IL CRISTALLO, 2009 LI 2-3 | [stampa] |
Il tempo ed il ricordo
La scrittura in prima persona è una scelta abituale per Margaret Mazzantini. La narrazione si ricollega da un lato al ricordo di episodi lontani, dall'altro agli stati d'animo di chi, mentre racconta, si ferma a riflettere sulla propria storia. Il desiderio di ricordare implica infatti il bisogno di recuperare un'identità: non si tratta di una nostalgia idealizzante, ma dell'analisi lucida e razionale di una realtà densa di contraddizioni. Nei personaggi della Mazzantini c'è uno smarrimento esistenziale, un disagio che li porta a rimettere in discussione le proprie scelte: basti pensare al chirurgo di Non ti muovere, che inizia a raccontare spinto dall'urgenza di un dolore lacerante. Spesso le storie diventano veri e propri ritratti generazionali: c'è un senso quasi proustiano del tempo in questa ricerca narrativa, un percorso a ritroso che coincide con una vera e propria immersione tra i luoghi e gli oggetti che appartengono al passato. Il ricordo lontano fa ritrovare un'identità nel presente: nel primo romanzo, Il catino di zinco (1994), solo alla fine del libro, dopo pagine e pagine che hanno indagato sulla sua storia, la nonna della voce narrante viene chiamata per nome.1 Paradossalmente il recupero di un nome, la percezione di una presenza si verifica proprio quando si constata la scomparsa definitiva del corpo:
Più tardi, uscendo dalla cappella, non l'ho baciata. Se penso all'interno di quel loculo, vedo un paio di vecchie scarpe, qualche rimasuglio di stoffa, una forcina di capelli, la vera del Duce. Per il resto, non credo che Antenora sia lì (CZ, p. 141).
Ci si distacca da se stessi, ci si immerge in un flusso apparentemente indistinto di situazioni, per approdare a una consapevolezza nuova, ad un "tempo ritrovato" che restituisce, intatto, un intero universo emotivo e sensoriale. La Mazzantini descrive però anche lo scorrere inesorabile del tempo, la sua transitorietà. In Non ti muovere Timoteo, parlando alla figlia in coma, si interroga sul nostro bisogno di reinventare continuamente i gesti, gli stati d'animo, il senso stesso del nostro essere al mondo:
I giorni passavano uno in fila all'altro con il loro fastello di cose sempre simili, appena impercettibilmente diverse, come il mio viso. Il tempo lavora così, Angela. Un invisibile ma implacabile movimento ci usura. La trama dei tessuti si allenta e si riassesta sul telaio delle ossa, e un giorno, senza che nessuno ti abbia avvisato, indossi la faccia di tuo padre (M, p. 216).
L'uomo è spinto a questa riflessione dal desiderio di rivelare alla figlia, mentre attende di conoscerne la sorte, i propri segreti:
Perché ti racconto tutto questo? Non ho una risposta da darti. Una delle mie risposte precise, brevi, "chirurgiche", come le chiami tu. È l'emorragia della vita che bussa alle tempie. Come l'ematoma nella tua scatola cranica. Adesso lo so, Angela, sei tu che stai operando me (M, p. 192).
Pagina dopo pagina prende vita non solo una fitta trama di rapporti affettivi, ma anche un intero mondo i cui luoghi vengono colti nella loro essenzialità, nella loro evidenza fisica. Si pensi al palazzo in cui vive Italia:
Camminavamo tra i piloni di cemento di quello che sembrava un immenso garage abbandonato, e finalmente il sole ci lasciava in pace. Poi ci infilammo in un androne buio infestato di scritte spray, dove stagnava un puzzo da vespasiano insieme a un vento di frittura che arrivava chissà da dove. […] La seguii lungo le rampe di una scala attraversata da grida improvvise, lampi di vite infernali e di televisori accesi. Sui gradini luridi erano sparse siringhe usate che lei oltrepassava con i piedi nudi nei sandali senza farci caso. Volevo tornare indietro, Angela, mi voltavo a ogni rumore, temendo di veder saltare fuori qualcuno, pronto a rapinarmi, a uccidermi forse, un complice di quella donna volgare che avanzava davanti a me. A tratti il suo odore mi raggiungeva, come il tonfo della sua borsa che sbatteva sui gradini impolverandosi, un miscuglio caldo di cosmetici che si scioglievano e sudore (M, p. 27).
Il tempo è il tramite tra il bisogno dell'io di interrogarsi e le sollecitazioni che lo stesso riceve dagli oggetti che lo circondano: è passando davanti alla casa della nonna che la voce narrante del Catino di zinco inizia a ricordare, un po' come avviene con la madeleine proustiana.2 Le donne di Margaret Mazzantini interrogano se stesse per riscoprire momenti diversi della loro storia, o vengono studiate – come la nonna del primo romanzo o Italia ed Elsa nella lunga confessione di Timoteo – per conoscere il loro modo di far fronte al mutare delle situazioni. Questo atteggiamento non è molto diverso da quello che ispira il capolavoro di Marcel Proust. Si veda, a questo proposito, quanto afferma Mariolina Bongiovanni Bertini sullo scrittore francese:
Il compito che il narratore scorge davanti a sé nel momento in cui diventa scrittore è dunque un compito multiforme, che concerne tutti i piani della sua vita passata: il suo lavoro interpretativo dovrà investire l'esperienza interiore ma anche il mondo esterno, smontare le menzogne compiaciute dell'io ma anche cogliere nei comportamenti altrui verità a lungo dissimulate, penetrare come un fluido in tutte le zone del reale, senza arrestarsi mai […] la forma della decifrazione strenua, fedele e inarrestabile della vita in movimento, della vita braccata nel suo divenire, nel suo fluire, nel suo ramificarsi in un'infinita pluralità di possibili.3
Quest'interpretazione è confermata dalle parole di Proust stesso, che spiega così il
suo progetto narrativo:
Come una città, mentre il treno segue il suo cammino contorto, ci appare ora alla nostra destra, ora alla nostra sinistra, così i diversi aspetti che uno stesso personaggio avrà assunto agli occhi di un altro, al punto di esser quasi diventato tanti personaggi successivi e differenti, daranno – solo con questo mezzo, però – la sensazione del tempo trascorso.4
Tornare indietro nel tempo spinge a misurarsi con le proprie impressioni di allora, che adesso si riconoscono fallaci o comunque appaiono, col senno di poi, sotto una luce diversa: è quindi necessario rimettersi completamente in gioco, accettando il rischio di un bilancio fallimentare. Ciò che caratterizza la Mazzantini è l'impossibilità di trarre delle conclusioni definitive, tanto che i suoi personaggi non sanno leggere in modo univoco il libro della propria vita. Alla fine di Manola l'unica certezza è l'assenza della veggente cui le due gemelle hanno cercato di rivolgersi, la sua incapacità di dare delle risposte. Non ti muovere si chiude con l'immagine di una cameriera, l'ennesima figura femminile che incrocia la vita del protagonista e già avviandosi al suo tavolo contribuisce, senza saperlo, a scrivere un'altra parte della sua storia. Anche Zorro, alla fine del suo monologo, riconosce che la realtà non è mai esattamente prevedibile e si apre alla speranza che qualcosa possa accadere, che un nuovo rapporto affettivo possa far cambiare, almeno per un attimo, la sua vita di clochard:
Stasera sì stasera vado al diurno e mi faccio la doccia. Mi scortico d'acqua bollente, ne ho voglia. E se trovo Simonetta, quella col culo basso che ci pulisce tutti i gradini della scala mobile, quando le do indietro l'asciugamano se lei non lo butta subito nel secchio ma se lo tiene vicino, l'asciugamano dove mi sono asciugato io…la invito a mangiare un gelato da McDonald's. Magari ci viene. Magari mi dà un bacio (Z, p. 66).
Solo dopo essere passati attraverso il tempo ed i suoi inganni, dopo averne rivissuto – come Proust nella sua Ricerca – tutte le trasformazioni, è possibile aprirsi alla speranza, perché ci rendiamo conto di come il tempo agisce su di noi e sul nostro modo di sentire le cose, riusciamo a vedere noi stessi in modo più chiaro. Il ricordo serve quindi a capire meglio i nostri errori, per affrontare il futuro – quando è possibile - in modo diverso. Come Proust, anche la Mazzantini studia i continui cambiamenti, fisici e psicologici, dei suoi personaggi nel corso degli anni, per cogliere le loro incertezze, gli aspetti meno prevedibili del loro carattere. Il continuo scorrere del tempo è però anche l'evoluzione della pagina: il ritmo del racconto è scandito dagli eventi raccontati, dal progressivo delinearsi di una storia che, attraverso i ricordi e le lacerazioni del presente, riesce a prendere forma e a farsi parola scritta.
