IL CRISTALLO, 2010 LII 1 | [stampa] |
Da molto tempo si sentiva il bisogno di poter consultare, riunita in un unico volume, l'intera produzione poetica di Aldo Palazzeschi (al secolo Aldo Giurlani: Firenze, 2 febbraio 1885 - Roma, 17 agosto 1974), una delle personalità di spicco e certamente tra le più originali del nostro Novecento, la cui opera ha avuto una funzione di primo piano nello svecchiamento delle nostre Lettere. A questa esigenza è venuto incontro un tomo de I Meridiani della Mondadori, a cura di Adele Dei, che ci consente una lettura di tutte le poesie di questo autore, conosciuto dai più per pochi testi, divenuti meritamente famosi. Ma apriamo il libro, che è corredato da una cronologia e da un ampio apparato di note critiche.
Subito vi compaiono le poesie della prima raccolta di Palazzeschi, I cavalli bianchi (1905), la quale per gli argomenti trattati evoca le atmosfere sfumate e un po' irreali di certi autori intimisti di fine Ottocento, come Maeterlinck o Rodenbach, che saranno poi proprie dei Crepuscolari. Compaiono qui infatti "L'oscuro viale dai mille cipressi" (Il cancello); "... il pozzo profondo / ch'à in fondo, dice la gente il tesoro" (La voce dell'oro); "la folle / padrona del grande castello / ch'è in riva del lago. / Avvolta in un manto di lutto" (La lancia); le tre vecchie che nell'ombra giocano a dadi (Ara, Mara, Amara); "le tuniche bianche / di coppie danzanti" (Diaframma di evanescenza); il Santuario posto sulla vetta di un monte, con intorno "sette cipressi alti"; Mara che per un istante interrompe il lavoro, per guardare i treni che passano veloci dinnanzi alla sua casa (La casa di Mara); ecc.
Sono queste le immagini di un mondo che pare incantato e senza tempo: un mondo attentamente descritto dal poeta, il quale lo contempla dal di fuori e ne parla, annotando dei particolari anche minimi, che però a ben guardare rivelano un senso riposto nell'atmosfera magica da cui emergono. Il linguaggio è marcatamente evocativo ed il verso adoperato è libero, ma ben ritmato.
Lanterna (1907) continua il discorso iniziato con I cavalli bianchi, ma con un più ampio respiro e con un accenno di dialogo sin dalla prima poesia, Torre Burla. S'incontrano in questo libro alcuni dei testi più noto di Palazzeschi, quali Il passo delle Nazarene: "Nazarene bianche, Nazarene nere. / Del fiume alle rive / si guardan da tanto i conventi... "; A Palazzo Oro Ror: "Nel mezzo a la notte, ogni notte, / la veglia incomincia a Palazzo Oro Ror"; Comare Coletta: "- Saltella e balletta comare Coletta! / Saltella e balletta! -"; Palazzo Mirena: "Palazzo Mirena è distrutto, / distrutto dal fuoco"; ecc. Come può constatarsi, il tono è fiabesco e l'ambiente descritto è ravvolto da un'aura misteriosa e irreale.
I Poemi (1909) segnano l'avvio di una nuova stagione della poesia di Palazzeschi, più mossa e spigliata, che si apre quasi con una dichiarazione programmatica, affiorante dalla poesia Chi sono?, la quale termina: "Son dunque... che cosa? / Io metto una lente / dinanzi al mio core, / per farlo vedere alla gente. / Chi sono? / Il saltimbanco dell'anima mia".
Ora il saltimbanco è colui che diverte e che si diverte; ed è ciò che Palazzeschi fa, ricollegandosi alla tradizione della poesia giocosa, piuttosto che a quella della poesia seria e compassata della nostra più comune tradizione, sovvertendone le regole.
L'estro e il gioco sono pertanto alla base di questo suo nuovo modo di far poesia, che si distingue sia da quello dei Crepuscolari, i quali, tranne Gozzano, non sapevano molto sorridere, sia da quello dei Futuristi, cui dapprima si avvicinò, perché ciò che più lo interessava non era "l'esaltazione della macchina e l'attivismo vitalistico", quanto il tentare vie nuove, sostituendo al tono elegiaco e ai languori di tanta letteratura decadente "la monellesca impertinenza" (Salvatore Guglielmino).
