IL CRISTALLO, 2011 LIII 2-3 [stampa]

L'ESPERIENZA POETICA DI LIBERO DE LIBERO

di ELIO ANDRIUOLI

Allorché nel 1934 apparve Solstizio, nei Quaderni di Novissima ad opera di Giuseppe Ungaretti, Libero De Libero subito si rivelò come un poeta dalla voce sicura e personalissima per la singolarità delle immagini e la freschezza del canto. «Dal mare viene giorno di vele, / fango alla spiaggia e rottame, / e sono avide effigi del vento / quando in me chiuso come albero / odo la pioggia / benigna venire alla speranza» (Tre canti per una speranza); «Il silenzio allunga il piede / e mi raggiunge nemico. / Presso la roccia / mutata in fonte / la capra s'inquieta / e fa mattina...» (Solstizio); «Adolescenza indifesa, / ti cade la notte negli occhi / quando hai la bocca / uguale alla mia» (La notte negli occhi).

In verità queste poesie più che dall'esperienza strettamente ermetica, dalla quale derivavano il «gioco analogico» (Sergio Solmi), apparivano scaturire da un surrealismo di fondo, come osservò Gianfranco Contini, secondo il quale De Libero «è uno dei migliori rappresentanti non come generalmente si assume, del cosiddetto ermetismo, ma di un vero e proprio surrealismo italiano, ciò che per esempio lo allontana da Quasimodo e più sottilmente lo distingue dal pur vicino Sinisgalli» (si veda in proposito la Notizia di Luigi Baldacci a Scempio e lusinga del 1972).

L'origine della sua poesia, sempre carica di una non comune tensione, che rivela «il gusto aspro e pronto delle impressioni e uno scatto vivo e risentito» (Giorgio Bárberi Squarotti), va comunque cercata nel forte legame del poeta con la sua terra natale, la Ciociaria (De Libero nacque a Fondi, in provincia di Latina, nel 1906 e morì a Roma nel 1981), capace di suscitare in lui la forza evocativa e fantastica donde trarre l'ispirazione più genuina.

Poesia della memoria e del rimpianto, quella di Solstizio sapeva illimpidirsi nei ritmi pensosi e dolenti dell'elegia, come accade specialmente in Fanciullo morto, una delle più compiute liriche deliberiane: «Saro, angelo nuovo / assunto al funesto giuoco, / chi ti vide in città / ebbe un attimo d'azzurro / sulla via e ora non sa, / al frutto del mattino / più non mordi. / Avevi piume negli occhi / e io le vidi tremare / ai viaggi narrati, / sola tua vita da vivere / è in quel nulla dorato. / L'ombra delle tue ali / per tutta una stagione / i piazzali del giuoco coprì».

Un andamento elegiaco hanno anche molte delle poesie successive di De Libero, a cominciare da quelle di Proverbi (1932-1934): Prigione; O miei giorni solenni; Epistola; Cicala; Disamore; Lamento d'Arianna; ecc. e di Testa (1934-1936): Elegia a Fondi; Racconto; Tu eri amore; In questa valle di allora; Amore, albero grande; Valle etrusca; ecc.

Da questo «mitico regno della memoria» ecco allora apparire, come osserva Gaetano Mariani, il paese, la casa, gli amici, la campagna, che vengono rappresentati in modo da dar luogo ad una specie di poesia-racconto altamente liricizzata, che si giova di un procedimento di assidui nessi analogici per esprimere un sentimento di sottile malinconia.

Si legga, ad esempio, Racconto nel suo incipit: «Padre, quel giorno di quell'anno / in braccio ai figli scendesti la scala / e coi neri cavalli fu il viaggio / per la lunga foresta d'un sonno» e si legga la seconda parte di Disamore: «Nei tuoi occhi erano strade / e paesi d'infanzia scordati, / la tua guancia era l'uva / serbata all'inganno invernale. / E venne il lupo dell'ombra, / dentro i muri della notte / fu sepolto il nostro grido».

Né si dimentichino certi versi di sicuro effetto di Valle etrusca: «Della morte è ironico il vino / bevuto a sorsi di anni / e ogni seme sempre rimatura / per un cielo ignoto e fioco. / Quale uccello sinistro / il sole non è nominato / nella patria eterna dei morti».