II. La famiglia, il corpo e gli animali
Nel Catino di zinco la morte della nonna fa scattare una serie di ricordi, non tutti piacevoli, dagli inizi del Novecento ai giorni nostri. Dai genitori della nonna fino al proprio padre, la nipote ripercorre le esperienze di tre generazioni e rievoca legami affettivi complessi, segnati da scontri e da rancori: per descriverli l'autrice alterna il tono aulico e quello più popolare, ai limiti della scurrilità. Alcuni ricordi sono fissati in una sorta di solennità affettuosa, come accade per le passeggiate dell'infanzia:
Il ritmo del nostro procedere era stabilito dalla dolenzia dei suoi piedi, afflitti da protuberanze e da callosità letali al passo. Io ero, comunque, fiera di starle accanto. Da sottinsù mi gustavo il suo viso sempre levato, inciso come l'osso del naso nel ritratto dell'orbo Guido da Montefeltro. Non aveva rughe, soltanto qualche solco deciso e un incarnato rosa. Con il tempo, le orbite si erano fatte più fonde e brunastre, e ciò donava al suo sguardo, di un tiepido azzurro, misteriosa profondità. Dagli archi sopracciliari s'aggettavano peli ispidi e lunghi, che le molestavano la vista. Il capo era pressoché calvo, ma a guarnirlo c'era già il cappello-parrucca (CZ, p. 10).
Si noti l'uso di termini inconsueti (dolenzia) e di immagini dal suono fortemente suggestivo (callosità letali al passo), cui si contrappone, poche pagine dopo, la crudezza della vecchiaia:
Io guardavo le amiche di nonna. Il riverbero impudente del sole illuminava le porosità della pelle, sotto chiazze di cipria mal stesa, e il rossetto incanalato sotto le rughe intorno alle labbra. […] In basso, assieme alle zampe arrugginite del tavolino, c'erano visoni dal taglio antiquato, caviglie ossidate dentro calze da riposo, e odore di fica vecchia (CZ, p. 15).
Il richiamo esplicito alla sessualità non è casuale: nel Catino di zinco, e ancor più nelle opere successive, l'indagine del corpo e delle sue pulsioni assume una grande importanza. La nonna va su tutte le furie vedendo un programma televisivo che si occupa dell'eros scoperto dai giovani, tanto da spaventare la nipote bambina e condizionare, involontariamente, la sua fantasia:
"La sessualità! La sessualità! La sessualità…" continuò a ripetere, riempiendosi la bocca di spregio. Istintivamente strinsi il muscoletto del sesso per proteggermi. "quand'ero ragazza, se soltanto un uomo mi avesse sfiorata con un dito…" Le parole non le bastavano più. Ancora un poco, e sarebbero stati insulti da casino. […] S'aiutò con i gesti. Fece un affondo, lì, in mezzo a quella mobilia ricoperta da vecchie lenzuola. Zac, zac! Duellò nell'aria come uno spadaccino, con la sua lama immaginaria, la sua mancanza virile, la sua ossessione! Zac! […] Per la vaga idea che avevo della nudità maschile, la immaginai scimpanzé, maneggiarsi il sesso, e, berciando, correre a possedere il mondo intero in un delirio penetrale (CZ, pp. 20-21)
Più la nonna tenta di negare le proprie pulsioni sessuali, più esse divengono evidenti. La sua ira è infatti una forma di autodifesa, uno schermo contro una parte di sé che non ha il coraggio di provare a conoscere. Nemmeno il matrimonio e l'esperienza della maternità permettono di superare questa forma di autocensura, e il rapporto col marito (il "poromo" Gioacchino) rimane lontano da un'autentica intesa sessuale;
Per lei l'amore era un concedersi frettoloso, un dovere, come preparare il desinare. […] Il poromo è solo. Sente, sotto di sé, quell'ostilità presente e tesa. […] Lui vorrebbe addormentarsi dentro la moglie. Invece, avanti e indietro con quel lembo di corpo a scivolare nell'arsura di lei. Boccheggia sul cuscino, trattiene i gemiti fino alla fine – quando solleva d'istinto il capo e la bacia, mentre un grido afono gli paralizza le ganasce. Così la inonda. Ricade pesante. Un sussulto, poi un colpo di tosse. Intanto cede all'ultima sevizia, bagnandole il collo col sudore che imperla i suoi capelli brizzolati. Mai si guardano. Solo il lampadario dall'alto li vede, piatti, eternamente piatti negli anni, in quell'unica posizione consentita ai loro incontri (CZ, pp. 47-48).
La scrittrice tenta di cogliere i suoi personaggi nei tratti più intimi e apparentemente inviolabili, a volte ricorrendo ad immagini radicalmente distruttive. La nonna subisce un tentativo di stupro quando una notte, dopo aver inseguito il figlio che si è arruolato volontario per la guerra, per tornare a casa chiede aiuto al capostazione:
Le cerca con le labbra l'orecchia, sbavandogliela nei sussurri […] Lei sente sul collo il fiato caldo di una bocca rancida di sonno, la pelle ispida del viso – mentre si dibatte per sottrarsi al turgore dell'uomo, che è lì con gli occhi torpidi di desiderio e la bocca semiaperta. Lui mugola con il suo membro che non riesce a quietare in quell'arruffamento di sottane, di graffi, di morsi. Non ce la fa a tenerla ferma, la foia lo debilita. Nonna squassa la testa, sputa, uggiola come una cagna con il viso fradicio di pianto e di muco. […] Gli sfugge dalle sgrinfie con un guizzo, e stramazza dall'altra parte della stanza, dove continua a urlare forastica, inavvicinabile. Il capostazione ricade a peso morto contro il muro, inerme. Non se l'aspettava una difesa così selvaggia e disperata. Lui pensava al tepore di una sveltina, appena un po' forzata, ma poi gradita. Pensava al miele di una fica. Invece, tutta quella disperata riluttanza glielo ha di botto ammosciato. "Come se non bastasse la guerra a darci i calci nei coglioni! " si lamenta. "Potevamo stare un po' benino, no? " La osserva sottecchi, ravvolta nella penombra: è scura e vibrante come un insetto torturato. Finalmente la vede nella giusta luce, per quello che è veramente: uno scampolo di guerra sopravvissuto al flagello. […] Nella stanza c'è solo il lamento di nonna. Quasi che l'affronto subito le abbia lacerato l'ultimo argine, e quell'emorragia di lacrime non debba arrestarsi mai più (CZ, p. 74).
Un'esperienza analoga è rintracciabile in Non ti muovere, dove la voce narrante del chirurgo racconta il primo rapporto sessuale con Italia, la donna incontrata in un bar di periferia che morirà in un ospedale del sud:
La prendo per un braccio e la trattengo. Lei respira, a bocca aperta. Il suo alito è quello di un topo. In quell'improvvisa vicinanza il suo volto si deforma. Gli occhi pesti sono immensi, si dibattono tra le ciglia come due insetti prigionieri. Le sto torcendo il braccio. È così estranea e così vicina a me. Penso ai falchi, al terrore che ne avevo da ragazzino. […] Ancora non so di cosa deve avere paura, non conosco le mie intenzioni. So solo che con l'altra mano le sto stringendo forte quei capelli di rafia, glieli ho presi a mazzo e la trattengo come una pannocchia. […] Abbassa il viso sul collo, alza un braccio vago nell'aria, e quel braccio trema. Perché le ho trovato il sesso, magro come il resto, e già agguanto il mio. La spingo contro il muro, presto. E prima ancora di presto. […] La tiro su per le mandibole, le colo nell'ansa dell'orecchio. La mia saliva corre lungo la sua schiena, mentre mi muovo nel suo cesto di ossa come un predatore dentro un nido usurpato. Così faccio scempio di lei, di me, di quel pomeriggio balordo (NM, pp. 37-38).
