IL CRISTALLO, 2009 LI 2-3 | [stampa] |
Si riproduce qui la conversazione sul tema del bilinguismo in Alto Adige cui hanno preso parte, in una riunione del 18 dicembre presso il Liceo "Giovanni Pascoli" di Bolzano, Verena Debiasi che è stata la moderatrice, Fabio Bonafè. Roberta Ciola, Christoph Hartung von Hartungen, Marco Mariani e Isabella Tessadri. Ci si riserva di affidare alla versione on line della rivista la riproduzione integrale audio degli interventi, Qui tuttavia si è cercato di restare fedeli al massimo. Piccoli tagli sono stati apportati per non superare il limite che ci si era fissato. La conversazione è di persone che operano nella scuola con ruoli diversi, ma tutte coinvolte nell'insegnamento della seconda lingua nelle scuole della provincia.
Verena Debiasi: L'argomento del nostro dibattito, in senso lato, è il bilinguismo in Alto Adige, analizzandolo un po', partendo dall'esperienza privata e professionale di ogni singolo invitato. Si parlerà delle opportunità offerte dalla nostra provincia per diventare bilingui e degli ostacoli che, invece, riscontriamo e che, secondo ognuno di noi, potrebbero essere la causa di un apprendimento della seconda lingua, soprattutto per il gruppo linguistico italiano, insoddisfacente, come ha fatto vedere un recente studio Eurac. Questo studio dice, che per partecipare alla vita sociale in Alto Adige, un livello cosiddetto europeo, cioè B1 o B2, sarebbe l'ideale, ma quello che risulta da questa indagine svolta tra i ragazzi che terminano la scuola superiore in Alto Adige, per quanto riguarda coloro che frequentano la scuola italiana, varia tra il livello A2 (che non è sufficiente) e B1. Ci sono anche alcuni che raggiungono il livello B2, dunque soddisfacente.
In primo luogo io passerei la parola al signor Christoph Hartung von Hartungen.
Von Hartungen: Grazie. Se usciamo dalla nostra provincia, se andiamo all'estero, oppure a sud del nostro confine provinciale e ci incontriamo con persone che sono culturalmente interessate e aperte, tutte ci dicono che noi viviamo in un contesto invidiabile, perché cresciamo bilingui, perché abbiamo questo modello nel quale possiamo parlare sia in italiano sia in tedesco, poi possiamo imparare anche l'inglese ecc. Ci dicono che abbiamo delle opportunità rare, addirittura uniche, in Europa.
Una volta tornati in provincia si scopre che tutto questo non è interessante, quasi non ha valore per la maggioranza delle persone che vivono in questa provincia; anzi, per taluni, o per molti, è un peso, una fatica enorme, quasi insopportabile, insuperabile. Proprio ieri, sul primo canale della radio austriaca è andato in onda un lungo dibattito tra il professor Pelinka e la professoressa Sonia Puntscher Riekmann, un'altoatesina ordinaria di sociologia all'Università di Salisburgo, Vice Rettore dell'Università. Lei ha detto che deve il suo successo (anche professionale) al fatto di essere cresciuta - lei è della bassa Atesina, nata nel 1954 - in un contesto bilingue, di aver dovuto sempre misurarsi con due lingue, che ritiene questo uno dei più importanti arricchimenti per il suo successo, per la sua vita nel suo complesso. 19 Questo viene colto e apprezzato in misura molto ridotta, ciò rappresenta un ostacolo alla valorizzazione delle opportunità di bilinguismo. Da molto tempo ormai si cerca di farlo, ma nei fatti, fino ad ora, è successo poco, o troppo poco forse.
Verena Debiasi: Lei parla del bilinguismo come di un'opportunità che, all'interno dell'Alto Adige, viene valorizzata poco. Sembra che siamo sulla strada buona, però non vediamo ancora risultati soddisfacenti; è altresì vero che alcuni risultati positivi sono stati raggiunti. Cerchiamo ora di individuare alcune situazioni, anche di persone qui presenti. Posso passare direttamente la parola a Roberta Ciola, che si definisce una cittadina nata e cresciuta in regione?
Roberta Ciola: Ho scritto regione, perché sono nata a Trento, sono vissuta in questa città, poi a Vipiteno e al Brennero.
Verena Debiasi: Lei è di madrelingua italiana, con ottime conoscenze del tedesco e sposata con una persona di madrelingua tedesca. Come vede Lei la situazione dell'Alto Adige, riguardo all'essere bilingue, al diventare e far diventare bilingui? Credo che Lei abbia due figli, dunque può portare la sua esperienza anche come madre.
Roberta Ciola: parto dalla mia esperienza, della quale devo ringraziare i miei genitori, perché loro hanno sfruttato tutte le offerte istituzionali esistenti quando noi eravamo giovani, la scuola, le lezioni di tedesco eccetera. Noi vivevamo nel contesto di Vipiteno, dove, per fare sport, bisognava recarsi al club tedesco, per stare con i giovani bisognava andare alla Jungschar, perché Vipiteno non aveva molte offerte culturali. Poi sia io che mia sorella abbiamo fatto due soggiorni all'estero di un anno, durante la quarta superiore.
