IL CRISTALLO, 2010 LII 1 | [stampa] |
Il ritratto di un mondo come quello greco, ormai obliato nei tortuosi sentieri dei millenni e allontanato dai momenti consoni a una ricerca delle profonde radici della nostra attualità, è impresa letteraria di non poca difficoltà.
Raffaele Mambella, docente di Storia dell'Arte e laureato in Etruscologia ed antichità Italiche all'Università di Padova, perfezionandosi, poi, in Archeologia all'Università di Bologna, sceglie di portare sulla pagina le vicende di una delle più controverse figure della grecità: Alcibiade, ateniese e nipote del grande statista Pericle. Ci mostra un Alcibiade non più negli anni della giovinezza, un uomo che appare sulla scena del romanzo in modo totalmente differente rispetto a quando, in preda all'ebbrezza, lo si vede fare il suo ingresso a casa di Agatone, proprio nel bel mezzo di uno dei più famosi dibattiti filosofici della letteratura, il platonico simposio. Ormai sulle sue spalle grava il peso sia dell'età, sia della coscienza di una carriera politica ricca di travagli. Fin dalle prime pagine è chiaro come il declino dell'Alcibiade-uomo sia coeso in maniera indissolubile a quello della sua città natale, in quegli anni prossima a cedere a Sparta i suoi domini sull'Attica.
È un intenso rapporto di amore-odio quello che regna tra Alcibiade e la sua terra patria, un lungo percorso che si snoda tra contrasti lampanti (due esempi su tutti: il discorso riguardante la deriva populistica della democrazia, fiore all'occhiello della città, e la decisione di portare al collo un poco di terra prelevata dal tumulo di Pericle). Raffaele Mambella rende tali lacerazioni interiori con un linguaggio la cui chiarezza non lascia spazio a zone di oscurità, regalando la visione pressoché completa di una figura vincente, che viene scandagliata nelle sue più celate profondità per mettere a nudo il suo bisogno di trovare le proprie radici.
Cosa possiamo dunque trovare di vicino al nostro modo di vedere nelle pagine di questo romanzo storico dallo stile limpido e vigoroso? Tanto, indubbiamente, giacché sia la natura (che riveste un ruolo preponderante, reso ancor più forte da un registro linguistico in cui è chiaro un copioso utilizzo della metafora e dell'elemento del meraviglioso) sia i due personaggi principali, Alcibiade e Timandra, ci parlano delle nostre incertezze, di quanto possa essere arduo, oggi come allora, rischiare per un ideale di grandezza, e trovarsi soli contro chi è ormai assuefatto al rumore assordante della quotidianità. Timandra. Una etera. Il suo nome significa "colei che onora l'uomo", e subito si palesa all'immaginazione un intero mondo di sensuali voluttà. Ma Timandra è molto più di una donna colta che mercanteggia il suo corpo tra gli uomini più in vista della città. È considerabile come un alter ego di Alcibiade, un'altra anima troppo grande e troppo coraggiosa per i suoi tempi, una figura che trascende anche tutti i luoghi comuni del presente e del futuro.
Sì, si può benissimo dire che questo romanzo, di trecentosettantacinque fitte pagine, dalla prima all'ultima, ci regala l'epopea di un uomo che, nonostante sia vissuto più di due millenni or sono, può essere guardato senza problemi con gli occhi di chi si muove nel mondo di oggi, fatto di straordinarie bellezze, ripide salite e innegabile fatica nel costruire e mantenere qualsiasi equilibrio.