Entrambi i brani sono costituiti da frasi molto brevi, che rendono al lettore l'urgenza dei movimenti e conferiscono grande efficacia alla rappresentazione. Comune ai due testi è inoltre l'uso di immagini animali: cagna, insetto nel primo brano, ancora insetti, poi falchi e predatore dentro un nido usurpato nel secondo. L'autrice fa emergere lo squallore di chi aggredisce, l'incapacità di andare oltre il proprio istinto, al punto da non saper nemmeno prevedere i comportamenti della vittima: la nonna riesce a sottrarsi alla violenza, il protagonista di Non ti muovere dubita perfino dei propri gesti. Il linguaggio essenziale è efficacissimo per rendere la miseria morale dei suoi personaggi maschili e la loro incapacità di comunicare. Il comportamento della nonna, che si arrabbia per certi programmi televisivi ma ha una copia di Porci con le ali sul comodino, rivela l'indecifrabilità della figura femminile, fragile ed esposta al rischio dell'aggressione ma capace di una forza inaspettata. Tale energia può trasformarsi anche in aperta ostilità, come quella che spesso contrappone la nonna al figlio Vittorio. Qualche anno dopo essere tornato dalla guerra, Vittorio si innamora di una ragazza frivola, "avvezza a suscitare l'attenzione degli uomini" (CZ, p. 87). Si tratta di una ballerina, il cui fascino travolgente "pareva nutrirsi in qualche luogo sordido della sua interiorità" (CZ, p. 88). Il rapporto tra i due giovani finirà presto a causa della gelosia di Vittorio e dell'infedeltà della ragazza, ma a colpire è la reazione della madre, che fin dall'inizio si affida a un'analisi tanto spietata quanto realistica:
Ballerina le pareva peggio che puttana; molto peggio. Una puttana si sa quello che fa, se la mena tutto il giorno con la stessa scocciatura, ma una ballerina…Una ballerina si diverte, si scoscia, va al ristorante con gli impresari, mangia bene e si tornisce. E intanto si tiene in caldo un tonto, che magari se la sposa pure. È come il gioco della carota con il coniglio, laddove in luogo della carota c'è la fica, e in luogo del coniglio c'è uno stronzo (CZ, p. 90).
In queste poche righe viene già espresso il carattere delle genitrice, che rivela un affetto sincero ma non troppo incline alla tenerezza. Del resto il rapporto tra madre e figlio è segnato da profonde incomprensioni, da momenti di vera e propria crudeltà, come quando la donna cucina il coniglio cui Vittorio, ancora bambino, era legatissimo, tanto da compensare con quel piccolo amico il dolore per la morte del fratello. Anche se non si è resa conto che Vittorio ha trovato nel coniglio una sorta di compensazione affettiva, il gesto della madre resta comunque sconvolgente:
Questa d'accoppare l'animale, fu una voluttà che l'assalì improvvisa. Non era così spietata da voler scientemente privare il figlio del suo unico amico. Nemmeno se n'era accorta di quel legame così esclusivo, le era sfuggito il gioco del rimpiazzo. Semplicemente la infastidivano ore clandestine di svago che il coniglio regalava al bambino. […] Non poteva sfuggire dei suoi figli, proprio lui, il più fantasioso […] alla condanna dello star-su-questa-terra-a-tribolare, che a lei era stata inferta dalla natura stessa, per quella cicala muta che aveva tra le cosce. Più avanti, nel corso della vita, la sentì tutta l'estraneità di questo figlio. Anche nei momenti più appassionati e commossi (che non mancarono) Vittorio guardò la madre come una creatura nella quale erano racchiusi una mente e un cuore difformi dai suoi (CZ, pp. 58-59).
Il mondo animale gioca sempre un ruolo importante nei libri della Mazzantini. Il primo ricordo della nonna è legato, nel Catino di zinco, alla flora ed alla fauna:
D'improvviso, isolata in un cono di luce, eccola! Anche lei nuda, tutta maculata da ombre tremule di frascume e foglie, distesa ai piedi di una foresta su un letto marcescente di licheni e muschi – lo sguardo limpido, uno sboffo di canizie attorno al sesso, solo e spalancato come una cava abbandonata. Tutt'intorno: insetti, formiche, lucertole. Allora ho avuto negli occhi gracili di gallina dalla pelle bianca e risposa, spaccati, svuotati dal granoturco e rigirati al sole, scuri come fegato. Gracili perfarne sugo di rigaglie. Avevo iniziato a pisciare, l'acqua si portava via l'urina lungo le mie gambe, Già pensavo alla carezza del mare sulla spiaggia disadorna (CZ, p. 8).
La narrazione è realistica, quasi disincantata, e fa riferimento – ancora una volta – agli organi sessuali femminili, ma anche agli impulsi fisiologici.5 Anche la storia di Zorro, diventato clochard dopo aver investito un uomo per errore, è legata a degli animali, a dei cani per l'esattezza: quello che gli è stato rubato con l'inganno da un amico d'infanzia e quello ereditato dall'uomo che anni prima ha perso la vita in un incidente. Alla guida dell'auto c'era il protagonista che, dopo quel trauma, ha scelto di diventare un senzatetto. I due animali si chiamavano Zorro: è dalla loro scomparsa improvvisa, dalla fine del rapporto con altri esseri viventi che nasce la sfiducia nei confronti degli uomini. Gli animali sono quindi l'immagine di rapporti affettivi più autentici, che sono tanto desiderati quanto irraggiungibili o, comunque, destinati a concludersi bruscamente.
Anche la storia raccontata nel Catino di zinco ha una svolta imprevedibile, causata dall'irrompere della tragedia. Una sera, dopo essersi occupata – come sempre – con grande impegno delle faccende domestiche, la nonna si ritrova, in balia dei suoi pensieri e dei suoi ricordi, nella casa che d'improvviso "è sempre più stretta" (CZ, p. 114). La Mazzantini si serve qui della tecnica del monologo interiore, riproducendo i pensieri della nonna in un brano tanto lungo quanto intenso, privo di punteggiatura, che si sviluppa per cinque pagine in una successione frenetica e disordinata di pensieri. La protagonista si abbandona ai ricordi della guerra, alla fame, ai sacrifici fatti con Gioacchino per allevare i figli ("i ragazzi erano piccoli io risparmiavo pure sull'acqua calda tutti insieme li lavavo ogni giorno che Dio mandava in terra", CZ, p. 116), agli elettrodomestici che non le servono e che i figli si ostinano a regalarle ("hai voglia a dire ai ragazzi che non la volevo la lavastoviglie io sono sola che faccio lascio i piatti a muffire lì dentro", CZ, p. 117). A queste considerazioni se ne intrecciano altre, in apparenza banali, sulle cose da fare il giorno dopo, sulla stanchezza e sul male alle gambe: il giorno dopo, il medico disporrà il ricovero in ospedale, e la nonna – poi trasferita in un centro per lungodegenti – non tornerà più a casa. Per alcuni istanti una vena ingolfata impedisce al sangue di arrivare al cervello: da quel momento la malata deve usare la sedia a rotelle, e la parte destra del suo corpo resta del tutto priva di vita. Come afferma la nipote, "nonna restò dunque divisa, senza invasioni di confini, in due distinte metà: una morta e una viva" (CZ, p. 126). Un grande rilievo assume, oltre al monologo già citato, l'atteggiamento della nipote che, in qualche modo, resta a sua volta divisa: da una parte prova una grande tenerezza per quella donna malata, dall'altro ha voglia di "fargliele pagare tutte, e finirla come il coniglio di mio padre, […] e gridare: "Perché glielo hai ammazzato, porca? ! "" (CZ, p. 129). Alle prese con ricordi così laceranti, la protagonista non può che registrare la morte della nonna, con "mura bianche intorno a sé, e una finestra cieca, verso la quale non valeva più la pena di guardare" (CZ, p. 140).
Giunta alla fine della storia, esauriti i ricordi, fonte inevitabile di rimpianti e di rancori, è finalmente possibile chiamare la nonna con il suo nome, Antenora, per confermare il recupero di un affetto, di una donna dalla personalità tanto complessa quanto coinvolgente. Il tema della sensibilità divisa trova espressione nelle due persone diverse che, alla fine del libro, convivono in Antenora, ma anche nella condizione della voce narrante, sospesa – come si è visto – tra rancore e pietà. Questo rapporto di affinità e contrapposizione caratterizza anche le protagoniste di Manola.
