IL CRISTALLO, 2010 LII 1 | [stampa] |
Ci sono, eccome se ci sono, gli scrittori assoluti. Quelli che sono l'opera, che costruiscono un'epopea inconfondibile, creata dalla prima parola all'ultima frase, all'ultima esclamazione. Giuseppe O. Longo è senza dubbio uno scrittore assoluto. Da quando lo seguiamo, cioè da sempre, continua a produrre in noi la medesima sensazione: stupore. Rimaniamo allibiti al pensiero di come la scrittura possa essere tanto potente eppure sobria, malinconica ed eccitata, nervosa e sinuosa assieme.
Anche in questo "Squilli di fanfara lontana" siamo ben lontani dall'essere delusi, anzi. Ritroviamo ciò che già conoscevamo, eppure siamo di fronte a qualcosa che pur conoscendolo benissimo ci sembra sempre nuovo, sempre rinnovato, sempre eccitante. Longo sotto questo titolo esegue una sonata impareggiabile, un inconfondibile unicum composto da ventidue microromanzi, ventidue microenormità che scavano, con il consueto dolore per il mondo, nell'animo umano e nei suoi ombrosi meandri. Le piccole storie, fatte di quasi nulla, nascono tutte dal suo esangue, melancolico narratore, che in giro per il mondo (e per la memoria) cerca di rintracciare in quel che gli accade le particelle di senso necessarie per tirare avanti. E quindi sono le persone - gli amici, i professori, e le immancabili donne suscitatrici di erotismo (principalmente nelle mente del narratore, ma non solo) - gli attori di questo teatro del minuscolo che assurge al tragico, il teatro della fuga immobile, il teatro dello scioglimento del dramma in alcunché di drammatico.
Nella letteratura di Giuseppe O. Longo ci si cala, e ci si ritrova in quello spirito cupo e costantemente poco illuminato che caratterizza la maggior parte della letteratura mitteleuropea, quella Mittel-Europa in cui lui vive, Trieste cioè, richiamata in tante pagine di suoi libri precedenti. Ma questa volta è lo spirito di quella letteratura a trascinarsi per le vie del globo, finendo però per rendere ogni luogo che si incontra abbastanza insignificante, un fondale, al davanti del quale il gran teatro del mondo lo fa la mente. Come, in sostanza, faceva Svevo.
Infine, quella che sembra in definitiva La Domanda: ma perché i libri di Giuseppe O. Longo sono così fascinosi? In particolare, credo che questa domanda sia valida per gli ultracinquantenni: la categoria cioè di coloro che, pur ritenuti in odor di saggezza, non esitano a riflettere sull'esistenza, e in primis sull'esistenza del dubbio. Il personaggio per quanto sfaccettato di Giuseppe O. Longo è infatti colui che dubita, colui per il quale il senso, se c'è, è vago, non afferrabile del tutto, e soprattutto non richiudibile nelle formule più usuali, Dio, famiglia, religione, religione del lavoro, eccetera. E non afferrando del tutto il senso preciso del proprio fare, ecco che il tono dolente viene a galla, e rende profonde, insinuanti, corpose le pagine, mai banali e sempre provocatorie: caro lettore, è inutile che ti affanni - il senso, nella mia esistenza, è ben lungi dall'essere riconoscibile - e nella tua?
Gustiamoci questa costante provocazione e il suo fascino, che assieme alla bellezza fanno del leggere quella impareggiabile attività che è. In questo caso, grazie a Giuseppe O. Longo.