muratori come riformatore culturale cfr. S. Bertelli: Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli, Istituto italiano di studi storici, 1960; G. Borsara: Lodovico Antonio Muratori: sacerdote e sapiente, Modena, Centro di studi francescani, 1950; G. Falco: "Lodovico Antonio Muratori e il preilluminismo". In: M. Fubini (a c. di): La cultura illuministica in Italia, Torino, Radio Italiana, 1957, pp. 23-42; F. Marri (a c. di): Die Glückseligkeit des gemeinen Wesens. Wege der Ideen zwischen Italien und Deutschland im Zeitalter der Aufklärung, Frankfurt am Main (et al.), Lang, 1999; M. Monaco: La vita, le opere, il pensiero di L. A. Muratori e la sua concezione della pubblica felicità, Lecce, Milella, 1977. Per approfondire ulteriori aspetti della figura e dell'opera di Muratori cfr. T. Sorbelli: Bibliografia muratoriana, Modena, Società Tipografica modenese, 1943-1944; AA. VV.: Il soggetto e la storia: biografia e autobiografia in L. A. Muratori, Firenze, Olschki, 1994.

4 Antonio Schinella Conti (1677-1749) è un matematico, fisico, storico e filosofo padovano, conosciuto con il nome di abate Conti e passato alla storia per essere stato nel 1715 l'arbitro nella contesa tra Gottfried Wilhelm von Leibniz e Isaac Newton relativamente alla scoperta del calcolo infinitesimale; a livello filosofico Conti cerca di conciliare il metodo empiristico galileiano e quello razionalistico cartesiano.

5 Cfr. la lettera del 1714 in cui il filosofo tedesco Leibniz afferma di desiderare che "[…] les auteurs nous donnassent l'histoire de leurs découvertes et les progrès par lesquels ils y sont arrivés". In: M. Fubini: "Prefazione". In: Giambattista Vico. Autobiografia, Torino, Einaudi, 1977, p. VIII.

6 Sulla lettera scritta da Giovanni Artico di Porcìa (1682-1743) a Muratori cfr. C. De Michelis: Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Firenze, Olschki, 1979, p. 76.

7 L'edizione di riferimento in questa sede è "Intorno al metodo seguito ne' suoi studi. Lettera all'illustrissimo signore Giovanni Artico conte di Porcìa". In: G. Falco, F. Forti (a c. di): Dal Muratori al Cesarotti. Opere di Lodovico Antonio Muratori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, pp. 6-38. La lettera autobiografica al Porcìa viene pubblicata per la prima volta nel 1872, in occasione del secondo centenario della nascita di Muratori.

8 Ivi, p. 7: "Ora il genio a sapere, ad imparare, lo sentiva io gagliardo in me stesso. Parevami che il mio intelletto facilmente abbracciasse le cose e che la memoria con egual prontezza le ritenesse".

9 Ivi, p. 14: "Non v'ha dubbio che il saper conoscere e poter avere dei libri buoni e molti, e l'attenta osservazione di ciò che mette in gran credito fra la gente saggia certi autori antichi e moderni, può bastare a dirozzar un ingegno e ad istradarlo per la via dell'onore e della fama. E torno sempre a dire antichi e moderni, perché a formare un vero e non volgare e giudizioso erudito, non bastano gli uni senza gli altri".

10 Gli attriti tra l'impero e la Santa Sede per il possesso della città di Comacchio cominciano nel 1708, quando all'occupazione francese subentra quella austriaca. In questo contesto, fino al 1720, Muratori svolge le funzioni di consulente giuridico e politico del duca di Modena Rinaldo I: ha, cioè, il compito di rinvenire i documenti che dimostrano l'antichità, la nobiltà della Casa d'Este e la sua sovranità sulla città lagunare, messe in dubbio da monsignor Fontanini, e di organizzare la linea di difesa anticuriale.

11 Ivi, p. 15: "Non si può dire che aiuto e che nerbo dia un'arte all'altra e che legame abbia insieme la maggior parte della erudizione e delle scienze. […] Del resto i letterati non son diversi dai trafficanti. […] d'ordinario è più ricco e divien più ricco, chi s'applica a molte, purché non gli manchi giudizio per tutto".

