IL CRISTALLO, 2009 LI 2-3 | [stampa] |
Tutti conosciamo - almeno coloro che si sono formati sulle basi della tradizione culturale protoellenica o paleocristiana - l'evento biblico secondo il quale Jahvé, il Dio ebraico, rivelò a Mosè la predestinazione, per il suo popolo, di una terra promessa. L'episodio ci ricorda, ed è prova, della costante aspirazione dell'uomo, sempre tesa alla ricerca di una patria, di un luogo idilliaco in cui serenamente trascorrere i giorni del suo transito terreno; in poche parole, del suo Eden originario.
Bene, Jean Flaminien, con l'ultima sua fatica poetica, riprende in un certo qual modo il concetto spingendo, però, la propria "indagine" ben oltre i confini - angusti, per quanto vasto lo spazio possa sembrare - di una fisicità prettamente territoriale. Intendiamo dire che la sua esplorazione non si accontenta di ripercorrere le tappe segnate dalla storia, né, tanto meno, si ferma di fronte alle frontiere inevitabilmente predisposte dalla storia stessa. Il suo è un cammino a ritroso, un risalire - per restare in tema - il fiume fino alla sorgente, sicuro di ritrovarsi ancora lì, con la sua infanzia e quella del mondo: "'Ce pont de fer d'amont / d'où je plongeais muet / pour emerger en cri / par-delà la figure.' / Et meme inversement: / 'd'où je plongeais en cri / pour emerger muet...' / On ne se lassait pas / d'imiter l'origine.".
Il tuffo dal ponte, il volo aperto all'incontro con l'elemento liquido, l'immergersi in esso, sono gesti imitativi che tendono a riprodurre la nascita, un'emersione - silenziosa o gridata - del principio. È l'acqua, dunque, il tramite, l'anello della catena che ci lega all'eterno; l'acqua-madre che ci nutre di sé, "tempo riflesso in un'altra venuta", l'acqua che, prima ancora della terra, diviene intesa, patto d'immortale alleanza, "fiotto commisto di vita e d'essenza / che sgorga indomito dal vuoto / per attrarci / penetrarci / e mantenerci vivi.".
Da qui, "L'eau promise": il dono che non abbandona il fanciullo, "la corrente in marcia" che ci cerca mentre "ci percorre", la speranza di una mamma che sostiene e protegge l'offerta di un corpo gracile, deperito, "à l'occident du ciel", versando "un po' d'acqua" sulla sua mano e dicendo: "C'est par elle / que la terre / s'est rapprochée de nous".
Ecco, è in questo (ri)avvicinarsi della terra che ci sembra di scorgere quel superamento di cui si parlava, quello sconfinare del poeta negli abissi dei primordi per il ricongiungimento di se stesso e della propria "gente nomade" all'"acqua-una" secondo quanto venne a noi promesso: "Pas de limites au don, à la joie, / à l'èspoir, au vivant, / par l'emanation de l'eau-une." - canta Flaminien, nella consapevolezza di un lavacro che rappresenti un nostro nuovo battesimo -.
L'acqua, allora, - unica ed insostituibile - ci bagnerà facendoci rinascere, facendo affiorare terre che credevamo definitivamente scomparse. E, tutto, nel verso di una ripetizione, di un franare del presente nel passato e di una ricostruzione che riproduce ciò che ancora deve avvenire: "le jour meme de ma naissance / dans la nuit / ma mère va et vien longuement / sur la berge entre les digues, / mimant mon itinéraire à venir / dans la memoire ancienne.". È un tempo d'avvento che coincide con una perdita ("Devant le gué, à son retour, / elle perd ses premières eaux", prosegue la lirica), un "tempo riflesso in un'altra venuta" che rimanda alla seconda sezione del libro, "Mattatoio del tempo", in cui il sangue "tinge l'acqua del momento", inchiostro rosso per il dito del fanciullo che, con il suo disegno, permette l'incanto: così, da "un lembo di tenebra /... . / altro tempo... si ridesta".
Questo risveglio - che, poi, allude ad una liberazione - corrisponde, sul piano linguistico, al rinvenimento della "parola perduta". Nella terza e conclusiva parte della silloge, la stessa torna ad essere chiaramente udibile nel dire del fiume tra le nuvole: "Solamente si può / mantenersi al centro del caos /... . / attingendo nei crepacci / inesplorati della specie, / dentro la cripta implosa, / infime trasgressioni... "; le disubbidienze di cui parla il fiume, e la nostra primitiva coscienza, vanno interpretate - a nostro modo di vedere - come i sogni della "sognatrice dal freddo volto", i bisbigli dell'"imprevista sussurratrice", che, "evitando ogni intralcio", profonde "energie segrete" per la riedificazione della mente nell'oblìo di sé e nell'essere, di noi stessi, "ignari del sogno".
In queste ultime pagine, dunque, la parola si carica e si alleggerisce di tutto questo, si fa nuova e antica contemporaneamente, si smarrisce e si ritrova seguendo ora il ristagno ora il fluire della corrente. Ma non solo qui ci si insinua nelle fenditure per attingere dalle vene sotterranee l'acqua pura che spegne la sete dell'Essere, ciò avviene anche in altri passi, come quello - ad esempio - che racconta della duplice cattura dello stesso pesce, un fatto apparentemente trascurabile, seppure insolito, che offre però al Nostro lo spunto per una riflessione di carattere universale; leggiamone la chiusa: "J'étais dans mon élément / à l'attendre une seconde fois / ou est-ce que je m'attendais moi meme / en le tirant hors de soi?".
La domanda resta inevasa, naturalmente, ma apre uno spiraglio da cui è possibile intravedere un mondo nel quale la nostra presenza assomiglia ad un'immagine sfocata che si perde oltre i confini della nostra stessa memoria. E tuttavia, abbiamo la netta sensazione di riconoscerci, di esistere in una forma che potrebbe essere quella che assumeremo in una vita futura o che già abbiamo assunto in quella precedente. Conscio della legge del divenire (non a caso la poesia è dedicata ad Eraclito fanciullo), il pescatore-poeta sa bene - pur chiedendoselo - che, uscendo dall'acqua, il pesce esce dalla propria natura ma non dal cosmo, dal proprio aspetto ma non dalla sostanza, nella continua trasformazione del tutto nel nulla e viceversa.
Nulla di più dell'alto valore simbolico, assegnato dal Guascone all'acqua, in questa tappa fondamentale della sua ricerca poetica, può contribuire tanto intensamente al consolidamento di quella che - a nostro avviso - ha tutti i crismi e le ragioni di essere un'ipotesi escatologica.
Il libro si apre e si chiude nel convincimento del dono: persino "l'impassible eau noir" della palude stigia (felicissima la scelta della copertina), che il vecchio dagli "occhi di bragia" sonda ed attraversa con i suoi carichi di dannati, è "eau promise", perché soltanto restando "fedele all'assoluto" si può conoscere "la sete dimessa" e divenire, infine, "quel che (si) contempl(a)".