IL CRISTALLO, 2011 LIII 1 | [stampa] |
Tra i moralisti de "La Voce", accanto a Jahier e a Boine, vi è clemente Rebora, nato a Milano il 6 gennaio 1885 e morto a Stresa il 1 novembre 1957.
Laureatosi in Lettere presso l'Ateneo milanese, Rebora insegnò materie letterarie nella sua città, collaborando inoltre a "La Voce", a "La riviera Ligure" e ad altre riviste. Notevole fu in lui la problematica morale, propria della tradizione lombarda, dal Parini agli scapigliati, unita ad una ricerca assidua di Assoluto. Si avverte nei suoi scritti l'influsso del Péguy e del frammentismo in poesia proprio del suo tempo, sfociato poi nei Frammenti Lirici del 1913.
La partecipazione alla Prima Guerra mondiale e la fine della relazione durata sei anni con la pianista russa Lydia Natus, dalla quale si separò in seguito alla partenza di lei per Parigi, nel 1919, determinarono in lui la profonda crisi spirituale che lo portò nel 1929 ad entrare nel convento dei Padri Rosminiani di Domodossola, dove fu ordinato sacerdote nel 1936.
Dopo i Canti anonimi (1922), che testimoniano della crisi da lui attraversata, Rebora cessò per lunghi anni la sua attività letteraria (che si era pure esplicata nel campo della traduzione di scrittori russi, tra i quali Andreev, Tolstoj, Gogol', egregiamente resi in lingua italiana), riprendendo soltanto tardi a scrivere poesie, per volontà dei superiori del suo Ordine. Nacquero così Via Crucis (1955), Curriculum vitae (1955), Gesù il Fedele (1956), Canti dell'infermità (1957), libri che costituiscono l'espressione di un sentimento religioso intensamente vissuto e sofferto.
Caratteristica dello stile di Rebora è l'aspra musica dissonante delle sue poesie, che par ricalcata sulle Rime petrose di Dante; così come è una caratteristica della sua poesia il gioco espertissimo degli endecasillabi e dei settenari, che sembra in lui derivare dal Leopardi.
Si tratta ad ogni modo di uno stile personalissimo, che rivela autenticamente l'animo dell'autore, il quale non va alla ricerca di preziose armonie (e lui stesso lo dichiara: "…né i melliflui abbandoni / né l'oblioso incanto / dell'ora il ferreo bàttito concede", Frammenti Lirici, I), ma di parole che esprimano la sua ansia di verità e di schietti rapporti umani.
La volontà di scavo interiore porta Rebora ad una appassionata ricerca, che dà luogo ad un verseggiare concitato, teso, nel quale è frequente l'uso di parole adoperate in maniera marcatamente espressionistica (Gianfranco contini parlò per lui di "stilismo lombardo") e nel quale sovente affiorano sinestesie e ossimori, movimenti analogici e bruschi passaggi dal concreto all'astratto e viceversa (tecnica tipica dei mistici), torsioni sintattiche e impennate liriche di alto respiro, accanto a cadute nel ragionativo e nel prosastico. Il tutto però permeato da un fuoco mai domo che ogni cosa nobilita e innalza a poesia.
Rebora ebbe anche una grande sensibilità musicale, dal momento che, oltre che poeta, fu pure un valente interprete e un buon compositore di musica.
Vi è poi in Rebora, sin dalle sue prime poesie, un profondo sentimento della natura ("mamma, zolla aria luce, / papà, tronco puro severo, / fratelli, miei rami e mio nido, / sorelle, mie foglie e mie gemme") e la percezione del mondo come opera di dio ("slancio di creazione, / perché sì duro t'incrosti / negli urbani viluppi, / o men chiaro traluci / o doloroso affondi?", II), alla quale l'uomo deve collaborare, pena l'infelicità.
Quelle che sono le eterne domande che ognuno si pone: chi siamo? Dove andiamo? Qual è il senso del nostro vivere? Assumono in Rebora un'imperiosità e un'urgenza che non gli danno tregua e che lo spingono continuamente verso un attivo operare ("chiedono i tempi agir forte nel mondo", X), così da vincere l'opacità di un vivere intristito e senza luce ("sciorinati giorni dispersi, / cenci all'aria insaziabile: / prementi ore senza uscita, / fanghiglia d'acqua sorgiva / torpor d'àttimi lascivi / fra lo spirito e il senso", VI).
Come in altri poeti del suo tempo (Pianissimo di Camillo Sbarbaro è del 1914), vi è in Rebora la visione negativa della città, luogo di perdizione e di mortificazione dell'uomo, contrapposta alla campagna, libera e sana ("tutta è mia casa la montagna, e sponda / al desiderio il cielo azzurro porge" - IX, mentre la "città vorace /... / nella fogna ancor tutti affratella" - X).
Tra le poesie più significative di Rebora, per la capacità che in essa egli dimostra di dar vita alle cose inanimate e di farle fremere e pulsare, quasi avessero un corpo ed un'anima, vi è la XI dei Frammenti Lirici, che inizia: "O carro vuoto sul binario morto, / ecco per te la merce rude d'urti / e tonfi", dove l'agganciamento alla locomotiva di un vagone ferroviario è descritto con rara abilità tecnica: "Gravido ora pesi / sui telai tesi; / ma nei ràntoli gonfi / si crolla fumida e viene / annusando con fàscino orribile / la macchina ad aggiogarti".