12 Ivi, p. 29: "[…] imparino a buon'ora i giovani di star saldi per non vendere ciecamente i loro ingegni e per innamorarsi sempre più della verità e per cercarla fino ne' più cupi nascondigli, senza fermarsi alle prime osterie, ai desideri altrui"; ivi, 32: "[…] se il sapere dell'intelletto non è accompagnato dalla virtù dell'animo, facilmente nocerà più a noi stessi e ad altri, di quel che giovi"; ivi, 37: "[…] lo studio della pietà e il santo timore di Dio. Questo è quello che induce la vera sapienza; e senza essere sapiente e saggio, cosa è mai un uomo di lettere?"

13 Cfr. la definizione di genio ivi, p. 7: "Per genio intendo una certa natural inclinazione ed anche impulso, che insensibilmente porta chi alla pittura, chi alla musica e così ad altre arti o mecaniche o liberali, e così alle lettere, e nelle lettere stesse più ad una professione, o scienza, che all'altra. Suol anche questo genio essere una nobile spia di quell'interna abilità a qualche cosa che ci ha dato la natura, trovandosi di rado un vigoroso e costante genio a qualche arte o scienza, che non sia accompagnato da forze competenti per arrivarvi […]".

14 Si veda, ad esempio, l'espressione "debbo […] intimare massimamente" (ivi, p. 6).

15 L'edizione di riferimento è G. Vico: "Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo (1725-28)", di seguito citata con G. Vico: Vita, e "Aggiunta fatta dal Vico alla sua autobiografia (1731)". In: P. Cristofolini (a c. di): Opere filosofiche, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 5-54; ma si tengono in considerazione anche le varianti dell'edizione curata da Fubini nel 1977. Vico concepisce la Vita come prefazione alla Scienza nuova, la cui prima redazione si ha nello stesso anno. Per Fubini (1977, p. VII), dunque, l'autobiografia "[…] della Scienza nuova è quasi un complemento, un'appendice, se si vuole, o un'introduzione".

16 La parola "scuopre" viene ripetuta undici volte, accanto a "discopre" e "si scuoprissero", in solo tre pagine: cfr. G. Vico: Vita, pp. 35-38.

17 Ivi, p. 24: "[…] apertamente si vede che 'l Vico agitava un qualche argomento e nuovo e grande nell'animo, che in un Principio unisse egli tutto il sapere umano e divino".

18 Ivi, p. 6: "[…] con ingenuità dovuta da istorico, si narrerà fil filo e con ischiettezza la serie di tutti gli studi del Vico, perché si conoscano le proprie e naturali cagioni della sua tale e non altra riuscita di litterato". Riflette sul ruolo di Vico come scrittore e letterato H. J. Daus: Selbstverständnis und Menschenbild in den Selbstdarstellungen Giambattista Vicos und Pietro Giannones. Ein Beitrag zur Geschichte der italienischen Autobiographie, Genève, Droz, 1962, pp. 31-67. Rivendicando la schiettezza della narrazione, Vico vuole contrapporsi al metodo cartesiano del Discours de la méthode, una sorta di biografia intellettuale scritta nel 1637 e che rappresenta il modello delle vite vagheggiate da Leibniz, Conti e Porcìa.

19 Nonostante il netto rifiuto del pensiero cartesiano palesemente manifestato da Vico, Croce ha affermato che la filosofia cartesiana esercita un forte influsso nella formulazione del pensiero vichiano della maturità. Cfr. B. Croce: La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 1911. L'interpretazione crociana ha influenzato gli studi successivi e ha provocato un impoverimento della portata storica di Vico nella misura in cui non riconosce il suo ruolo nel contesto a lui contemporaneo: per Croce Vico fu "[…] né più né meno che il secolo decimonono in germe" (ivi, p. 54) e tale concezione ha determinato la perdita della storicità della concezione vichiana dell'uomo e della civiltà moderna e il suo dialogo con le correnti del pensiero europeo, come ad esempio il suo intervento nella discussione tra Cartesio e Hobbes sul tema dell'immaginazione. Reagiscono alle interpretazioni di Croce: N. Badaloni: Introduzione a Vico, Milano, Feltrinelli, 1961; S. Mastellone: Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze, D'Anna, 1965.

20 G. Vico: Vita, p. 53: "Egli nel professare la sua facultà fu interessatissimo del profitto de' giovani […]. Non ragionò mai delle cose dell'eloquenza se non in séguito della sapienza, dicendo che l'eloquenza altro non è che la sapienza che parla, e perciò la sua cattedra esser quella che doveva indirizzare gl'ingegni e fargli universali, e che l'altre attendevano alle parti, questa doveva insegnare l'intiero sapere, per cui le parti ben si corrispondan tra loro e ben s'intendan nel tutto". Per approfondire la concezione vichiana dell'unità del sapere cfr., tra gli altri, S. Otto: Giambattista Vico. Grundzüge seiner Philosophie, Stuttgart (et al.), Kohlhammer, 1989, pp. 48-53.