III. Manola, ovvero due donne e uno specchio
Il romanzo Manola è costituito da una serie di confidenze rilasciate da Ortensia ed Anemone, gemelle eterozigote, alla veggente che dà il titolo al libro.6 In molti casi le due donne, che hanno perso i genitori in un incidente stradale, ricordano gli stessi episodi e ne danno versioni diverse, in una sorta di gioco dello specchio che prima rappresenta una realtà e subito dopo ne rovescia l'immagine. I ricordi di Ortensia nascono da una necessità di raccontarsi, da una "pienitudine piuttosto dolorosa" (M, p. 7): per questo la sua narrazione è incline al lamento, all'analisi delle proprie incertezze e della propria sensibilità, che secondo lei non è stata compresa dai familiari. I racconti di Anemone hanno invece uno stile più confidenziale, un ritmo più rapido e raccontano una vita trascorsa all'insegna della curiosità, di incontri, di esperienze sessuali. Così essere cresciute nell'albergo di famiglia, punto di arrivo e partenza di sempre nuovi ospiti, di sempre nuove storie da vivere e raccontare, per Ortensia è stato "un'autentica disgrazia" (M, p. 23), perché all'origine di una continua, lacerante insicurezza. Per Anemone invece l'albergo "era come un castello incantato, gente che andava, gente che veniva, un'autentica meraviglia" (M, p. 21). Siamo quindi di fronte a due personalità opposte, a due modi diversi di affrontare la vita: alla paura di Ortensia, alla sua tragica consapevolezza delle proprie mancanze, al suo bisogno di guardarsi dentro si contrappone l'allegra disinvoltura di Ortensia, la sua disponibilità a confrontarsi con l'ambiente che la circonda. Ortensia afferma di saper "pescare il lato buffo delle cose" (M, p. 20) e in effetti i suoi racconti si concentrano spesso sugli aspetti più paradossali dell'esistenza, manifestando anche sul piano linguistico una straordinaria vitalità. Se Anemone, preda di blocchi psicologici e comunicativi, confessa di non essere "mai riuscita a dire cu…" (M, p. 27), Ortensia, parlando degli amanti clandestini che all'albergo prendevano una camera a ore, racconta che al momento di andarsene erano ancora preda della passione e "rotolavano giù dalle scale con i culi ancora nudi" (M, p. 28). Anche il rapporto delle due donne con gli animali, che forse trae origine dagli insetti che infestavano allegramente il corpo del loro padre, non può che essere opposto: se l'identificazione di Ortensia con altre forme di vita cerca di compensare delle carenze affettive, Anemone rivela un distacco ironico che le permette una maggiore obiettività. Quando quest'ultima trova una biscia e, conoscendo l'amore della gemella per gli animali, fa avvicinare il rettile alla ciotola del latte di Ortensia, desidera soltanto farle un dono. Ortensia spera invece in un'armonia, di fatto irrealizzabile, fra specie diverse: per questo mette il nuovo arrivato, cui dà il nome di Lungo, vicino ai vermi che alleva con amore materno. Nella notte Lungo divora tutti i piccoli animali. La scoperta rappresenta per la proprietaria un vero e proprio trauma, che la Mazzantini sottolinea con un'ironia appena accennata che, proprio per questo, risulta efficacissima:
All'alba, rimasi di sale. Non riuscii neppure a piangere. "Perché, l'hai fatto, Lungo? Perché? Eri il capitano, loro t'avrebbero seguito fino alla morte…" dissi con un filo di voce. Lungo mi guardò, lisciandosi il ventre pieno, con un'espressione beata, davvero disdicevole, e fece un grande rutto. La vita è maestra, Manola. Sotto la pallida luce di quell'infausto giorno appena iniziato, capii che nella vita c'è sempre un lungo che divora un corto (M, p. 26).
Il commento di Anemone è più realistico e, nella sua apparente crudezza, rivela il problema di fondo di Ortensia, la sua incapacità di accettare la vita, con le sue inevitabili contraddizioni:
Al buio, la biscia magnum si sgargarozzò tutto il verminaio e, con grande giubilo dei clienti, ce ne liberammo una volta per tutte. Sono trascorsi ventun anni dall'olocausto verminoso, e Ortensia si veste ancora di nero (M, p. 30).
Il mondo animale è legato agli istinti più nascosti, più incontrollabili: per questo Ortensia, nonostante il suo amore per le creature viventi, spesso rimane sconcertata di fronte al loro comportamento, perché non riesce ad accettare la loro (e nemmeno la propria) aggressività. Non a caso Anemone, subito dopo aver parlato di Lungo, racconta un'abitudine della gemella (all'epoca adolescente) che ne mette in evidenza le contraddizioni irrisolte. Ortensia infatti era capace di stare per giorni interi nel locale delle caldaie, dove cercava sull'enciclopedia il capitolo delle dermatiti anali:
Manola, io non sono mai riuscita a vedere il posteriore di mia sorella, ma per convincerla a tornare allo scoperto dovevo offrirle le mie natiche per una delle sue punture micidiali. Non potevo tirarmi indietro. Se Ortensia s'arrabbiava, cominciava a vibrare tutta e mandava in black-out l'albergo, incautamente sprovvisto di gruppo elettrogeno (M, p. 31).
Ortensia non è mai riuscita a pronunciare certe parole, ma ha preteso che la sorella si esponesse alla sua siringa, rivelando ancora una volta un'ambiguità di fondo in cui convivono la paura di sé e la voglia di imporsi sugli altri. È lei stessa a parlare, nella pagina successiva, del suo elettromagnetismo, confermando il rischio di black-out:
Io vivo perseguitata dal buio. Temo di produrre fenomeni che interagiscono con la corrente elettrica. Può accadere che al mio passaggio si spengano i lampioni, a causa del campo elettromagnetico che circonda il mio corpo (M, p. 32).
Al di là del tono tragicomico, l'immagine dell'energia nascosta e del rischio di un buio improvviso racchiude il vero disagio di Ortensia. Il suo bisogno fortissimo di comunicare può portarla a sopraffare gli interlocutori, a spaventarli col suo carico di ansie e di complessi. Si spiega così anche la confidenza che lega Ortensia agli animali, che non possono esprimere oltre certi limiti il loro dissenso. Da questo bisogno di affermarsi nasce l'identificazione con forme di vita diverse da quella umana, che comunque determina anche sinceri momenti di affetto e di solidarietà per chi non si può difendere. Un esempio è la sorte del tacchino Grogo, uccello che accompagna l'infanzia ma anche la vita adulta di Ortensia, che un anno, quand'era bambina, ha temuto che il suo amato volatile fosse stato ucciso per il pranzo di Natale: un episodio, questo, che ricorda la mamma di Vittorio che cucina il coniglio nel Catino di zinco.
L'entrata in scena di Poldo, conosciuto da Ortensia e criticato aspramente (e poi sposato) da Anemone, porta al culmine il processo di narrazione speculare, di continuo rovesciamento di prospettive (come in uno specchio, appunto) cui già si è accennato. Ortensia conosce Poldo in una rosticceria: quando le cade un pezzo di pizza sul libro che Poldo sta leggendo (l'Interpretazione dei sogni di Freud), resta ammirata dalla rapidità con cui l'uomo lo divora. Lì, in quello spazio urbano affollato ed angusto, Ortensia bacia un uomo per la prima volta, scoprendo una bocca che sa di peperoni ed acciughe. Nelle pagine successive all'incontro si alternano i giudizi opposti delle due gemelle. Secondo Ortensia Poldo "ha identificato la madre con il cibo" (M, p. 125) e la sua obesità è dovuta alla necessità di compensare un vuoto affettivo. Si tratta di un "poeta" di cui Ortensia vuole essere "umile musa" (M, p. 126), di "un uomo di pensiero a tutto tondo" (ibidem). Anche la puzza che emana il suo corpo ha una sua precisa spiegazione:
Poldo sostiene che oggi il mondo è percorso da un unico odore stomachevole. Perciò lui ha coraggiosamente deciso di trattenere il suo afrore originario, e di non diluirlo mai con sciacquettamenti e abluzioni (ibidem).