Dello stesso periodo sono le Odi (1932-1936), dedicate alla pianura, all'inverno, all'estate, al sonno, al mare, all'insonnia, all'altro sonno, alla montagna, all'infanzia, a chi nasce, nelle quali si nota una maggiore oggettivazione, come appare da questi incipit: «Irata la terra esala / nella lunga mattina / afrore di salvia e l'opprime / della luce un immoto clamore» (all'estate); «Sotto palpebre saline / l'alba è maturata / e scioglie colombe / in nidi inquieti di onde» (al mare); «Dentro uno specchio ripara la luce, / alla fronte torbido buio / e un trapunto di pigre mani» (al sonno). Venne poi Eclisse (1936-1938), composto da cinquanta brevi poesie di carattere schiettamente epigrammatico, come la XII: «Eri appena una voce, / ora sei l'ombra mia / e mi scendi negli occhi / e acqua m'attingi e acqua, / sino alla morte mi bevi» o la XLII: «Non fu che sventura / al tuo partire e tutto perì / nei luoghi dell'allegria / al tuo saluto, / al mattino il pane non basta, / il letto non serve alla sera».

Il libro del forestiero (1938-1942) segna una tappa importante nella produzione poetica di Libero De Libero, dato che in esso la sua voce si fa più ferma ed acquista maggiore incisività. Ricompare qui il tema caro a questo poeta del ritorno al paese natale e vi ricompaiono i temi del vagheggiamento e del rimpianto dell'infanzia e della prima giovinezza. Il libro si apre con Vocativo per un'elegia, dall'incipit quanto mai suggestivo: «Forestiero, il tempo fa montagna / e tu gridi ai suoi boschi e il muro / di casa è lontana bandiera. / Finestre sciolte nei bengala / della luna, sull'erba un falso scroscio: / fu una cara lotta di trecce / sbrigliate nella corsa degli ontani / e la guancia offesa da una mano / si celava sul petto dell'amico».

Efficacissime sono qui le immagini che affiorano ad ogni passo, come: «Dell'ora bianca si svena / la meridiana e nelle stanze / un alito muove antiche presenze / che dettero fuoco alle stagioni» (Stanotte le Pleiadi); «Vado nel giorno come per scale / stordite nel coro delle porte» (Tornano gli aquiloni); «All'alba perenne dello specchio / m'insegue l'urlo antico delle stanze, / il tempo andato è scritto nella sfera. / Ancora una tenda giostra a fiori / dentro il vento del sonno e il giuoco / comincia delle scale in fuga» (Ritorno a Patrica); ecc. Ma tutto il libro è degno di un'attenta lettura, per quell'affettuoso sguardo con cui il poeta si volge al passato a considerare persone e cose.

Con Banchetto, che raccoglie le poesie degli anni 1942-1945, De Libero passa dalla meditazione sulla propria personale esistenza ad una visione più generale della vita, che coinvolge tutti gli uomini, causata specialmente dalla tragica esperienza della guerra. Ne scaturiscono alcune poesie di più ampio respiro, quali Settembre tedesco e Il morto soldato, che sono tra le sue più memorabili.

Nella prima si narra della morte di un ragazzo, Claudio Bin, di appena undici anni, «ucciso col mitra perché rideva» il 22 settembre 1943 da una sentinella tedesca. Il poeta racconta l'episodio con dolore e con sdegno ed alta diviene qui la sua voce: «Chi impedirà alle strade di andare, / chi consiglierà al falco di non volare / perché Hans ha ucciso Claudio che rideva?». Nella seconda poesia è la morte di un qualunque soldato caduto al fronte che muove la fantasia e la sensibilità del poeta: «Sono morto sul campo d'ottobre / e mi coprì la facile terra / come un seme a lei tornato».

Parte da qui un più risentito movimento della poesia di De Libero, che avrà un seguito non soltanto in altri testi dello stesso libro, quali Proprio un mattino d'aprile e La mia notte, ma anche, come osserva Gaetano Mariani, nella sua successiva raccolta, Sono uno di voi, dove l'ispirazione di questo poeta, seguitando sulla via già intrapresa, diviene espressione non più del dolore esclusivamente individuale, bensì di quello dell'intera umanità; il che comporta anche un sentimento di solidarietà verso ciascuno dei propri simili.

Sono uno di voi (1945-1956) è il libro nel quale De Libero sviluppa questa sua nuova tematica, con poesie quali Per gli assassinati alle Fosse Ardeatine, Domenica 1945 a Cassino, Dopo Hiroshima e specialmente con la poesia eponima, che meglio esprime la sua ansia di andare incontro agli altri uomini, mischiandosi ad essi.

