IL CRISTALLO, 2011 LIII 1 | [stampa] |
La circolarità narrativa: Parma e le sue suggestioni
Nell'opera di Alberto Bevilacqua la città di Parma assume una molteplicità di significati, che si intrecciano e si arricchiscono vicendevolmente. Non si tratta solo della città natale dell'autore, ma anche di una terra ricca di memorie storiche e civili, centro ducale e patria di musicisti, città industriale dal volto borghese ed elegante e insieme densa di umori popolari. L'itinerario di Bevilacqua, che si dipana tra narrativa e poesia, tra memoria autobiografica e ritratti d'ambiente, ha in Parma un riferimento che, anche quando non viene espressamente nominato, nutre e sostanzia l'immaginario dello scrittore. Non a caso nel 1982, dopo un'esperienza letteraria ormai pluridecennale, Bevilacqua ha raccolto alcuni dei suoi romanzi maggiori nel volume La mia Parma: titolo significativo, a conferma di un legame che trascende la mera realtà geografica. del resto egli si è trasferito presto a Roma per lavorare come giornalista, vivendo la condizione, così ben descritta in libri come Questa specie d'amore, di intellettuale trapiantato nella grande città che non perde il senso delle proprie radici, che anche nelle contraddizioni della metropoli mantiene saldamente la coscienza della propria storia.
Lo scrittore ha così costruito una sorta di circolarità narrativa, nella quale il suo sguardo (di romanziere, poeta e regista cinematografico) si estende alla realtà circostante per poi tornare, in forme e modi diversi, al mondo in cui è nato e cresciuto. In molti libri troviamo un io narrante pienamente immerso nel suo tempo, nei ritmi frenetici imposti dal lavoro, viaggiatore abituale per articoli che raccontano i posti più lontani, ma anche pronto a ritorni improvvisi, spesso non previsti o non annunciati, nella sua città. Parma ha una storia complessa, che spazia dal passato di capitale tanto piccola quanto raffinata alla resistenza antifascista del 1922 (splendidamente rievocata, tra l'altro, in Una città in amore). Così il ritorno serve a recuperarne la dimensione mitica, ma anche a coglierne i piccoli e grandi cambiamenti. In questo senso assume un particolare rilievo, come punto di conclusione e insieme nuovo stimolo di un percorso mai davvero interrotto, il romanzo La festa parmigiana del 1980, che intreccia ricordi e vicissitudini del tempo presente. L'io narrante resta sospeso tra l'affetto per un luogo irrinunciabile ed un distacco emotivo che non rinnega le proprie radici, ma denota una capacità adulta di accettare lo scorrere del tempo, senza cancellare il patrimonio di memoria e d'esperienza ricevuto in dono dalla città.
Un ritorno inconsueto
A contraddistinguere il ritorno raccontato nella Festa parmigiana è l'occasione da cui il viaggio deriva. L'io narrante, un uomo ormai maturo ed alter ego dell'autore, torna a Parma in incognito, alloggiando in un albergo, per rispondere alla sfida di un altro viaggiatore, uno sconosciuto che in treno lo ha accusato di coltivare un mito ormai inattuale:
"La sua devozione" - mi ha accusato - "è un inganno. Parma, ormai, è un'altra: un luogo del mondo come tanti, senza più solennità ne pietà. Ha subìto una flessione verso la violenza e la sopravvivenza […] La partita è chiusa" […] In quel momento, contro il finestrino del rapido, il tramonto ha illuminato Parma nei suoi ponti e viali (p. 8).