Anemone parla invece di "trecentocinquanta chili di trippa fetida montati su centoquaranta centimetri d'altezza […] quattro peli spalmati di sugna, forfora a squame, fungaia sui denti, muschio gengivale, tuberoni nasali […] Il tutto portato con una sicumera da computer" (M, p. 128). Se per Ortensia l'intesa sessuale è perfetta, legata alla posizione del grillo ("Poldo si spande supino e io salto, salto, salto, come un grilletto! Lui si rilassa talmente che spesso si addormenta", M, p. 132), per Anemone "a occhio nudo non si vede nulla […] Secondo me la vera sorpresa è che non ha il membro" (M, p. 135). È a questo punto che la Mazzantini decide di spiazzare il lettore, dando alla vicenda uno sviluppo imprevedibile: per amore della gemella Anemone sfida Poldo ad avere un rapporto sessuale con lei, in modo da smascherarne l'impotenza, ma ne resta conquistata, al punto che decide di sposarlo. La svolta non consiste nel matrimonio di Anemone, ma nel suo esito tragico, nel progressivo annullamento della personalità femminile. Per tutto il romanzo l'autrice ha rappresentato Anemone come un personaggio ironico e sicuro di sé, animato da un sincero, anche se a volte polemico, affetto per la gemella e da una spensierata gioia di vivere. Dopo essersi sposata Anemone resta sempre più spesso in casa, assorbita dai lavori domestici e dai pranzi per il marito; ingrassa sempre di più perché il cibo (conservato di nascosto nello sciacquone del bagno) è l'unico sollievo alla sua infelicità, consuma i suoi pasti in modo furtivo, quasi clandestino perché Poldo vuole pranzare e cenare da solo, senza lei accanto. Progressivamente i racconti di Anemone si trasformano:
La luna di miele è finita. Poldo ha ripreso le sue ricerche psicogastroantropologiche. Mi ha detto "Amore, non puoi restare a poltrire fino alla controra in attesa che io ti porti il caffè e un assaggio di panzanella. Datti una regolata. […] Lui lavora fino a tarda notte, e al mattino, povera stella, naturalmente riposa. È bello rimanere sole a riordinare, e sapere che dovrai farlo tutta la vita, è davvero rassicurante. Senti che nei tuoi piccoli gesti c'è qualcosa di solenne, ti senti eterna, ripetitiva e utile, come le stagioni (M, p. 158).
Poldo insulta la moglie chiamandola "sub-cretina" e le proibisce di usare gli elettrodomestici, perché presto la civiltà tecnologica sarà soppiantata e tanto vale abituarsi da subito alla mancanza di comodità, e anche - naturalmente - perché il rumore delle macchine lo infastidisce, visto che "ascolta la musica del cosmo" (M, p. 165). Questa condizione di sfruttamento viene accettata dalla donna, che racconta tutte queste cose – ed è ciò che sconcerta di più il lettore - con assoluta naturalezza, quasi con rassegnazione. Anemone nega la propria infelicità ("No, Manola, non si preoccupi, non sto piangendo, sono lacrime ecologiche", M, p. 166), accettando di essere picchiata dal marito e subendo anche il disprezzo di Poldo per il suo desiderio di diventare madre. L'umiliazione cui viene sottoposta Anemone quando il test di gravidanza risulta negativo è un vero insulto alla sua femminilità:
Poldo non vuole sentir parlare di bambini. […] Però ha intuito un mio desiderio. È andato di là, e quando è tornato mi ha sorriso. "Chiudi gli occhi, amore,..." mi ha sussurrato all'orecchio. E, non appena ho sollevato la tendina delle palpebre, mi sono ritrovata nelle mani uno splendido stronzo, tutto arricciolato come una lumachina. Si stanno estinguendo, le lumache, dico. Mi si è aperto il cuore, mi è sembrato come un piccolo figlio. "Occupati di lui" ha detto il mio consorte. Visto che stavo preparando le marmellate per l'inverno, ho infilato il fardellino caldo in un barattolo, facendo bene attenzione a non rovinare quel suo ghirigoro. Ormai è diventata una consuetudine, una gioia che si ripete ogni giorno, […] Ho la dispensa colma di quei barattoli. Ogni tanto mi chiudo lì dentro e li guardo, i miei bambini. In quelle lumache marron, vedo il mio matrimonio (M, pp. 191-192).7
Mentre Anemone è alle prese con queste difficoltà, Ortensia vive una trasformazione radicale. Sfidando l'acrofobia si affaccia da un ponte e, guardando il fiume, non prova alcun turbamento. Camminando in mezzo a un gruppo di operai Ortensia rimane lusingata dai loro apprezzamenti espliciti, riesce quindi ad accettare la propria femminilità e il proprio potere seduttivo. In un negozio trova finalmente il coraggio di guardarsi allo specchio, non ha più paura di scoprire il suo corpo:
I sogni affaticano, Manola, e io mi sentivo improvvisamente stanchissima. […] Era tempo di abbandonare la groppa del mio cavallo alato. Volevo la realtà. Volevo vedere in faccia la rana, per scoprire se c'era qualcosa di buono in lei (M, p. 172).
Per la prima volta Ortensia vede se stessa: "Occhi nei miei occhi mi sono guardata e, finalmente, ho incontrato Ortensia" (ibidem). Proprio in questo momento entra nel negozio Anemone, quasi irriconoscibile col trucco pesante e il corpo ingrassato. La gemella sposata compra delle calzature nuove a scatola chiusa, senza neanche guardarle, ed esce a piedi scalzi lasciando nel locale le scarpe che indossava fino a un attimo prima. Di fronte a questa disperazione Ortensia, che adesso è più sicura di sé e potrebbe aiutare Anemone, si limita ad impadronirsi, "furtivamente" come dice lei stessa (M, p. 178), delle scarpe rimaste nel negozio. Nella prima parte del libro Anemone parlava con amore di Ortensia, tanto da affermare: "Quando lei non c'è, mi sento le tette che formicolano, come se m'avessero amputato qualcosa, il cuore, per esempio" (M, p. 87). Adesso che le parti si sono invertite Ortensia rivela un cinismo raggelante, che non viene meno neanche quando scopre che Poldo picchia Anemone:
Onestamente, Manola, non ho grandi rimproveri da fare al mio ex fidanzato. Mi rendo conto che in ogni matrimonio riuscito la confidenza degenera subito in abuso. Ma non capisco proprio che bisogno ci sia di metter su famiglia. La famiglia non è una necessità interiore dell'uomo. […] Eppure, nonostante i cazzottoni, tutti finiamo per cascare in quel merdoso sentimento di appartenenza, che ci circuisce e ci fa venire il groppo alla gola, appena riconosciamo una puzza familiare fin dall'infanzia (M, p. 214).
Ortensia non sta facendo un discorso filosofico, sta commentando le parole di Poldo, che qualche riga prima le ha confidato di non riconoscere più Anemone e di non poter fare altro che prenderla a botte: non si tratta quindi di una sana ironia sul mito, a volte troppo celebrato, della famiglia, ma di meschino egoismo. Sembra di poter riconoscere, in questo atteggiamento, una sorta di rivalità inconscia, quasi che Ortensia cercasse una vendetta per le differenze che hanno sempre caratterizzato lei e la gemella, provando un sottile, insopprimibile compiacimento nel vedere Anemone in gravi difficoltà. Quando Poldo, qualche pagina dopo, prova a sedurla, Ortensia rifiuta non per amore di Anemone, ma solo perché finalmente vede il cognato (che lascerà la moglie per l'oncologo che l'ha avuta in cura) per quello che è: un uomo debole ed egoista. L'errore di Ortensia è di non accompagnare a questa presa di coscienza un'affettuosa solidarietà verso la gemella. In realtà bisogna prima rinnegare tutta la vita passata, aggredendo con furia anche Lucianella, l'improbabile psicanalista che seguiva Ortensia da anni. Proprio quando contesta Lucianella, conosciuta nell'ospedale neuropsichiatrico di cui entrambe sono state pazienti, Ortensia riesce a sbloccarsi anche sul piano verbale, e alla fine del suo sfogo grida la parola che non pronunciava da anni. Lo sfogo di Ortensia è soprattutto un attacco alla mancanza di responsabilità, all'atteggiamento di chi vuole sempre giustificare chi sbaglia in nome di presunti traumi subiti nell'infanzia:
Volevo stenderla. "Non me ne frega niente, se il padre dell'energumeno è un etilista selvaggio, se la madre è ricoverata al traumatologico, se la sorella è una prostituta eroinomane e lui si spacca il fegato di anabolizzanti in palestra. È come la storia di quello stupratore incallito che era stato violentato dal padre, dalla madre, dagli zii, dai nonni, dai bisnonni, che tutti erano stati brutalizzati dai trisavoli infoiati, che tutti erano stati brutalizzati dagli antenati, che tutti erano stati brutalizzati dagli ominidi del pleistocene, che tutti erano stati brutalizzati dalle scimmie! Allora di chi è la responsabilità? Di quel primo branco di scimmie? Ma è arcinoto che le scimmie si sodomizzano senza pietà, e senza cerimonie. E allora? Si tratta soltanto di tradizioni familiari che si tramandano? No, basta con il placebo del passato, e che ognuno risponda di se stesso nel presente! " […] Manola, ho raccolto le spoglie della mia analista per un'orecchia e ho gridato nel suo morituro padiglione freudiano: "Culo! Culo! Culo! " (M, p. 230)
La contestazione della psicanalisi rientra in un ambito più complesso di negazioni, che riguarda molte delle certezze – vere o presunte – dell'età moderna. Passando anche da un giovanile, transitorio entusiasmo per il regime comunista Ortensia giunge a denudare la società, a constatare il fallimento delle piccole e grandi aspettative: non a caso alla fine del libro sceglie di andarsene, ripartendo dalla propria solitudine ma anche dalla propria autostima, da una nuova consapevolezza di sé. Anche il rapporto con gli animali cambia completamente, passando dalla compassione dell'infanzia per i vermi vittime del serpente Lungo al compiacimento crudele con cui Ortensia, nel ristorante, sceglie l'aragosta:
Ne ho acciuffata una capricciosa, con uno sguardo furbetto, e le antennule vibranti. Per non sentire l'ultrasuono del suo lacerante pianto, mentre la scaraventavano in bollitura, mi sono tappata le orecchie. Ma poi ho pensato che in fin dei conti, con tutta la gente che continuamente crepa nel mondo, dell'eliminazione di crostaceo decapode macruro commestibile non me ne fregava un fico secco. Ho liberato i padiglioni e, dopo avere ingollato un buon bicchiere di bianco della mia annata di nascita, con sorpresa, mi sono accorta che non lo sentivo, l'atroce sibilo della piccola palinurus vulgaris. Forse sto perdendo un po' della mia affinatissima sensibilità. Se questo implica uno sconto sul dolore, abbia pazienza, Manola, non riesco a crucciarmene (M, p. 182).