Questa poetica del gioco e dell'ironia si fece avanti lentamente in Palazzeschi, manifestandosi dapprima in maniera lieve e delicata, come in Rio Bo: "Tre casettine / dai tetti aguzzi, / un verde praticello, / un esiguo ruscello: Rio Bo, / un vigile cipresso. / Microscopico paese, è vero, / paese da nulla, ma però, / c'è sempre di sopra una stella, / una grande magnifica stella, / che a un dipresso, / occhieggia colla punta del cipresso / di Rio Bo. / Una stella innamorata! Chi sa / se nemmeno ce l'à / una grande città".
Nelle varie sezioni e sottosezioni dell'ampia raccolta intitolata Poemi, che non è ignara della poesia di Govoni e del suo immaginismo, il gioco di Palazzeschi diviene però sempre più palese e vario, dando luogo ad una scrittura che fluisce in maniera originale e disinvolta, ognora con stupefacente facilità: "Dal tetto cadon giù, / un dopo l'altra l'ore: / le lascia giù cadere / l'orologio a martello, / in colpi secchi, uguali, / tutte sul mio cervello" (Ore sole); "Habel Nassab, sei bello tu, / con quegli enormi calzoncini blù! " (Habel Nassab); "Salisci mia Diana, salisci, / salisci cotesto scalino, / salisci, non vedi è bassino, / bassino bassino, salisci" (Diana); "Clof, clop, cloch, / cloffete / cloppete, / clocchete, / chchch... / È giù nel / cortile / la povera / fontana / malata, / che spasimo / sentirla / tossire!... " (La fontana malata).
Più o meno celebri, tutte queste poesie (nelle quali s'incontrano sovente versi di sorprendente, quasi caproniana modernità, quali: "t'amo / con tutto l'odio mio! " - Lo specchio) sono l'espressione di uno spirito arguto e non conformista, che non vuole soltanto scandalizzare, ma anche creare una sua propria cifra di scrittura, tra l'irridente e il fiabesco, ed aprire così nuovi orizzonti letterari. (In particolare è stato rilevato da Edoardo Sanguineti che Palazzeschi ha avuto nella nostra Letteratura una "funzione demistificatrice" ed un valore liberatorio, rivelando ed accelerando la crisi della cultura del suo tempo). Si vedano inoltre, per la loro suggestiva carica fantastica, poesie quali La matrigna e Lord Mailor, che sembrano nascere da un'ispirazione più spiccatamente narrativa. Interessante è pure notare in questo libro (che si chiude con il fuoco di Frate Rosso, cui farà seguito il fuoco ben più impetuoso e temibile de L'Incendiario), la frequenza del dialogo e la presenza della rima.
L'Incendiario (1910) segna una tappa importante nella produzione di Palazzeschi. Il libro apparve a Milano, nelle "Edizioni Futuriste di «Poesia»", ed è certamente quello più vicino al movimento di Filippo Tommaso Marinetti, cui è dedicata la poesia eponima. Palazzeschi infatti in tale poesia (che pare trarre lo spunto da un famoso sonetto di Cecco Angiolieri), rivolgendosi all'Incendiario messo alla berlina, dice: "Sono un poeta che ti rende omaggio, / da povero incendiario mancato, / incendiario da poesia"; e così termina: "Va', passa fratello, corri, a riscaldare / la gelida carcassa / di questo vecchio mondo! ": il che assume indubbiamente in poesia un significato eversivo. Occorre però tener presente che, come si è sopra osservato, Palazzeschi mantenne nei confronti del Futurismo sempre una propria autonomia, frutto della sua marcata personalità, che gli consentì di superare, pur nella volontà di contrapporsi alla tradizione, il semplice sberleffo e l'insolente violenza verbale, tesa a sovvertire l'ordine costituito, arricchendosi invece la sua parola di quell'intima pensosità e di quell'indubbia sostanza umana che corre all'interno di molti dei suoi testi, i quali mantengono comunque una loro dignità formale, nonostante costituiscano un forte attacco alla vecchia poesia. Basti leggere, per rendersene conto, componimenti quali Il principe e la principessa Zuff, La morte di Cobò, La città del sole mio, E lasciatemi divertire!, Il mio castello e il mio cervello, Il ballo, ecc. Più sulfuree, per gli intenti satirici, altre poesie, quali Le beghine, La mano, L'orologio, La visita di Mr Chaff. Ovunque è però la novità e la scioltezza veloce del verso, retto anche da un corrispondersi di rime che a tratti lo illuminano.