Il protagonista, che una pagina prima, all'inizio del libro, ha dichiarato che in Parma ha sempre visto raccolte "le meraviglie del possibile", aggiunge dunque un nuovo viaggio alle sue già numerose peregrinazioni da Roma all'Emilia. Significativo è l'emergere immediato di un senso di teatralità, una finzione che da un lato sembra annunciare un'inautenticità di fondo, dall'altro testimonia un gusto del gioco che per tutto il libro non verrà mai meno. Il ritorno avviene all'insaputa della moglie: l'uomo le ha detto di avere un impegno di lavoro in un'altra città e, quando confida al direttore dell'albergo di voler incontrare "una persona allegra" (p. 11), gli lascia credere di voler vedere una prostituta. Arriva una ragazza di circa vent'anni "cinica, ma non volgare, tantomeno sciocca" (ibidem) che sembra incarnare la Parma che l'ospite non ha mai conosciuto o non ha mai avuto la forza di guardare in faccia. La narrazione procede, da questo momento in poi, su un duplice piano temporale, alternando ai ricordi del passato un presente fragile fatto di incontri provvisori, di una festa galante il cui capotavola, coetaneo del protagonista, si unisce quasi per disperazione alla giovane regina della festa, la diciottenne Marta Fiori. Sarà proprio Marta a mandare in albergo all'io narrante una serie di ragazze, molto giovani: a volte non gli chiedono nemmeno il nome o la professione, in altri casi parlano di sé o chiedono di assistere in aula ad un processo per corruzione, dove "uno degli imputati si chiama, per ironia della sorte, Giuseppe Verdi" (p. 185). Questo particolare conferma la presenza, nel libro, di un'ironia discreta e a suo modo paradossale: Parma è la città del romanzo di Stendhal, di Maria Luigia segretamente attratta da un eros perverso, di Maria Amalia, tanto potente quanto imprevedibile nella sua arbitraria gestione del potere. È ovviamente anche la città dell'infanzia, dell'argine del Po, della profezia che il protagonista ha sentito dalla madre:
Appresi in tal modo, sia da lei che dall'Albina Savi, che il mio solo privilegio sarebbe stato la fantasia, quel poco e quel tanto che mi avevano passato i cantori venuti di Spagna, a recitare a Corte, chiamati da duchi e duchesse troppo afflitti dalla noia per non essere attratti dai cerimoniali blasfemi e dall'illusionismo con cui i guitti, sulla scena, riuscivano a contrabbandare la vita come il fittizio luogo dove ogni errore è perdonabile, e originale non è Dio, che crea la ripetizione del gioco, ma il gioco stesso che, se vuole, sovverte le sue regole.
Quei guitti spagnoli erano i miei padri.
E mia madre si chiama, appunto, Cantadori (p. 62).
Dal brano emerge l'equilibrio narrativo dell'opera, a mezzo tra invenzione e cronaca di eventi, tra ricordo storico e autobiografismo. Soprattutto però vi si riconosce il senso stesso del viaggio, una volontà razionale di conoscere le cose per quello che sono e che sono state, per ritrovare nel grumo di memorie e di circostanze le tappe di un percorso che, nel bene e nel male, ha comunque conosciuto una sua maturazione. Così la fine del viaggio, la ripartenza per Roma che segna anche la fine del libro, denota una capacità di accettare Parma per quello che è:
vivrò altrove, nient'altro, e se rimetterò piede qui, tornando a trovare mio padre e mia madre, non sarà per il mito del ritorno (p. 223).