La scelta stilistica riflette la doppiezza del personaggio. All'apparente sensibilità per il dolore animale, rappresentato con espressioni quasi solenni (lacerante pianto, atroce sibilo), si contrappone l'immediatezza di altre immagini, legate alla morte e all'indifferenza con cui vi si assiste (la scaraventavano in bollitura, non me ne fregava un fico secco). Questo nuovo atteggiamento matura mentre l'altra protagonista femminile cade vittima dell'alcolismo e della solitudine: come la gemella all'inizio del libro, Anemone non riesce più a pronunciare la parola "culo" e, disperata, decide di affidarsi a Lucianella. Ortensia rivendica il proprio diritto ad essere se stessa e, ben presto, decide di andarsene alla volta dell'isola di Thule, il punto più a nord della terra. Prima di partire, però, ritrova uno slancio di profondo, sincero affetto per Anemone:
Sulla terrazza, Any svolazzava nel vento, agitando una mano. "Orty, il tuo razzo!" "Tienilo tu. Una notte, quando sentirai nostalgia di me, lancialo. Io lo vedrò. " […] "Orty, pensi che potremo tornare indietro? " "Non lo so, chiedilo a Manola…" "Non serve", ha detto mia sorella, "tanto non ci ha mai risposto. " (M, p. 249)
La conclusione del libro è ancora una volta all'insegna dell'incertezza, della fragilità di chi, come le due protagoniste, anche se in modo diverso è impegnato nella stessa ricerca di un senso ultimo dell'esistenza. La frase finale sembra in effetti alludere a una prospettiva di tipo ontologico, facendo di Manola, la donna sempre interpellata che non risponde mai in nessun modo, di cui il lettore non apprende nulla, il simbolo di quella risposta che nessuno dei grandi movimenti ideologici, politici o religiosi, riesce davvero a dare. Né la scienza (rappresentata dalla psicanalisi), né l'istituzione della famiglia (il matrimonio con Poldo), né la politica possono soddisfare davvero il nostro bisogno di sentirci vivi, di essere parte di un tutto interagendo con le persone che abbiamo attorno. In fondo il vero problema di Anemone ed Ortensia è la comunicazione: le due gemelle non hanno nessuno che le ascolti, cercano di crescere immergendosi completamente nella realtà (è questa la scelta di Anemone) o fuggendone, come fa Ortensia. Entrambi i modelli presentano dei pericoli: nel primo caso si rischia di fidarsi troppo dell'altro (da qui nasce il matrimonio disastroso di Anemone), nel secondo di peccare di egoismo, anche quando si è animati dalle migliori intenzioni. Ortensia raggiunge un equilibrio perché riesce a vedere se stessa dal di fuori, ad osservarsi in modo lucido, cioè non accetta, come fa Anemone con Poldo, di annullarsi per la felicità degli altri ma al tempo stesso capisce di doversi comunque confrontare con loro. In questo senso l'immagine dello specchio, già chiamata in causa in queste pagine, rappresenta la capacità di osservare e di osservarsi, ma anche l'incertezza di chi guarda e non sa come interpretare la realtà, le lacerazioni che questo tentativo comporta. Inevitabile è il riferimento alla teoria di Lacan dello specchio come falsa immagine di sé: anche nel romanzo Anemone e Ortensia credono più volte di aver raggiunto un equilibrio definitivo, ma solo guardando da adulta la propria immagine riflessa Ortensia riuscirà a conoscersi. Se, come sostiene lo studioso francese, il bambino è incapace di riconoscere la propria immagine al di là del vetro, lo sguardo di Ortensia nel negozio riesce a riconoscere se stessa, la forma del proprio corpo che finalmente non fa più paura, la rabbia - verso Lucianella, verso Poldo, verso chi le ha impedito di essere stessa – che non c'è più motivo di rinnegare. Per questo assistiamo ad un incattivimento dell'ex fidanzata di Poldo, perfino al suo cinismo: è necessaria una fase di distacco dall'ambiente che la circonda, bisogna concentrarsi su se stessi per potersi davvero ritrovare, senza più temere né i propri sentimenti né il confronto con ciò che provano gli altri. Superata questa fase la donna può andarsene, non prima di aver recuperato, nella struggente pagina finale appena citata, il rapporto con la gemella, con l'altra parte di sé alla quale adesso può riservare, senza più finzioni, il suo affetto. Come in altre opere della Mazzantini, anche in Manola gran parte della narrazione è giocata sul ricordo, sul legame spesso misterioso che unisce il passato e il presente: guardare da uno specchio significa anche vedere, per un attimo, ciò che ci lasciamo alle spalle, riconoscere l'importanza – nel bene e nel male – del nostro passato per un'autentica costruzione della nostra identità.
IV. Non ti muovere: la continuità della scrittura
Il romanzo successivo, Non ti muovere (2001), è incentrato sui ricordi di Timoteo, un chirurgo che mentre la figlia Angela, quindicenne, lotta contro la morte, prova a raccontarle la propria esistenza. La sua storia è legata a due presenze femminili, la moglie Elsa e Italia, la donna conosciuta in un bar della periferia romana che diviene la sua amante. Esse costituiscono due esempi diversi, ma altrettanto significativi, di identità femminile. Timoteo conosce Italia in un ambiente abbastanza squallido, "uno di quei bar di periferia con il caffè cattivo, come l'odore che arrivava dalla porta del cesso socchiusa alle spalle di un vecchio calciobalilla con i giocatori decapitati dalla furia degli avventori" (NM, p. 24). L'incontro con Italia costringe Timoteo a prendere coscienza del suo modo di vivere i rapporti interpersonali, della sua ordinarietà, come quando arriva alla casa al mare dove lo aspetta la moglie e si rende conto dei limiti del suo matrimonio, imputabili prima di tutto a lui stesso:
E soprattutto Elsa, la sua faccia senza stupore. Non mi sentivo atteso, non mi sentivo amato. Ingiustamente. Elsa mi amava, con la ragionevolezza a cui io per primo l'avevo piegata, perché lei senza dubbio era stata più appassionata di me. […] La amavo, e deviavo dentro quella periferia, dentro le ossa di quell'altra donna. Lei non mi deludeva, non aveva ricordi posati sulla carne. Scopavo con nessuno, In quelle soste euforiche e patetiche, diventavo il ragazzo temerario che avrei voluto essere e che non ero stato. […] Dopo ero solo, esattamente come prima. Però il profumo del crimine rimaneva, risaliva dal buio e mi faceva compagnia adesso, mentre un ciuffo di canne a lato del giardino si muovevano assecondando il verso leggero del vento (NM, pp. 64-65).