21 Definendo la natura umana mediante un insieme di elementi che la distinguono da Dio e dagli animali, Vico segnala la distinzione tra l'uomo e Dio attraverso le caratteristiche della mente umana: "Sapere (scire) significa comporre gli elementi delle cose: quindi alla mente umana è proprio il pensiero (cogitatio), alla divina l'intelligenza (intelligentia). Dio infatti raccoglie (legit) tutti gli elementi delle cose, estrinseci e intrinseci, in quanto li contiene e dispone; invece la mente umana, in quanto limitata, e in quanto sono fuori di lei tutte le altre cose che non siano essa stessa, può soltanto andare ad accozzare gli elementi estremi delle cose, senza mai collegarli tutti. Pertanto è partecipe della ragione, non padrona". G. Vico: "De antiquissima italorum sapientia". In: P. Cristofolini (a c. di): Opere filosofiche, cit., p. 62.

22 Informazioni relative al suo rapporto con i membri della famiglia sono contenute nell'aggiunta dal taglio romanzesco del marchese di Villarosa, pubblicata da Fubini (1977, pp. 88-96). Sul modo in cui Vico racconta la sua vita cfr. M. Cottino-Jones: "L'Autobiografia vichiana: il rapporto vita-scrittura". In: C. De Michelis, G. Pizzamiglio (a c. di): Vico e Venezia, Firenze, Olschki, 1982, pp. 131-141; per approfondire la gnoseologia vichiana cfr. J. Trabant (a c. di): Vico und die Zeichen, Tübingen, Narr, 1995.

23 Fubini 1977, p. XIII: "[…] una storia mitica, quasi il mito di se stesso, come doveva apparirgli al compimento della Scienza nuova, quando proiettava nel suo passato il suo pensiero e il suo stato d'animo presente […], scoprendo troppo remoti presentimenti e così rendendo più semplice e uniforme il suo svolgimento spirituale".

24 F. D'Intino: L'autobiografia moderna: storia, forme, problemi, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 35-36: "Con Vico siamo alla tradizione filosofica che ha forse più profondamente influenzato il genere autobiografico moderno, quella storicista, nella quale si uniscono una sensibilità estrema per le caratteristiche peculiari di ogni epoca e il senso di un legame organico tra le varie fasi successive".

25 Alcune annotazioni relative al periodo 1737-1741 vengono aggiunte nel forte di Ceva, dove viene trasferito nel 1738. L'edizione di riferimento in questa sede è: P. Giannone: "Vita di Pietro Giannone". In: S. Bertelli, G. Ricuperati (a c. di): Opere di Pietro Giannone, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971, tomo I, pp. 13-346, di seguito citato con P. Giannone: Vita. Per maggiori informazioni riguardo all'opera di Giannone cfr. R. Ajello (a c. di): Pietro Giannone e il suo tempo, Napoli, Jovene, 1980; S. Bertelli: Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Pietro Giannone, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968; L. Marini: Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel '700. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Bari, Laterza, 1950; G. Ricuperati: L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli, Ricciardi, 1970; B. Vigezzi: Pietro Giannone riformatore e storico, Milano, Feltrinelli, 1961.

26 P. Giannone: Vita, p. 212: "[…] Roma, vedendo che riuscivano vani ed infelici gli assalti, che si tentavano contro la mia opera per via di libri e di carte, rivolse tutti i suoi ingegni ed arti, valendosi di altre armi, contro l'autore, per abbatterlo ed interamente rovinarlo; sicome, con l'aiuto di molti al fin l'uccise". Sul ruolo di Giannone come "Mitglied der Gesellschaft" cfr. H. J. Daus: op. cit., p. 123.

27 P. Giannone: Vita, p. 50: "Compresi ciò che importasse quel savio ammonimento di dover drizzare tutte le conoscenze fisiche e naturali, e spezialmente la cognizione di noi stessi, non ad altro scuopo, che per acquistare una buona morale, la quale, peregrinando in questo mondo, ci potesse essere non sol di guida per ben reggere la nostra vita ed i nostri costumi, ma per renderci forti, pazienti alle sciagure ed avversità, per mezzo delle quali deesi camminare, in passando questo mar procelloso, pieno di sirti, di pirati e di duri scogli".