Il motivo del ritorno è variamente modulato, come in un componimento musicale sempre diverso per echi ed accenti d'ispirazione. Non a caso, nel 1998, Bevilacqua ha scelto di stampare il romanzo Una città in amore Abbinandolo ad alcuni capitoli della Festa, ribattezzati (proprio come in un'opera lirica) "arie". Il ritorno nella città natale a distanza di anni è sempre un'esperienza che porta con sé emozioni contrastanti, ricordi commossi e rancori più o meno legittimi, più o meno intensi, motivi d'orgoglio e rimpianti che ancora bruciano; nel Novecento italiano si trovano esempi illustri in molte pagine di Pavese o nel romanzo, anch'esso legato alle Langhe, L'ombra delle colline di Giovanni Arpino (1964). Sono ritorni intrisi di una forma più o meno esplicita di amarezza o comunque di inquietudine, perché viene sempre la tentazione, inevitabile, di tentare bilanci che restano parziali e provvisori. Bevilacqua sembra però approdare, come si è visto, ad una sorta di commiato definitivo, anche se Parma tornerà più volte nelle sue opere. Se è vero che Parma, come sostiene Luigi scorrano, nella Festa esercita "una sorta di duplice moto d'attrazione di fuga", è anche vero che questo doppio rapporto intercorre sempre tra una città e chi, dopo tanti anni, si appresta a ritornarvi o anche solo a ripensarla da lontano, magari attraverso la poesia (e tutt'altro che secondario è, tra l'altro, l'impegno del Bevilacqua poeta): per restare al ventesimo secolo, basti ricordare che nel suo Lamento per il sud, intriso di umori civili e memorie autobiografiche, Quasimodo parla di un "assurdo contrappunto/ di dolcezze e di furori, / un lamento d'amore senza amore", che è proprio quanto accade, pur partendo da presupposti diversi, nella Festa parmigiana. Vanna Gazzola Stacchini conferma l'ambiguità ed insieme il valore universale di questo legame, affermando che
Parma, come luogo deputato, è anche un luogo psichico […] egli vi torna sopra come a frugare nelle proprie piaghe […] Bevilacqua ha scritto un solo lungo romanzo della sua condizione esistenziale, che diviene […] la condizione dell'uomo contemporaneo sradicato dalla vita.
Per Bevilacqua questa necessità di fare i conti con il passato significa, nella Festa parmigiana, prendere atto dello scorrere del tempo, accorgersi dell'ineluttabile mutare delle cose. Come afferma Giuseppe Amoroso, lo scrittore riscopre "innumerevoli trame leggendarie" legandole "al filo assorbente del tempo nel suo misterioso immutabile farsi presente", fino a cogliere
una più ampia geometria di segnali che acquistano proprio qui […] un'eloquenza senza più veli. Ed è la catarsi conoscitiva, l'approdo risolutore per ogni nuova "avventura".
Guido Piovene e il ritorno a Vicenza
Fra i molti paralleli possibili per il libro di Bevilacqua, appaiono significative alcune suggestioni del romanzo Le Furie (1963), una tappa fondamentale dell'itinerario di Guido Piovene. Anche in questo caso siamo di fronte ad un ritorno anonimo, in una stanza d'albergo: non, come in Bevilacqua, per rivedere le cose a distanza di anni, ma per trovare con esse un equilibrio. Il soggiorno a Vicenza è, temporalmente, molto breve, occupa lo spazio di una mezza giornata ed è il racconto, quasi la cronaca, di una passeggiata verso una clinica di Arcugnano in cui è ricoverata una parente. La strada percorsa a piedi dallo scrittore, che lungo cinque chilometri attraversa le colline sopra la città, è popolata di luoghi e persone vive nella memoria, ma è anche densa di dubbi irrisolti, di domande che in qualche modo attendono risposta:
Ma sento che la passeggiata […] sarà un avvenimento decisivo della mia vita […] sono in cerca d'un momento qualsiasi che mi porti davanti, fulmineamente maturata, una vicenda di incertezze, sconfitte, decisioni da prendere e rinvii pieni di rimorso in cui mi sto dibattendo da troppo tempo. Il momento preparato è questo (pp. 273-274).
