IL CRISTALLO, 2010 LII 1 | [stampa] |
«C'è una donna che non ha piegato il capo ai ridimensionamenti della scepsi e all'ironia dei nostri tempi e sfodera la fierezza integrale della sua esistenza, ammette e confida i suoi disinganni, ma per desumere lezioni e affermazioni positive. C'è, infatti, un'onnicomprensione dietro i versi del suo canzoniere, come c'è un'armonia totale, divina, dove sono emersi i fasti ed i nefasti dell'esistenza testimoniati dalle nostre emozioni». Incipit risoluto, quasi direi "beethoveniano", che si presta a meraviglia a fare da preludio al mio enunciato e che mi viene incontro dalla prefazione al volume Sul filo dell'inquietudine di Maria Grazia Maramotti (Campanotto, 2001). Sono parole fissate da Mario Luzi, persuaso e partecipe prefatore anche del successivo libro della poetessa, Sul filo del bene e del male (Campanotto 2003).
Da tanto fervore poetico, ecco scaturire, nel 2005, sempre per i tipi di Campanotto, Alchimie d'amore, che ha riscosso vivi successi anche oltreoceano. Toccò stavolta a me il privilegio di redigere la prefazione. Nella quale osservai: «Estraneo come più non si potrebbe, il libro che invitiamo ad attraversare, per intima essenza e vocazione, al minimalismo ancora in apparenza espanso (ma, spero, ormai estenuato). Aperto invece, ma senza ombra d'enfasi, al sublime, per decenni bersaglio di gretta ostilità con impoverimento dell'umano, e che invece qui sopravvive persino nella cenere». Infatti, per la poetessa: «Ogni pura emozione / si sveglia…/ fiammeggia, sfavilla / e poi…nella cenere…/ tracce di sublime». Concludevo che «la filigrana di un itinerario di conoscenza fa parte del libro. Il cammino è segnato dolcemente, con un tracciato a volte sfumato, con soste pensose, raccoglimenti, ma a poco a poco ci si accorge che si sta procedendo. E alla fine sapremo che ci sarà un punto d'arrivo e di condensazione inevitabile, impresso con mano ferma». Eccolo: «Tutto all'unità va ricondotto / ravvisando…il filtro sia l'Amore, / in ogni cosa Dio! / in Lui si chiude il cerchio, / in Lui la salvazione».
Premesse necessarie per chi, con ragione, considera gli Arabeschi come momento dinamico di un unico e continuo cammino poetico, esperienziale e spirituale (riguardo a quest'ultimo attributo viene in mente l'affermazione di Flaubert «l'arabesco è il più spirituale dei disegni»). Forse è questo il punto più alto finora raggiunto nel cammino di Maria Grazia Maramotti, che stavolta prende il volo con l'autorevole avallo di due mallevadori d'alto rango: Maria Luisa Spaziani e Walter Mauro.
«Siamo di fronte a una totalità di discorso e di ispirazione», del tutto estranea, come del resto i libri precedenti, al riduzionismo imperversante. (Non siamo lontani dall'«armonia totale, divina» attribuita da Luzi, come s'è visto, a un precedente libro di Maria Grazia Maramotti). «Il telescopio della poetessa punta lontano, lontanissimo, dove certo non ambiscono ad arrivare neppure gli strumenti del Monte Palomar. Perché lei si spinge oltre il tempo e oltre lo spazio [...]». Impresa eroica, titanica «con le povere armi umane della parola, sul terreno già battuto dai massimi teologi, scienziati e poeti». Così Maria Luisa Spaziani. Prosegue, non meno felicemente, Walter Mauro: «L'avventura del divino ha prodotto i suoi effetti e ha spostato l'asse ispirativo verso il fitto fogliame di un percorso irto di rischi e di pericoli, dai quali il poeta si libera in virtù di una lingua poetica che va a rintracciare nel nuovo e nel singolare lo sforzo di rinunciare all'ovvio».
Quali strumenti e segnali fanno «di questa silloge un esempio molto alto di coscienza della condizione umana» (per far nostra la conclusione di Mauro)?