Certo, in questo libro non mancano le poesie nelle quali l'autore canta la propria pena segreta, come è di Già furono gli anni («Sempre arrivo dove tu sei / l'ombra taciturna che rincorro / e quando cammini tu l'aprile / a me torna con notizie di usignoli, / d'una parola la voce mi duole / se guardi qualcuno che ti parla / e sei tu quell'arido singhiozzo / all'orecchio che sogna un rimorso»); di Epigrafe per un addio («Questa sera è un altro congedo, / sulla tavola passa la luna / e per meglio celarti mi guarda / un'ombra si stacca alle tue spalle / e dolce creatura si allontana, / tu non parli e il tuo silenzio divoro»); di Sonetto («L'estate non finirà, / vivrà nella vite rugginosa, / nell'amaranto che me saluta, / nella collina che tu cercavi»); di Lettera d'estate («Alla cicala delle colline / così stordita nella macchia afosa, / voglio tornare alle mie contrade / dove l'ulivo è amico mio celeste»); ecc. Eppure emerge con evidenza dalla lettura di Sono uno di voi una più compiuta coscienza del dolore e dell'amore, che trascende la storia personale del poeta per farsi sentimento corale, specie nelle due lunghe poesie (dei veri e propri poemetti) Ascolta la Ciociaria e Creatura celeste, nelle quali De Libero leva con commozione la sua voce nel parlare della terra che gli diede i natali: «Ascolta la Ciociaria, amico. / Tu fuggitivo per strade forestiere / che vanno sempre altrove, ascolta / nella conchiglia remota del mio cielo, / nella lagrima che goccia dal suo frutto, / nel volo d'una foglia che t'arresta / al confine d'un bosco avventuroso, / ascolta la Ciociaria alle sorgenti» (Ascolta la Ciociaria); «O mio paese, ritorni con l'alba / odoroso fantasma che m'ascolta / dovunque dico la dolce leggenda, / e sei pure la rondine che a sera / straluna azzurra prima di sparire: / io lucciola vagante nel pensiero / delle tue contrade, te inseguendo / per le stanze calpesto le tue zolle» (Creatura celeste).

Le poesie di cui sinora si è parlato, che vanno dal 1939 al 1956, De Libero le riunì in un volume della mondadoriana collana de "Lo specchio", con il titolo di Scempio e lusinga, uscito nel dicembre del 1972. Le successive poesie, che vanno dal 1956 al 1970, le aveva pubblicate l'anno prima, in un libro dal titolo Di brace in brace.

Si nota in questi nuovi versi come l'affiorare di un'ispirazione satirica, specie in poesie quali Per una ragazza virtuosa di giorno; Per una signora culturale; Per una strada al nostro oggi. Ma anche emerge da essi talvolta una nota tragica e persino macabra, riscontrabile in testi quali: Per un cupo balletto («Ombra non è chi alle sbarre mi ferma / del sonno, non è fiume chi scintilla / nell'abbraccio che mi spinge al precipizio / d'una scala, lo scampo è nella stretta / che mi avvita e svita al perno del suo affanno»); Per un vento di braccia («noi pagine di un libro che si apre e chiude / al vento di braccia disperate»); Per un trionfo di vertebre («Siamo relitti d'una grande marcia / nella gioventù, fossili noi siamo / a forma di cuore in astucci di ortica, / orafo non v'è per farne gioielli»); Conversazione notturna («... tra le braccia d'un allegro fiume / viaggia un nulla che porta il mio nome»); Di notte tornando a casa («È l'ora che batte su rauchi tamburi / e sciamano echi di passi pellegrini /... / ogni angolo nasconde un'ala inquieta, / ogni pensiero è un rumore che allarma / il filo della viltà nel labirinto»); ecc.

Vero è che la nota lirica e quella persino elegiaca finiscono con l'avere il sopravvento nella raccolta, specie in poesie quali Tu entri di spalle («Come albero l'attesa mi ha sfogliato / e tu entri di spalle stasera / per dire la bugia d'un ritorno»); La tua veste nuova («Alle pareti un altro foglio brucia / la speranza, il tuo seno si scapriccia / in un tenero giro d'allegria, / la lama abbaglia del tuo fianco stretto. /... / è un velo d'aria la tua veste nuova»); Elegia al padre («Eri tu poco fa quell'uomo solo al bar, / il cappello piegato sull'orecchio»): una poesia, questa, che contiene alcuni versi che suonano come una confessione: «Ho ascoltato soltanto dietro le porte / della vita, il mio posto è di non averne / alcuno e ho perduto quel solo marengo / che mi hai lasciato per la nuova innocenza». Si leggano anche Elegia alla nipote Paola («Troppo ardente correvi a perdifiato / e il premio hai perduto della vita / tu più ansiosa del seme che la terra / rifiuta, a te nemica la tua gioventù») e Pomeriggio antico col pittore Janni («In cerchi di fumo / parole sfiatano, amara la spirale / vaneggia nella brace di un sorriso. / … / non v'è lode che risparmi l'attesa / d'un premio alla speranza d'esistere»).