È il momento di ricordare la propria storia personale e di riflettere sull'attività letteraria, su un romanzo che Piovene non è riuscito a scrivere, perché vi si accumulavano dentro troppi personaggi, troppe storie, finché il romanzo gli è "scoppiato" (p. 276) tra le mani. In effetti le Furie arrivano dopo una lunga pausa narrativa, quattordici anni dopo la pubblicazione dei Falsi redentori, precedute da memorie di viaggio, volumi saggistici, da un'immersione nella concretezza del reale. Per questo il ritorno di Piovene diventa un confronto con le proprie ossessioni di uomo e di scrittore. I ricordi che scaturiscono dalla passeggiata corrispondono a frammenti del romanzo incompiuto. Il duplice piano temporale della narrazione si dipana come una sorta di labirinto dell'anima tra dati oggettivi e immagini della mente, "visioni" come le chiama Piovene stesso:
Io non sono un fantastico, nemmeno un inventivo, e nemmeno un realista, ma sono un visionario di cose vere. Non mi è lecito manipolarle, ma soltanto guardarle attentamente, registrarle, e le vedo tanto di più quanto più sono cieco, sordo, distratto. Non mi era lecito nemmeno manipolare l'altro ordine di persone, o apparizioni, o visioni […] nemmeno esse sono inventate (p. 277).
Lo scrittore che, già con i racconti della Vedova allegra (1931) e gli ambigui tormenti psicologici di Rita Passi nelle Lettere di una novizia (1941), aveva fatto della doppiezza la sua poetica, adesso sente il guardare in faccia i suoi fantasmi personali. Non si tratta di rinnegare ciò che è stato, ma di trarne un bilancio definitivo, che permetta di decifrare il significato profondo della propria storia e della propria scrittura. Così il libro del 1963 racconta l'infanzia sui colli vicentini, la zia dello scrittore e la commedia quotidiana della servitù, costretta a cerimoniali fin troppo precisi nel modo di servire in tavola e di rapportarsi ai padroni. In particolare emergono due figure di serve, la Ines e la Rita, una "tenuta ad avere la testa piena di ricordi […] e pettegolezzi galanti" che doveva "essere cinica, dire che importa solamente godere […] istigare le donne giovani a eleganze, narcisismi, spese frivole, fantasie erotiche" (p. 468), l'altra "esaltata ma tarda, pesante, fatta come un sacco pieno di troppa roba" per la quale il copione prevedeva "che si scandalizzasse dei discorsi dell'altra" anche se "non doveva mai azzeccare una risposta pronta […] essendo l'altra il personaggio riprovevole ma brillante, lei quello giusto ma cretino" (ibidem). Questa sorta di rappresentazione teatrale è parallela al senso di finzione ravvisato nella Festa parmigiana. Sulla strada dei ricordi Piovene giunge a descrivere il modo in cui da ragazzo osservava i fiori, le viole del pensiero che alludono ad un ricordo ma anche al "pensiero reale, di Platone o di Einstein" (p. 473), che quindi possono evocare i caffè di Vienna e "un'intimità evasiva, passioni da teatro eccitate da orchestre" (p. 474), ma anche il disporsi netto, preciso dei colori sui petali, osservati in maniera oggettiva, come attraverso una lente:
Il fatto essenziale però è che esistevo sempre meno e non avevo più fantasie di nessuna specie. Io stesso ero quella lente e nient'altro […] il fiore cambiava natura, e io con lui, o piuttosto mostrava progressivamente con me la propria natura reale[…] Ogni fiore guardato diventava universo, ne assumeva i poteri, con i suoi mondi abitabili o inabitabili, i suoi spazi squarciati dalle deflagrazioni, incandescenti, nere, rosso rovente, perennemente buio o luminoso o d'un buio sospetto con la luce che premeva dietro […] Adesso possedevo lui e lui possedeva me, ma non esisteva più distinzione tra i due possessi, e io venivo su dal suo fondo associato al suo tempo speciale e alla sua storia (p. 475).