Erano i primi anni in cui si organizzavano questi scambi culturali e questa forse è stata la cosa più importante, a livello mio biografico personale, per quanto riguarda l'apprendimento della lingua tedesca. C'è stata una partecipazione attiva della mia famiglia, che ha colto tutte le occasioni che questa terra ci dava affinché noi figli imparassimo il tedesco; non è mai stato un discorso relativo solo alla lingua, ma comprendeva anche i vicini di casa, gli amici, il tempo libero e così via. Era proprio un'apertura culturale della famiglia.
Quando Verena mi ha invitata, ho pensato subito a quello che sta succedendo nelle famiglie che ho attorno, sempre a livello individuale, perché io non conosco tutta Merano, ma adesso ho una certa visuale sui bambini di nove anni. Ho visto che ci sono scelte da parte delle famiglie che a volte sono estreme, nel senso di genitori di madrelingua italiana che, da quando sono nati i figli, parlano solo tedesco tra loro e con i figli, scegliendo poi di mandare i figli alla scuola tedesca. Addirittura c'è una famiglia con quattro figli, le prime tre sono femmine e con loro parlano solo italiano, ma con il maschio, per dargli più possibilità - io non so che cosa possa voler dire questo, ma è una scelta della famiglia - la mamma parla tedesco. In casa dunque c'è questo tipo di costellazione linguistica, un po' particolare. Altre persone, provenienti da fuori provincia, italiane, che hanno imparato il tedesco all'università, oppure in altri luoghi, con i figli qui parlano solo in tedesco.
Questi sono gli estremi; c'è qualcuno che vede il tedesco come la chiave necessaria per entrare in posti o posizioni dove non si entra con l'italiano. Questi bambini, alla fine, stanno perdendo l'italiano, secondo me, però si tratta proprio di una questione di scelta individuale, delle famiglie. Poi, d'altra parte, abbiamo famiglie che seguono i percorsi standard, cioè quelli che sono offerti dalla scuola, senza andare oltre. Sicuramente sono molto attenti al rendimento scolastico del figlio, che deve essere molto alto, ma da lì non si spostano. Altre famiglie invece scelgono di far seguire ai loro figli anche la scuola di lingua italiana, con le ore di tedesco previste dalla scuola, però, oltre a queste, cercano per i loro figli attività diverse. Ad esempio, ci sono i corsi estivi di lingua, oppure i soggiorni estivi misti. Queste forse sono le famiglie che hanno scelto responsabilmente di partecipare, di apprendere la cultura e di far imparare il tedesco ai propri figli. Io penso sia una questione di responsabilità, anche perché, a livello di apprendimento, se la persona che deve imparare il tedesco non viene indirizzata e stimolata, è difficile che la scuola, dall'esterno, possa imporre certi comportamenti.
Sì, mi sono spostata dal piano personale a quello individuale, ma penso che se l'individuo non vuole partecipare, le cose non possono funzionare. In Alto Adige abbiamo moltissime opportunità, sia gratuite che a pagamento.
Verena Debiasi: Tu dicevi che l'apprendimento della lingua non riguarda solo la lingua in sé, ma anche la cultura, l'integrazione, la volontà di apertura; proseguivi dicendo che la scuola offre un buon percorso e un gran numero di ore di lezione, ma che dipende dalle singole famiglie, dalla loro apertura verso il bilinguismo e dal loro pensiero che il possesso della lingua tedesca possa essere speso sul mercato sudtirolese.
Roberta Ciola: Sì, io vedo famiglie dove i bambini, già alle elementari, cominciano a essere stufi del tedesco, chiedendosi se sono proprio costretti a impararlo. Questo significa che la lingua tedesca è vista come una materia scolastica, neanche tra le più motivanti; in secondo luogo la famiglia ha trasmesso questo messaggio al bambino, perché io non posso pensare che un bambino di prima o seconda elementare dia un valore di questo tipo a una materia. A meno che non abbia un insegnante di un certo tipo, perché spesso i bambini identificano la materia con l'insegnante. Io faccio riferimento all'insegnante che avevamo noi - parlando della classe di mia figlia - ed è una delle persone migliori che abbia mai incontrato, a livello di motivazione e di contenuti.
La questione è che probabilmente la famiglia, a un certo punto, ha detto: farai prima matematica e poi anche tedesco, tanto c'è tempo. Non so esattamente quali possano essere state le parole, ma il messaggio che è arrivato è questo. Se i bambini cominciano a pensarla così, si stacca il tedesco dal contesto culturale e poi è difficile inserirsi, perché significa che se al parco giochi incontrano il bambino che magari parla solo tedesco se ne vanno. Oppure l'altra ipotesi è che si formino gruppetti di bambini italiani o tedeschi che vicendevolmente si fanno i dispetti. Se ci sono gruppi di bambini che non si conoscono e che scoprono di avere qualcosa di diverso, può succedere che scattino situazioni simili. Ho osservato spesso queste dinamiche al parco giochi, mi sono chiesta le motivazioni per cui si verificano e ho pensato alla chiusura culturale da parte della famiglia. Io non so se si possano andare a cercare nel passato episodi di cattiva convivenza con persone dell'altra cultura, però la situazione è questa.