Leggiamo l'incipit di E lasciatemi divertire, che è forse la più nota di queste poesie: "Tri tri tri, / fru fru fru, / uhi uhi uhi / ihu ihu ihu, // Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente! / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto".
Parecchi critici hanno messo inoltre giustamente in luce le notevoli relazioni tra poesia e narrativa in Palazzeschi, il quale al tempo in cui andava componendo L'incendiario scriveva anche un romanzo, Il codice di Perelà, che apparve nel 1911 a Milano, sempre presso le "Edizioni Futuriste di «Poesia»" e che per molti versi presenta dei caratteri analoghi ai contemporanei testi poetici di questo autore.
Le poesie di Palazzeschi successive a L'Incendiario compaiono nel libro in esame sotto il titolo Poesie 1910-1915. Tra esse sono da ricordare per il loro scanzonato mordente Una casina di cristallo e L'assolto; per l'umana simpatia che vi scaturisce Monastero di Maria Riparatrice e Pizzicheria; per l'essenzialità, che pare dischiudere nuove vie al nostro poeta, Luna piena, Le due rose, Sole.
Tra queste poesie vogliamo specialmente citare Una casina di cristallo, dall'intuizione quanto mai originale: "Io sogno una casina di cristallo / proprio nel mezzo della città, / nel folto dell'abitato. / Una casina semplice, modesta, / piccolina piccolina, / tre stanzette e la cucina". La morale che ne scaturisce è questa: "Quando gli uomini vivranno / tutti in case di cristallo, / faranno meno porcherie, / o almeno si vedranno".
Delicata, per il sentimento che vi affiora, è poi Pizzicheria, nella quale un pizzicagnolo, tutto preso dal suo assillante lavoro quotidiano, trova conforto dalle visite che puntualmente il figlio gli fa nel suo negozio: "«Addio papà» / sussurra nell'entrare / un giovinotto elegante; / non viene per comprare, / saluta assai fugace / guardando assai dall'alto / la clientela che attende / e che lo ammira. / E il buon pizzicarolo / con un raggio di sole sotto i baffi / guarda di scorcio il suo figliolo. / Per lui solo / gli diventan tanti fiori / le cose nelle mani, / i grotteschi salami / gli untuosi prosciutti, / ma senza quel figliolo / come sarebbero brutti! ". (Poesia che forse contiene un sottofondo autobiografico, dal momento che il padre di Palazzeschi fu proprietario di un negozio di guanti e cravatte a Firenze).
Nella seconda parte del volume dei Meridiani è contenuta la scelta delle poesie rivedute e corrette dall'autore per il periodo che va dal 1905 al 1915. Molto interessanti sono qui i raffronti che si possono fare tra le diverse edizioni delle medesime poesie; raffronti che dimostrano con quanta cura Palazzeschi tornasse sui suoi testi al momento di ripubblicarli.
Seguì poi un lungo silenzio per ciò che concerne la poesia: sono questi infatti gli anni in cui Palazzeschi si dedicò essenzialmente alla narrativa, pubblicando Le Sorelle Materassi (1934), Il palio dei buffi (1937), I fratelli Cuccoli (1948), Roma (1953), Tutte le novelle (1957). Tale silenzio fu interrotto nel 1968 da una nuova raccolta di versi intitolata Cuor mio.
Occorre subito dire che in questo libro Palazzeschi guarda al mondo con un'ironia più conciliante e con maggiore cordialità. È quanto scaturisce dalla lettura di poesie quali Ponte Garibaldi, dove il poeta è rapito dalla scena di "tre giovanissime popolane" che "cantano a squarciagola / attraversando il ponte / per ritornare a casa"; o I marinai, in cui questi uomini, rotti a tutte le tempeste, vengono considerati con particolare simpatia: "... vi culla il mare / e il cielo vi sorride / fra mare e cielo / vi accarezza il vento". Uguale freschezza di voce la si ritrova in Il grillo del Ponte Vecchio, Bellagio, Ravenna, Compleanno, ecc.