Si riaffacciano in queste e in altre poesie del libro i temi della memoria e del tempo che fugge (sempre fondamentali in De Libero), emergenti specie da: Nel cielo d'un lenzuolo, Biografia postuma, Elegia in Oxford Street, Suite londinese. Notevole ci sembra in particolare la terza, dalla quale traiamo una citazione: «Restami tu, presenza melodiosa, / in filigrana d'un verso spaurito / sulla pagina di questo mattino». E si veda pure Per zia Virginia: «Ancora l'ulivo dice il tuo nome / a una foglia sonora che lo scrive / nella lingua d'un verde stornello».

Anche in Di brace in brace si manifesta poi la vena epigrammatica di De Libero, particolarmente palese in taluni brevi componimenti contenuti nella sezione Nodi di carta giapponese e nell'ultima, Versi ritrovati in una scatola, dai quali citiamo: «Venne l'inverno a dirmi pietoso / il passero affamato del tuo nome / che stride sotto la mia neve»; «Nella mia mano una lagrima crolla / e un'altra tu lasci cadere, amore»; «Stasera quel pianto di bambino / al mio balcone suona il clarino / si dibatte farfalla dolorosa»; «Viaggio anch'io per luoghi volubili / e fino al guizzo d'una certa frontiera».

Dalla lettura di tutte queste poesie emerge la figura di un poeta nel quale una visione negativa del mondo contrasta con la forte pronuncia, onde scaturiscono alcuni esiti di indubbia originalità: «M'insegue il gelo della tua indifferenza» (Letterina a F.); «La speranza è una notte troppo lunga» (Elegia per un Presepe); «Amore acerbo ha fame di sconfitte» (Elegia per un ritorno a Patrica); «Conosco i passi della tua memoria» (Nel cielo d'un lenzuolo); «Si chiama sempre la contrada che abiti, / nel paese del mai scrivo il tuo nome» (Epistola) sono esempi di un'arte consumata del verso, in virtù della quale ogni contenuto trova spontaneamente la sua forma, quasi per un'intima necessità.

In Circostanze, il suo ultimo libro di versi, De Libero raccoglie le poesie che vanno dal 1971 al 1975, nelle quali egli sembra accentuare del suo pessimismo, dato che la sua voce si leva qui in maniera ancor più dolente e risentita: «Quali parole attendi da uno sguardo / e dalle braccia quali festini / speri tu che corri incontro a un muro?» (Per una lacrimetta); «Ti affacci alla memoria / e lo sguardo ricomincia d'una attesa / fughe e ritorni di scale disfatte» (Senza speranza); «Anche gli altri se ne andarono in furia / sfasciando l'orto e schiantando cancelli / mancò il tempo all'ultimo respiro / le domande restarono mute» (Girotondo).

La parola di De Libero maggiormente si carica in questa silloge di forza espressionistica, specie in poesie quali Notizie dal gelo, che è tra quelle di lui più riuscite per la vivezza e la novità delle immagini: «E quel ridere cariato / del vecchio in bicicletta / avvolto alla sciarpa del suo inverno / scricchiolano i chiodi del suo scheletro. // E la rissa dei cani al guinzaglio / del ragazzo che il vento schiaffeggia / sognando lui più smilzo che la canna / in pugno strina la sua bocca in pianto. // E crolla a sorte sul pietrame il tordo / allo sparo dell'occhio nemico / non altro che foglia annerita / una spoglia di gioia rattrappita. // E quel falso orgoglio della luce / cromata da un gelo senza cuore / c'è un azzurro così spietato / che alberi e volti stridono in furia». Ma si vedano anche: La tua persona, Anagrafe, Compleanno, Dettato, Alfabeto, A lapis, Lapide al Tempo, Bruciano le carte.

Leggiamo di queste ultime poesie Lapide al Tempo, che sembra segnare quasi la preclusione ad ogni apertura verso il domani, con quel suo aprirsi e chiudersi in un giro netto e perentorio: «Ieri un millennio fa / oggi un secolo di memorie / tutti i domani conclusi / gonfiano un vulcano di termiti / chi l'attimo rifiuta al suo futuro / è la farfalla felice di sparire / basta il cielo per una lapide al Tempo».

Pur nel ripiegarsi del poeta sopra se stesso, Circostanze segna tuttavia un'ulteriore prova dell'arte consumata di De Libero, sempre caratterizzata dall'incisività e dalla fermezza del dire.

Oltre che poeta però De Libero fu anche un valente prosatore, come attestano le sue raccolte di racconti: Malumore, Il guanto nero, Racconti alla finestra e i suoi romanzi, Camera oscura e Amore e morte.

Non possiamo qui soffermarci su queste pagine, nelle quali sottile è l'analisi dell'ambiente e notevole la tensione narrativa, che sa giovarsi di diversi registri, varianti dal lirico al macabro, per giungere sino al grottesco. Anche di esse suggeriamo comunque la lettura a coloro che desiderano avere una più compiuta conoscenza di questo autore.