Italia "non era bella e neppure troppo giovane" (NM, p. 25), con "capelli decolorati" e "un viso magro ma robusto di ossa […] due occhi rattristati dal trucco troppo marcato" (ibidem). D'altra parte, il matrimonio con Elsa è legato ad una vita serena anche se un po' monotona, all'ordine garantito da un ambiente borghese, dalle cene con coppie di amici o in compagnia dei suoceri, dalla casa al mare immersa "nel profumo delle cose note" (NM, p. 42). Apparentemente la storia raccontata in Non ti muovere è abbastanza comune, quasi banale: un medico affermato, dopo anni di matrimonio segnati dall'affetto e dall'abitudine, si sente attratto da una donna di origini modeste, non particolarmente bella ma capace di offrirgli il brivido della novità. Ciò che conferisce forza al romanzo è la sua complessità nascosta, la capacità di suggerire sempre nuove riflessioni, sempre nuovi dubbi. Alla scrittrice non interessa tanto quello che è successo ma le sue cause e le sue conseguenze, quali fragilità, quali sogni, forse improbabili, hanno portato Timoteo a frequentare Italia, a desiderare di possederla fino a farne un'ossessione. Timoteo si lega a lei per dare un senso alla sua giornata afosa, a quella sosta con la macchina in panne nella periferia romana: vuole cogliere l'intensità di quell'esperienza. Per un analogo desiderio di esprimere se stesso e la propria vitalità chiede ad Elsa, dopo che già ha iniziato la relazione extraconiugale, di avere un figlio. Quando scopre che Italia è incinta Timoteo vorrebbe confessare tutto alla moglie, ma di lì a poco apprende che anche Elsa aspetta un bambino. Il desiderio di amare Italia e di offrirle un futuro perde consistenza, tanto che l'uomo cerca con mille scuse di non farsi più trovare, per difendersi "da lei, dal peso che […] si porta appresso" (NM, p. 76). La donna così passionale, così forte nel suo legame col professionista sposato, rivela d'improvviso la sua fragilità, il suo bisogno di tenerezza e amore cui Timoteo nega ogni risposta: ferita da un simile atteggiamento, Italia sceglie di abortire. Negli stessi mesi in cui Elsa, nella sua veste ufficiale di consorte, festeggia con Timoteo, i genitori e gli amici la prossimità del lieto evento, l'altra donna sceglie di farsi da parte, di rinnegare se stessa e la vita che sta per nascere. Il rapporto con Timoteo si trasforma irrimediabilmente. Rimane tra i due amanti l'ombra di una ferita insanabile, che emergerà anche quando si incontreranno dopo un lungo distacco e, dopo aver fatto l'amore, si siederanno al tavolo di un bar:
"La mattina in cui ho abortito sono venuta sotto casa tua. Sei uscito dal portone, ma non mi sono avvicinata perché c'era tua moglie. Siete andati verso la macchina, tu le hai aperto lo sportello, l'hai urtata leggermente. Lei si è portata le mani sulla pancia, in basso…Allora ho capito, Perché la mia vita è stata tutta così, piena di piccoli segni che mi vengono a cercare. " "Non mi perdonerai mai, vero? " "Dio non ci perdonerà" […] "Dio non esiste! " sibilai stringendole le mani ghiacce. Lei mi guardò, e forse rise di me. Scrollò le spalle: "Speriamo" (NM, pp. 230-31)
Italia morirà in uno sperduto ospedale del Sud, nella terra in cui è nata, assistita vanamente da Timoteo, che l'ha accompagnata da Roma in auto e farà di tutto per salvarla dalla setticemia. Resterà una traccia di Italia, un segno della vita che le è stata negata, nella sedia vuota che Timoteo, all'inizio del romanzo, vede mentre aspetta di conoscere la sorte della figlia. Nel silenzio dell'ospedale, costretto ad attendere come qualsiasi altro genitore, il chirurgo sente il bisogno di affrontare i suoi ricordi, di parlare ad Angela della donna che ha cambiato la sua esistenza:
Dentro di me c'è una sedia vuota, io la guardo, guardo la spalliera, le gambe, e aspetto, e mi sembra di ascoltare qualcosa. È il rumore della speranza […] m'illudo che quella sedia vuota si riempia anche per un solo lampo di una donna, non del suo corpo, no, ma della sua pietà. […] Tu non la conosci, è passata nella mia vita quando ancora non c'eri, è passata ma ha lasciato un'impronta fossile. Voglio raggiungerti, Angela, in quel limbo di tubi dove ti sei coricata, dove il craniotomo scassinerà la tua testa, per raccontarti di questa donna (NM, p. 22).
L'identità femminile si afferma quindi come un principio di vita che si rinnova al di là dei tradimenti e delle piccole e grandi viltà di ogni giorno: l'uomo che ripensa alla propria storia risulta, di fatto, l'unico personaggio vile del romanzo. La sessualità che egli ha esibito, che ha addirittura imposto (nel primo incontro con Italia) e infine ha rinnegato accettando l'aborto, si riafferma come energia vitale, capace di far esplodere le energie e le pulsioni contrastanti, per riorganizzarle in una nuova condizione di equilibrio. Forse una certa serenità viene raggiunta solo nelle pagine finali, quando Elsa è arrivata al capezzale della figlia e le sta accanto in attesa del risveglio. Osservando la scena, l'uomo oscilla tra l'amore per la moglie e il ricordo, indelebile e denso di suggestioni, di Italia:
Io la amo, Angela. La amo per quello che è stata e per come siamo. Due vecchi podisti in marcia verso un traguardo di polvere. […] Piove. Sotto la pioggia in un angolo di questa città ho amato Italia per l'ultima volta. Quando piove, ovunque lei sia, sono certo che rimpiange la vita. Faceva parte di me come una coda preistorica, qualcosa mutilato dall'evoluzione, qualcosa di cui conservo l'alone, come una misteriosa presenza nel vuoto. Ho fame. Una ragazza sta venendo verso di me per prendere l'ordine. Ha il viso schiacciato, un grembiule a righe, un vassoio sotto il braccio. È lei l'ultima donna di questa storia (NM, pp. 294-295).
A questo senso di continuità, a questa tenace voglia di vivere che va oltre i gesti quotidiani incerti tra crudeltà e tenerezza, è affidata la presenza femminile del romanzo, la sua capacità di orientare i gesti e i sentimenti dell'uomo che racconta.