«Totalità di discorso e di ispirazione», dunque. Per sintonia con l'animoso impegno tematico e conoscitivo che lo genera, il libro può apparire un microcosmo: piccola icona del cosmo, con i densi nuclei poetici simili a galassie, meteore, astri solitari sparsi tra gli spazi bianchi del silenzio («parole che sacrano silenzi»). È un libro che andrebbe recepito anche nella sua concretezza di libro-oggetto, ossia nelle strutture e nei ritmi, nelle sequenze e scansioni dell'impaginazione, nella rilevanza semantica dei titoli, nei rapporti tra testi e traduzioni in inglese e spagnolo.
Fulcro unificante, un auspicato "senso", concorde come il «coro del magico universo», nella protesa aspettativa di qualche varco nel fitto del mistero e di qualche luminosa epifania, «lampo che promana dal divino».
In una notte insonne e (leggiadro ammicco leopardiano) «senza vento», ecco il cielo come «un giubilar di stelle / tra cui su tutte / una cometa splende!». La cometa ci guida alla mangiatoia di Nazareth, dove incontriamo il Verbo «trasumanato in carne / nel fagotto di un bambino / con umiltà e con amore», il nascente - e già destinato a infinita sofferenza - «Dio di tutti i tempi e tutti i luoghi», che ci darà luce nell'oltrepassare la soglia angosciosa del morire: «morire però... / per ritrovasi figli / nuovamente uniti / al Padre, / in un abbraccio eterno / che il morire per sempre... disconosce!».
Questo Cristo inserito quasi sottovoce in un'emozionata apertura cosmica, non può non richiamarmi alla mente il "Cristo cosmico" di Pierre Teilhard de Chardin, pensatore-teologo che sento vicino all'ispirazione dominante di questo libro (come vicino fu a momenti essenziali dell'opera poetica di Mario Luzi). Vicino anche per la partecipazione intensa al divenire dell'Universo, altro motivo fondamentale e strutturante di questo libro. Penso a certe celebri affermazioni di Teilhard: «noi non siamo esseri umani che stanno vivendo un'esperienza spirituale. Siamo esseri spirituali che stanno avendo un'esperienza umana», oppure «il sistema, Dio è qualcosa che evolve»; oppure, in sintonia con Julien Huxley, «l'uomo scopre di non essere altra cosa se non l'evoluzione divenuta cosciente di se stessa», o ancora, per finire, «credo che l'Universo è un'Evoluzione. Credo che l'Evoluzione va verso lo Spirito. Credo che lo Spirito si compie in qualcosa di Personale». Walter Mauro parla di «avventura del divino», e anche questa compendiosa definizione potrebbe evocare una sorta di risonanza teilhardiana, non dovuta a influssi di letture, ma a un'intima congenialità.
Credo che la "condizione cosmica" dell'uomo vivificato dall'anima, figlio e fratello dell'universo in evoluzione («antico il suo pulsare / come quello / delle stelle»), esso stesso araldo e crogiolo di evoluzione, sia uno dei temi più suggestivi e attuali per la poesia, oltre che per la teologia, per una teologia aperta e non letteralistica che siamo in molti ad auspicare. La nostra letteratura registra momenti significativi di poesia cosmica post-copernicana, da Tommaseo alla più vertiginosa strofa della Ginestra leopardiana («Sovente, in queste rive...»), a tutto un gruppo di poemetti pascoliani forse non apprezzati abbastanza, a certi originali e intensi momenti astrali dall'amico Giuseppe Bonaviri recentemente scomparso (penso a libri come L'incominciamento o Il dire celeste). Il sentimento cosmico di Maria Grazia Maramotti è animato da una componente mistica, non necessariamente confessionale, che consente partecipi sintonie.
Convenzionale, banale come più non si potrebbe - forse mi si dirà - definire 'ispirato' un libro di poesia. Ma quando definisco 'ispirato' questo libro in più sensi straordinario, intendo ridare a questo termine spessore e pienezza. Intendo dire che lo sento in contatto profondo con le scaturigini del divino mistero della vita, sintonico, nella sua assidua e affascinata ricerca spirituale ed espressiva, all'essenza creatrice dell'universo in divenire irraggiato dall'Amore.