Ci sono poi, anche in questo libro, le poesie di puro divertimento, quali Visita di protocollo e La ragazza di San Giovanni, che riecheggiano l'esperienza futurista. E vi sono le più lunghe poesie, dei veri e propri poemetti, come Dove sono?, in cui il poeta, dopo aver fatto varie ipotesi, conclude di trovarsi nel teatro del mondo, nel quale sarà anch'egli chiamato a recitare un giorno: "Sento già il buttafuori / con la sua voce di comando: / «Aldo in scena / tocca a lei». / Eccomi! / risponderò sollecito / e sempre sorridendo. / Col gesto del grande attore / divellerò / le tenui mie radici / come dalla terra un fiore". Si veda anche Per le vie di Calem, in cui Palazzeschi immagina di avere una città (Calem, appunto) dentro la propria testa, con tutto ciò che una vera città "né grande né piccola" può contenere. La poesia si conclude con l'affermazione che ciascuno di noi dovrà pur avere nella propria testa qualcosa di simile: "Un libro con la mano che lo sfoglia / il lento ma sicuro / germogliare d'una foglia... / qualcosa ci dovete avere / non mi venite a dire / che non ci avete nulla / per carità / o mi vedrete morire".
Come può facilmente rilevarsi, con queste poesie Palazzeschi è andato ben al di là del puro divertimento o della pura volontà di corrosione eversiva, per cogliere una moralità o un pensiero più profondo sul nostro vivere. Lo stesso può dirsi per L'angelo ribelle.
S'incontrano inoltre talora in queste poesie di Cuor mio degli squarci lirici che stanno a dimostrazione della complessità della vena di questo poeta, che reca in sé sempre dei contenuti schiettamente umani, come emerge dall'assorta contemplazione di una città dell'anima in Monte Ceneri: "Nella conca leggiadra / la città fuma. / Torri e cupole / emergono / nei vapori densi / d'un tramonto di rosa. / Tremule spuntano / le prime gemme della sera / nella lontananza / e un giro di montagne / già viola / vi formano intorno / il rito della bellezza: / Firenze".
Via delle cento stelle, l'ultimo libro di versi di Palazzeschi è del 1972. In esso la sua poesia tende a farsi sempre più essenziale ed epigrammatica, nonché attraversata da fini intuizioni psicologiche, espresse sovente con un bonario sorriso. Il che non esclude però la convinzione dell'intima serietà e dell'impegno costante del suo operare: "... io non ho scherzato mai / pur dicendo di scherzare" dichiara il poeta in Un sogno; e nella poesia intitolata Realtà o fantasia confessa: "Io le ho amate tutte e due / per amore della vita", scavando in tal modo a fondo nelle radici della sua ispirazione.
A guardar bene in questo libro ci si avvede come la dissacrazione e la risata un po' beffarda del Palazzeschi più noto abbiano qui ceduto il posto ad una più blanda ironia, che meno morde e che più è disposta a perdonare le debolezze umane, dopo però averle poste in luce. "Un giardino di fiori superbi / sormontati ciascheduno da una croce / e che vi prospera / da venti secoli in superficie; / solamente se taluno / li voglia sradicare / vi affondano la radice / giacché il romano autentico, / da buon cristiano, / dice: «sì!» al Cristianesimo / senza esitare / per vivere paganamente" (Roma). E ancora: "Viviamo in un paese / dove tutti / vogliamo essere il primo / tanto che a qualcheduno / di palato più fino / vien fatto di pensare / se non sia meglio / essere il secondo / in un paese di questo gusto. / Invece no / giacché il secondo / con ogni suo potere / ed ogni mezzo / lavora contro il primo di nascosto, / lavora come un tarlo, / per minargli le basi / vederlo cadere / e prendere il suo posto" (Gerarchia).
Ci sono poi in Via delle cento stelle anche le poesie permeate da un'autentica commozione, come quelle dedicate a Sergio Corazzini e A Marino Moretti. Si leggano anche Fiesole e Settignano.
Appare evidente in queste pagine che Palazzeschi ormai si prepara al Gran Viaggio e può quindi considerare le cose del mondo con un certo distacco. Il libro si chiude con un Congedo che, oltre che un addio alla vita, è anche un addio a tutto coloro che lo hanno seguito con simpatia nel suo lungo lavoro: "E ora vi dico addio / perché la mia carriera / è finita: / evviva! / Muoiono i poeti / ma non muore la poesia / perché la poesia / è infinita / come la vita".
Poche volte è stato concesso ad un poeta di chiudere la sua carriera in un modo così semplice eppure così convincente: "con garbo e contenutezza, abbassando la voce", come dice Adele Dei a chiusura del suo saggio Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta. Ciò che resta, a lettura terminata di questo libro, è l'immagine di un poeta vero, che qui ci viene restituita nella sua interezza e verità. Ed è certo di quelli che lasciano un segno.