Questo processo cognitivo cerca di scandagliare l'essenza stessa dell'immagine scrutando tra i petali del giardino: nello stesso modo Piovene cerca di porsi, per tutto il libro, nei confronti dei propri ricordi e del proprio impegno di intellettuale. Egli accoglie immagini e personaggi lasciandoli sospesi tra invenzione e storia, come con le figure di Angela e del fratello Antonio, che avrebbero dovuto essere i protagonisti del romanzo non scritto. Antonio, cresciuto tra gli studi di legge e la frequentazione di una casa d'appuntamenti clandestina, tenta senza successo la carriera politica e, con le sue attenzioni ipocrite che nascondono una mancanza d'autentico amore, porta la moglie alla follia, per poi scrivere una sorta di autobiografia di stampo religioso. La sua storia ricorda la vicenda di Pietro nei Falsi redentori, dove la donna protagonista giungerà addirittura (da qui il titolo del libro del 1949) al suicidio. Angela, la sorellastra cresciuta, come Rita Passi, tra le suore, acquista Villa Guiccioli per farne un luogo di accoglienza per prostitute pentite e donne ricche che vogliano prendere i voti, dentro una storia che alterna visioni mistiche (i sogni notturni di Angela) e scandali economici (l'industriale Faravelli, che dovrebbe aiutare Angela a portare avanti il suo progetto benefico, si suiciderà perché oppresso dai debiti): tutto, in questo libro di Piovene, è un sovrapporsi volutamente caotico di sogni e perversioni, di colpe e aspirazioni alla purezza. A fare da collante, e a segnare un punto di contatto con la Festa parmigiana, è la volontà razionale dell'io narrante di ritrovare una minima coscienza di sé. Lo stesso desiderio di giungere al cuore delle cose permea il ricordo di Eugenio Colorni attraverso il personaggio di Ernesto, cui Piovene fa pronunciare una condanna di quello che, purtroppo, è stato davvero il suo passato politico:
In politica non ti ho mai preso sul serio. Tu non hai una vera passione […] Certo, se quando scrivi sui giornali facessi anche tu degli articoli per lustrare le scarpe a Mussolini o per esaltare la guerra, mi faresti un po' schifo. A te si domanda soltanto di non essere un porco. (p. 503)
Si è visto che Bevilacqua alterna passato e presente in una sorta di teatro della memoria, di libera escursione nei ricordi accettando, alla fine, l'impossibilità di tornare indietro. Al contrario, Piovene è costretto (dal suo bisogno di verità) ad immergersi nelle sue ossessioni, a calarsi nelle viscere del suo immaginario. Si tratta di due ritorni quasi paralleli, legati alla stessa volontà di capire ma diversi per intensità drammatica. Le Furie si concludono con il ricordo della madre e accennando ad una tranquillità "temporanea" sulla quale è necessario vigilare, perché "il mondo assorbe, consuma, dissolve le mie paure" e resta "l'anima profetica del vasto mondo che sogna le cose future" (p. 606). Proprio per questo Piovene, nelle stelle fredde come nei postumi Romanzo americano e Verità e menzogna, non sceglierà più Vicenza come sfondo delle sue opere. I suoi libri successivi confermeranno la sua intensità di scrittura, conosceranno affermazioni importanti (nel 1970 arriverà il Premio strega) e testimonieranno ancora una volta la sua ricchezza di interessi e la sua acuta sensibilità, ma non torneranno agli intrighi tortuosi, densi di colpe negate ed incertezze morali irrisolte, dei decenni precedenti, proprio in virtù di una nuova consapevolezza umana e letteraria:
Non è merito, ma necessità, non esistendo più la terra neutra e intermedia dove s'allignano le finzioni. […] È tempo di visioni, ma vere, che siano ragione. Chi non è visionario forse non si potrà salvare. I nostri incubi quotidiani appartengono al regno bruciato della verità. […] Su questo terreno impietoso dobbiamo seminare le nostre speranze, oppure non saranno più nemmeno speranze. (p. 281)
Per giungere a questa condizione di verità definitiva Piovene ha dovuto riconsiderare tutto il suo percorso esistenziale, scrivendo, come afferma Giorgio Pullini, un
libro espressionistico, disarticolato, forse informe, ma volutamente riversato sulla pagina nella carica disordinata e assurda dei propri conati inconsci, come una serie di lacerti sofferti e oscuri, tesi verso il caos del nulla.