Poesia ricca di molto pensiero, quella reboriana ha il dono dello scatto lirico, che la solleva e che si manifesta specialmente nell'immediatezza degli incipit: "O pioggia dei cieli distrutti / che per le strade e gli alberi e i cortili / livida sciacqui uguale, / tu sola intoni per tutti!" (XIV); "sui fianchi òndano avvinti / gli amatori in bisbiglio / nel languor sciolto dell'estiva sera" (XXIV); "Nel ciel piovuto l'aria in sé rientra / in uno sguardo ritroso di luce" (LII). E si vedano ancora: "Giovinezza mi fa leggiadro e saldo" (LXI); "Quasi luna albeggiando è il sol fra nebbie" (LXIII); "Nel terso gravitar dei mondi insonni" (LXVIII).
Sempre è rilevabile (e lo si avverte sin da una prima lettura) in questi versi l'inquietudine, l'assidua ricerca, la volontà di superare il contingente per toccare l'eterno, l'ansia di purificazione e di riscatto, che si traduce in immagini cariche di una forza inusitata, che talora, come già si è osservato, assumono forme violentemente espressionistiche: "Nell'avvampante sfasciume, / tra polvere e péste, al meriggio, / la fusa scintilla / d'un dèmone bigio / atterga affronta assilla /... / i muri abbassano pàlpebre..." (XXXVI); "ciel che t'infoschi / in un vorace stormo di nubi" (XLVII); "dal grosso e scaltro rinunciar superbo / delle schiave pianure, /... / si lamina enorme la vetta" (LXX); "ci spàsima intorno il vestito / dell'universo stordito" (Fantasia di Carnevale); "c'è un corpo in poltiglia / con crespe di faccia, affiorante / sul lezzo dell'aria sbranata" (Voce di vedetta morta).
Vi è in Rebora il momento dell'abbattimento e della crisi: "Altra fu la promessa /... / e dove bene tentai / è un nulla e i cari affetti mi son vani" (XLV); e vi è l'invito rivolto a tutti gli uomini ad una nuova fratellanza "ciascun dica ove è perso, / e nella voce unita / consensi abbia e richiami" (XXXIX); così come vi è il suo andare fiducioso incontro al prossimo: "... nell'amor della gente mi paleso /... / rinascer tento negli altri felici" (LVI).
Il sentimento di una ritrovata armonia lo si incontra verso la fine dei Frammenti Lirici: "bello incrociar la vita / nella maglia del tutto / e mirarne il disegno / e il guizzo d'ogni punto" (LXXI); "son l'aratro per solcare: / altri cosparga i semi" (LXXII).
Più pressante con gli anni si fa in Rebora la "voce" che l'invita a sé per un radicale cambiamento della sua esistenza nei Canti Anonimi (1920-22) e nelle Poesie sparse (1913-27).
Quale premessa ai canti Anonimi il poeta pone questi versi: "Urge la scelta tremenda: / dire sì, dire no / A qualcosa che so", che costituiscono un chiaro accenno alla lotta interiore la quale lo porterà alla conversione, facendo nascere in lui "una certezza di bontà operosa, verso un'azione di fede nel mondo". Di tutto ciò sono testimonianza poesie quali Sacchi a terra per gli occhi e Se Dio cresce.
Delle Poesie Sparse si legga specialmente, a questo proposito, quella che inizia "mentre lavoro nei miei giorni scarsi / mi pare deva echeggiar imminente / una gran voce chiamando: Clemente! / Per un'umana impresa ch'è da farsi...".
Appartengono a queste due sillogi talune delle poesie più giustamente famose del nostro poeta, quali Al tempo che la vita era inesplosa; Campana di Lombardia; Dall'immagine tesa; Clemente non fare così e specialmente Viatico, che una delle poesie più forti di Rebora e tra le più alte che la prima Guerra mondiale abbia ispirate: "O ferito laggiù nel valloncello, / tanto invocasti / se tre compagni interi / cadder per te che quasi più non eri, / tra melma e sangue / tronco senza gambe / e il tuo lamento ancora, / pietà di noi rimasti / a rantolarci e non ha fine l'ora, / affretta l'agonia, / tu puoi finire, / e conforto ti sia / nella demenza che non sa impazzire, / mentre sosta il momento, / il sonno sul cervello, / làsciaci in silenzio - // grazie, fratello".
Strazio, orrore e pietà qui si congiungono in un movimento unitario e compiuto in maniera indimenticabile. Si veda anche Voce di vedetta morta.
Concludono la produzione di questo primo periodo della vita di Rebora le Prose liriche (1915-17), caratterizzate dal marcato andamento ritmico e da quella che Fernando Bandini ha definito, per distinguere queste prose dalle precedenti poesie, "una compatta fisicità".
L'ultima poesia di Rebora, quella successiva alla sua entrata in convento, non molto aggiunge all'immagine che egli ci ha lasciata dell'arte sua, se si fa eccezione per qualche testo, percorso da un più acceso misticismo e maggiormente compiuto dal punto di vista formale, come La cima del frassino, Notturno, Ventesimo di prima messa, Son qui infermo, oltre al Curriculum vitae, che più direttamente si riallacciano alla precedente poesia di questo autore. Una poesia che invero ha influito come poche a svecchiare il mondo delle nostre Lettere, ma che ha saputo mantenere un suo ritmo e un suo decoro espressivo; certamente una poesia alla quale ancora oggi è possibile guardare con molto interesse, nonché con profitto, per gli insegnamenti che tuttora può dare.