V. I dintorni delle storie
Le storie raccontate da Margaret Mazzantini non possono essere interpretate in modo univoco. I temi che sono stati messi in luce offrono punti di contatto con molte altre esperienze letterarie, tra le quali è necessario scegliere quelle che meglio si prestano ad un confronto. Come i personaggi della scrittrice, per compiere delle scelte, devono far prevalere questa o quella parte di sé, così anche in sede critica è necessario fare riferimento ad alcuni dei tanti percorsi possibili. Per affinità tematica, per l'importanza della memoria e il rapporto con l'opera di Proust cui, come si è visto, l'autrice di Non ti muovere è legata da alcuni non trascurabili affinità, è inevitabile il riferimento a Lalla Romano. Il titolo di una delle sue opere più significative, La penombra che abbiamo attraversato (1964), fa esplicito riferimento all'espressione usata dallo scrittore francese per indicare l'infanzia. Il viaggio della protagonista che, ormai adulta, torna nella propria terra per riscoprire volti e storie di un'epoca lontana, coincide con una riscoperta di sé, la stessa cui vanno incontro Ortensia ed Anemone in Manola. Entrambi i romanzi parlano di un recupero del proprio passato che si intreccia con il presente, di una rievocazione che deve fare i conti con l'urgenza della vita attuale. Tuttavia se nel libro della Romano, come afferma Marco Forti, il dato memoriale costituisce "una realtà congelata nei propri elementi particolari, e fissata una volta per tutte […] in un alone indistinto ma tenace di poesia"8, i personaggi di Margaret Mazzantini sembrano essere preda di un'inquietudine irrimediabile. Più che un vero e proprio equilibrio, più che un'autentica armonia col tempo trascorso e con le sue lacerazioni, il punto d'arrivo sembra essere una presa di coscienza del proprio male di vivere. Non c'è una nuova interpretazione di ciò che è accaduto, ma la volontà di andare avanti nonostante i traumi subiti. Il riferimento alla psicanalisi e lo stesso rifiuto di tale disciplina (si pensi all'aggressione di Lucianella da parte di Ortensia) conferma la modernità di questi personaggi, che passano attraverso l'indagine di sé ma si rassegnano all'impossibilità di conoscersi completamente. Si può soltanto proseguire la propria esistenza, pur sapendo che a tratti le nostre angosce più profonde affioreranno di nuovo, pronte a tormentarci ancora. Con questo spirito Ortensia parte per il Nord, con questa consapevolezza Timoteo lascia aperto il finale della sua storia. Il fascino della Mazzantini è proprio in questa compresenza di rabbia e di (falsa? ) speranza, nella registrazione frenetica dei torti subiti e delle colpe commesse che lascia spazio a rancori e rimpianti ma trova anche, quasi sempre, la forza di ripartire. Queste contraddizioni sono suggestivamente intuite da Enzo Siciliano, che parla, a proposito di Non ti muovere, di "sentore fradicio e vinoso del sottosuolo dostoevskiano […] un rimorso che è di per sé un castigo […] il fiore sfibrato, dal profumo acutissimo, della verità".9
I legami affettivi dell'infanzia, simbolo stesso del ruolo della memoria e del desiderio di recuperare una parte imprescindibile del proprio percorso esistenziale, trovano espressione anche in altre voci femminili del Novecento italiano: un esempio è costituito da Natalia Ginzburg (che fu anche traduttrice di Proust) e dal suo Lessico famigliare, vincitore del Premio Strega nel 1963. Anche in questo caso risulta opportuna l'analisi di Marco Forti, che insiste sulla forza espressiva del libro, caratterizzato da un linguaggio capace di trasmettere ogni emozione con immediatezza e semplicità. In quest'opera il vero, il ricordato, il vissuto e il patito arieggiano la favola […] si mischiano fatti eccezionali e comuni […] gli eventi anche drammatici che più volte hanno toccato da vicino la scrittrice hanno trovato un linguaggio comunicativo e perfettamente adeguato nella sua semplicità.10
Anche nella Mazzantini gioca un ruolo fondamentale la ricerca linguistica, che si avvale di continue variazioni, giungendo anche alla crudezza, alla scurrilità esplicita per rendere lo stato d'animo dei suoi personaggi. Nonostante la carica aggressiva di certe pagine, il rapporto con la tradizione è facilmente riconoscibile e passa per alcuni grandi generi narrativi, dal romanzo di memoria familiare a quello d'introspezione: non bisogna quindi prendere in considerazione solo Proust, ma anche – ad esempio - Joyce e Svevo, legatissimi all'approfondimento psicologico dei personaggi e all'uso del monologo interiore, che compare alla fine del Catino di zinco. Molti altri temi della Mazzantini, dal ruolo degli animali all'importanza, reale e simbolica, dello specchio di Ortensia in Manola, si prestano ad una serie di citazioni e di riferimenti autorevoli, ma una rassegna, più o meno ampia, dei modelli possibili esula dagli scopi del presente contributo.11 Vale invece la pena di soffermarsi sull'apporto originale dell'autrice che, se è accostabile a molte esperienze narrative precedenti, se ne distacca per la sua peculiare sensibilità. Quando viene descritto l'albergo di famiglia in Manola o quando Zorro parla delle sue docce al diurno, il libro non consiste tanto in ciò che viene raccontato, quanto nelle riflessioni che queste pagine suscitano in chi legge. Ci si trova infatti di fronte ad un vero e proprio magma, ad un coacervo di sentimenti che in ogni istante è pronto ad esplodere e a determinare nuovi dubbi e nuovi, contrastanti rapporti interpersonali. L'opera della Mazzantini non si esaurisce quindi in un genere preciso, in una ricerca chiaramente definita che ne delimiti l'orizzonte speculativo, ma suggerisce una complessa molteplicità di significati. La modernità di questa scrittura è nello stile, capace di esprimere l'intensità degli stati d'animo e la loro intrinseca fragilità, sottoposti come sono al mutare imprevedibile della sorte. Ogni sentimento viene amplificato dalla forza con cui viene espresso, dalla tenacia con cui il linguaggio vi aderisce per renderlo pienamente; ogni libro procede per continui cambi di prospettiva, passando dalla comicità alla tragedia, dalla tenerezza alla rabbia più feroce. Studiare l'identità femminile significa allora occuparsi di questo stile sempre mutevole e, insieme, sempre fedele a se stesso e al proprio intento di cogliere da vicino le trasformazioni dell'anima dei suoi personaggi. È in virtù di questi mutamenti che Italia e Anemone rivelano d'improvviso la propria fragilità e Ortensia diventa più sicura di sé. I percorsi possibili non sono quindi legati solo alla scrittrice e alle sue affinità con altri artisti, ma anche all'evoluzione continua, e imprevedibile, dei suoi personaggi: tra essi, le figure femminili si distinguono per la loro forza di suggestione.
BIBLIOGRAFIA
M. Mazzantini, Il catino di zinco, Marsilio, Venezia 2003.
M. Mazzantini, Manola, Mondadori, Milano 1998.
M. Mazzantini, Non ti muovere, Mondadori, Milano 2001.
M. Mazzantini, Zorro, Mondadori, Milano 2004.
M. Bongiovanni Bertini, Introduzione a Proust, Editori Laterza, Bari 1991.
M. Forti, Lalla Romano, "La penombra che abbiamo attraversato", in Id., Prosatori e narratori del Novecento italiano, Mursia, Milano 1984, pp. 265-270.
M. Forti, Natalia Ginzburg fra memoria e romanzo in Id., Prosatori e narratori nel Novecento italiano, op. cit., pp. 361-366.
E. Siciliano, Un orrore borghese, in La Repubblica, Milano, 2 dicembre 2001.
NOTE
1 Per le citazioni dalle opere della Mazzantini si farà riferimento alle seguenti sigle: CZ per M. Mazzantini, Il catino di zinco, Marsilio, Venezia 2003; M per Id., Manola, Mondadori, Milano 1998; NM per Id., Non ti muovere, Mondadori, Milano 2001; Z per Id., Zorro, Mondadori, Milano 2004.
2 Lo stesso catino del titolo è legato a un ricordo d'infanzia: si tratta infatti dell'oggetto usato dalla nonna per fare il bagno alla nipote bambina.
3 M. Bongiovanni Bertini, Introduzione a Proust, Editori Laterza, Bari 1991, p. 188.
4 Questa dichiarazione, citata da M. Bongiovanni Bertini, Introduzione a Proust, op. cit., p. 176, venne rilasciata dallo scrittore presentando ai giornalisti il primo volume di Alla ricerca del tempo perduto.
5 Poche pagine più avanti una favola della nonna farà esplicito riferimento alle feci, ad uno "stronzetto" parlante capace di smascherare la cattiveria della vecchia protagonista: cfr. M. Mazzantini, CZ, pp. 12-13. Si veda anche, più avanti, la scena degli escrementi di Poldo in Non ti muovere.
6 Scritta per il teatro nel 1995 e portata in scena da Nancy Brilli e dalla stessa Mazzantini, l'opera è poi stata pubblicata (1998) anche in forma di romanzo. È a questa seconda versione che si riferisce il presente contributo.
7 Impossibile non pensare ai barattoli di Merda d'artista realizzati da Piero Manzoni nel 1961.
8 M. Forti, Lalla Romano, "La penombra che abbiamo attraversato", in Id., Prosatori e narratori del Novecento italiano, Mursia, Milano 1984, pp. 265-270 (la frase citata è a p. 270). La recensione è stata originariamente pubblicata in "Aut-aut", 87, maggio 1965.
9 E. Siciliano, Un orrore borghese, in La Repubblica, Milano, 2 dicembre 2001.
10 M. Forti, Natalia Ginzburg fra memoria e romanzo in Id., Prosatori e narratori nel Novecento italiano, op. cit., pp. 361-366 (la frase citata è a p. 361).
11 Nell'impossibilità di essere esaustivi, si faranno qui alcuni cenni essenziali. Per il tema degli animali si pensi a certi racconti di autori come Alberto Savinio o Tommaso Landolfi, dove le presenze zoomorfe si legano a una memoria dell'infanzia che, più che consolare, finisce per divenire sempre più inquietante. Naturalmente è doveroso citare, per il tema dell'identità, almeno il Ritratto di Dorian Gray di Wilde (1891) dove emerge il rifiuto di conoscere la propria immagine più vera, ma è opportuno segnalare anche, per il tema dello specchio e la sua capacità di rivelare mondi sconosciuti, i testi di Carroll (Attraverso lo specchio, 1871) e Bontempelli (La scacchiera davanti allo specchio, 1922).