L'esito di Piovene non è però un nichilismo assoluto, è una nuova lucidità che comporta il distacco dalla materia narrativa precedente, pur senza rinnegare le proprie origini e l'esperienza maturata nel corso degli anni.
Una narrazione continua
come si è visto, il rapporto che lega Piovene a Vicenza è segnato da una continua interrogazione, da una ricerca tormentata di senso che mentre prova a chiarirsi si arricchisce di nuove incertezze. Per Bevilacqua il rapporto con Parma non è diversissimo, lo afferma egli stesso nell'intervista a Luigi scorrano:
Immaginiamo un bambino, imprigionato entro una famiglia di parenti amici-nemici, entro una casa un po' pazza, ora quieta, ora tempestosa di litigi; e questo bambino, per un dono di fantasia, si costruisce una famiglia immaginaria […] frutto del reale (Parma, nel caso), ma anche la sua opposizione. Ecco la mia Parma. Avrei dovuto odiarla per tante cose, ma è stato l'unico luogo in cui una coincidenza di eventi ha influito in maniera determinante sulla mia personalità.
La città si fa sollecitatrice di memorie che diventano, montalianamente, occasioni di nuovi (provvisori) punti d'arrivo esistenziali. Per questo anche dopo la Festa parmigiana Bevilacqua torna più volte allo scenario narrativo che gli è più abituale, soffermandosi spesso anche su memorie familiari. Gialloparma, romanzo del 1997, esprime il suo nuovo rapporto con la città, disincantato e a tratti amaramente divertito. Al centro della storia c'è un delitto il cui colpevole, come in ogni giallo che si rispetti, verrà rivelato solo nelle ultime pagine. Prima di arrivare all'epilogo lo scrittore (che non a caso qui racconta in terza persona, non si affida allo schermo di un io narrante) avrà avuto modo di rivelare il vero volto di una città, la sua anima complessa fatta di ambizioni, benessere sociale e scandali pubblici e privati. Tra i personaggi troviamo industriali pronti ad ogni compromesso al punto da unirsi in una setta segreta, Margot, piena di vitalità e desiderio di vendetta (è nata da una relazione extraconiugale e non si è mai sentita accettata in città), il giudice Bocchi e Giulio Pagani, vittima di un delitto e segnato, in vita, dalle proprie imprese erotiche e dalle difficoltà finanziarie. Margot, che è una delle amanti di Giulio, vuole sposarlo per farlo uscire dalle sue difficoltà economiche, per beffare insieme a lui la vil razza (ancora un'eco verdiana) che forse va riferita agli abitanti di Parma più che ai cortigiani di Rigoletto. L'annuncio delle nozze viene dato in una discoteca, durante la festa di carnevale, in una scena segnata fin dall'inizio dall'ironia dello scrittore:
La "Gazzetta" aveva assegnato a Fabrizio la cronaca della serata. Al Padreterno, locale esclusivo. Soltanto a Parma potevano battezzare Padreterno una discoteca, Dio santo, rimuginava lui, taccuino e biro fra le mani […] Non doveva sfuggirgli nessun nome di spicco […] Un'omissione valeva mesi di rancore. (p. 54)
La festa è piena di ospiti illustri,
tutti con rispettive signore, che puntavano in giro occhi da rana metamorfica, la rana della favola, che nasconde nella sacca l'altezzosa regina. Cosce sfoderate, sederi ampi, intuibili nudità da antiche mogli di possidenti, che facevano il loro comodo fra i contadini in fatica, e le contadine finivano per cacciarle coi forconi e falcetti. (p. 55)
Nel mezzo della festa Giulio, d'accordo con Margot, chiede aiuto ai tanti industriali presenti per uscire dai propri debiti, al punto da sentirsi fare un'allusione - proprio quella che lui e Margot aspettavano - tanto pesante quanto desiderata:
"E poi scopi lei, Giulio, no? E allora sposatela! […] Centrato. Bingo. Fra Giulio e Margot una strizzata d'occhi. Lui stentava a credere. Fin troppo facile farli cascare. Come Margot aveva previsto, al millimetro" (p. 59).
Alla cena per il compleanno del Minotti, uno degli industriali più in vista, Giulio interviene portando in dono "dieci fedi matrimoniali" con un ciondolo a forma di corna "per dieci delle vostre mogli che vi hanno resi cornuti, appunto, venendo a letto con me" (p. 90), e alla fine minaccia di raccontare ai giudici tutto quello che sa:
Le vostre porcherie non sono stato capace di farle, ma le conosco come le mie tasche. Dirò tutto, togliendovi dall'imbarazzo di penose confessioni. Sono altruista, vedete?... E poiché amate la lirica, canterò per voi come Pavarotti. Acuti, romanzi, do di petto! Sarete costretti ad applaudirmi. Perché in questo, da melomani, siete onesti. Quando un cantante vale, non c'è cristo. Vale! (p. 92)
Quando Giulio viene ucciso nel Pioppeto delle rondini gli indiziati sono moltissimi, dal Minotti, che Bocchi scopre essere legato, come il Procuratore capo, ad una setta segreta di stampo massone, a Luisa Corradi, matrigna di Margot che ha sempre odiato la figliastra (che ha avuto in eredità Villa delle Gaggìe) e ha avuto anni prima, pagandolo per questo, una relazione con Giulio. Nel corso delle indagini emergono questi segreti ed emerge anche l'abilità di Bevilacqua nel cambiare registro man mano che gli eventi procedono. Al tono quasi scanzonato, da farsa o da commedia in costume, della prima parte del libro segue infatti una narrazione sempre più attenta a scavare dentro i personaggi. così affiorano ricordi lontani, messi in fila quasi all'interno di monologhi interiori, come quando Margot ricorda i rapporti con i fratellastri, le sue esperienze con la droga, gli industriali di cui adesso vuole prendersi gioco e che allora salivano nella sua camera a violentarla dopo aver cenato insieme a suo padre:
Persino i primi rapporti sessuali di Margot erano stati condizionati da quel gioco, il solo che avessero mai fatto uniti…Si rendevano conto di non aver mai giocato insieme […]Ora si dicevano, coi gesti, senza usare parole: "Stiamo giocando, finalmente, come avremmo dovuto fare da bambini" […] I primi rapporti sessuali di Margot… Quel gioco aveva consentito di sopportarli, di trasferirli come fuori da se stessa… Margot adolescente, inquadrata dalle occhiate sordide degli uomini attempati che, insieme alle mogli, arrivavano a Palazzo Corradi dalle case della buona società, invitati alle cene esclusive, ai ricevimenti…Margot che a sua volta imparava a inquadrare, in quelle occhiate, l'ipocrisia, le simulazioni della concupiscenza, il fondo doppio, triplo, quadruplo, dell'avidità…Uomini che, nei dopocena, era capaci di conversare con suo padre Marco, fingendosi umili e servili […] e poi, all'improvviso, si inventavano un pretesto […] le dicevano con l'ansia nella gola: "Non dire niente a tuo padre […] altrimenti saremo noi a dire che sono invenzioni tue, e tu sei un corpo estraneo qui dentro" […] La imbrattavano. (pp. 176-177)
È evidente lo stacco rispetto ai brani precedenti: non c'è più ironia, ma cronaca di situazioni, di squallori e di innocenze, e ai puntini di sospensione che separano i ricordi frammentati si contrappone il punto fermo della frase finale, tanto asciutta quanto inappellabile. Parma si fa quindi luogo di rancori e di vendette, valutati da un giudice, il Bocchi, che guarda agli avvenimenti cercando di fare ordine anche dentro se stesso. È sempre stato attratto da Margot, che nel corso degli anni "restava, sopra le umane miserie, una luce che lo conciliava con la vita" (p. 71). In Giustina, la madre di Margot, Bocchi rivede qualcosa della sua, delfina, che tutti in città ritenevano pazza. Tra i ricordi emerge la passeggiata in bicicletta che delfina ha voluto fare prima di morire, ma il giudice è affezionato specialmente ad un'opera di Torquato Accetto citatagli dalla madre, Della dissimulazione onesta. Nel trattato si dice che la simulazione serve a non far vedere le cose come sono davvero, e Delfina ha insegnato al figlio che è necessario imparare quest'arte per essere magistrati:
"Ti consegno questo libro affinché tu lo tenga caro e lo consulti spesso. È stato il mio specchio e la mia consolazione quando tutti mi accusavano di essere pazza… Proprio loro, i simulatori! Essi, sì, possono farti impazzire!... Ma, almeno, la follia non è mai simulazione… Di me dovrai ricordare, soprattutto, che ti ho capito. […] Capire significa non già elogiare o perdonare, a seconda dei casi, ma immedesimarsi […] a tal punto da far nostre le sue ragioni, anche quando esse possono abbattere e travolgere gli argini della norma…" (p. 155)
Da questo insieme eterogeneo di razionalità ed ossessione il Bocchi si eleva nelle pagine finali, per rivelare il carattere beffardo dell'intera storia. Nessuno degli indiziati è colpevole, è stato il Bocchi ad uccidere Giulio, perché amava (non troppo segretamente) Margot, perché vedeva in Giulio un debole, ma soprattutto perché, come scrive nella confessione che lascia a Giustina, "l'assassinio è come l'amore […] quando esso nasce e si manifesta […] è per una legge oscura, difficile da spiegare" (p. 236). La storia sembrerebbe finire qui, ma Bevilacqua non rinuncia ad un ultimo colpo di scena: il giudice convoca tutti gli indiziati e, confessando pubblicamente il suo delitto, non viene creduto. Tutti prendono la sua dichiarazione come una recita scherzosa, non lo prendono sul serio, e il Bocchi, invece di essere arrestato, lascia Villa delle Gaggìe libero Com'era prima, per tornare al lavoro di sempre. Il romanzo torna così a ricomporre le sue varie voci dentro un tono di musica monumentale ed insieme beffarda, che esplora i sentimenti più nascosti e conosce scatti di provocazioni improvvise. Come spiega l'autore nel risvolto di copertina, il libro è una "storia d'amore" o "di ironie e rivelazioni stupefacenti", riflessione sul "desiderio (delle emozioni, della felicità, per quanto è possibile)", per "fare un po' di luce e di verità in quel giallo d'anima in cui siamo coinvolti tutti". Parma si conferma così il centro di una narrazione continua, un'indagine dell'anima e delle sue risonanze che trova nella piccola capitale emiliana il punto d'origine della sua polifonia.
BIBLIOGRAFIA
Bevilacqua, La festa parmigiana, Rizzoli, Milano 1980.
Bevilacqua, Gialloparma, Mondadori, Milano 1997.
G. Piovene, Le Furie in Id., Opere narrative vol. II, a cura di C. Martignoni, Mondadori, Milano 1976, pp. 271-606.
G. Amoroso, Alberto Bevilacqua in Letteratura italiana contemporanea, diretta da G. Mariani e M. Petrucciani, Lucarini, Roma 1987, tomo IV, vol. I, pp. 49-66.
G. Pullini, La narrativa di Guido Piovene in Id., Parabole del romanzo italiano (Ottocento e Novecento), Genesi Editrice, Torino 1997, pp. 161-171.
S. Quasimodo, Lamento per il Sud in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1980, pp. 169-170.
L. Scorrano, Alberto Bevilacqua, La Nuova Italia, Firenze 1982.
V. G. Stacchini, Alberto Bevilacqua in La Letteratura Italiana. Storia e testi, Laterza, Roma-Bari 1980, vol. X tomo I, pp. 395-397.