Verena Debiasi: Sul collegamento (o scollegamento) tra scuola e famiglia, e i rapporti extra scolastici, l'ispettore Mariani può dirci qualcosa, collegandosi anche alla sua maniera di intendere il bilinguismo in Alto Adige. Tra l'altro lui vede la questione da entrambe le parti, perché è stato insegnante d'italiano nella scuola tedesca, poi dirigente scolastico in una scuola italiana, e negli istituti comprensivi elementari e medie di Appiano. Poi ha diretto anche il Liceo classico "Carducci" a Bolzano e ora, da qualche mese, con soddisfazione di molti, sta svolgendo la funzione di ispettore di tedesco seconda lingua all'interno dell'intendenza scolastica tedesca.
Marco Mariani: La mia carriera scolastica mi aiuta un po' a inquadrare il problema, perché ho avuto la possibilità di prendere cognizione da più punti di vista. Volevo riallacciarmi a quanto detto dal collega professor Von Hartungen, prima, su questa diversità di percezione che c'è all'interno e all'esterno della provincia di Bolzano. Adesso, un osservatore esterno, ovviamente, rimane ammirato dalla situazione attuale che la nostra provincia è in grado di presentare, sotto tutti i profili: economico, scolastico, strutturale, dei servizi che vengono prestati, eccetera. Naturalmente, rispetto ad altri parametri magari nazionali, la nostra provincia offre un quadro sicuramente molto soddisfacente.
Questa soddisfazione e questa ammirazione portano con sé, come conseguenza, il fatto che si ritenga che le potenzialità presenti in provincia, soprattutto sotto il profilo linguistico, siano allo stesso modo soddisfacenti. Pertanto si cade nell'equivoco di ritenere che in Alto Adige i cittadini siano tutti bilingui. In realtà la potenzialità bilingue della provincia è riferibile esclusivamente al territorio, nel senso che lo stesso territorio ha potenzialità bilingue, le popolazioni conviventi hanno potenzialità bilingui, ma la bilinguità, ovviamente, è raggiunta soltanto a livello individuale, da certi individui che hanno avuto un percorso di vita o professionale particolare, per cui hanno avuto la possibilità di raggiungere questo livello di bilinguità. Come mai si è arrivati a questo? Per quale motivo la potenzialità bilingue o plurilingue della nostra provincia non ha prodotto una bilinguità militante, spendibile, praticata da una larga parte di popolazione? Secondo me perché nella costruzione dell'autonomia della provincia, prima di tutto, è stato preso in considerazione il tema della ricostruzione e dell'affermazione dei diritti fondamentali, che erano stati violati durante il ventennio fascista. Allora, nella ricostruzione di un assetto istituzionale all'interno della provincia, si è posto il focus proprio sull'affermazione dei diritti fondamentali, in primo luogo quello della restituzione dei diritti della propria identità popolare e linguistica.
Questo è il punto: l'istituzione provincia, nelle trattative con Roma, ha sempre posto il focus sulla restituzione dei diritti prima violati. Il primo fra tutti era quello dell'identità personale del gruppo tedesco e dell'uso della sua lingua, della lingua madre. Si doveva cioè costruire in Alto Adige un assetto istituzionale che garantisse ai cittadini l'uso della propria lingua. Il rapporto con la seconda lingua è sempre stato accessorio, ancillare, cioè la scuola italiana riconosce che esiste una seconda lingua tedesca e la scuola tedesca riconosce che c'è una lingua nazionale che i tedeschi devono conoscere. Tutto ciò però sotto il profilo istituzionale, cioè come somministrazione di un servizio, non per la costruzione del cittadino bilingue. Questo è il problema, allora, fino a oggi si è costruito il cittadino monolingue, il quale doveva riappropriarsi dei suoi diritti e si è realizzato un assetto istituzionale che garantisse la costruzione del cittadino monolingue.
Ovviamente riferendosi al cittadino di entrambi i gruppi, nel senso che il cittadino monolingue italiano non aveva diritti violati, ma il cittadino di lingua tedesca aveva diritto alla ricostruzione della propria identità linguistica e culturale. L'assetto istituzionale tende a questo, ora il problema è che, siccome i rapporti sono mutati, è nata una forte esigenza di bilinguità all'interno della cittadinanza locale. Adesso, secondo me, l'istituzione dovrebbe tendere a costruire un cittadino bilingue. Oggi noi abbiamo costatato, anche dall'indagine con l'IPSI, che i cittadini dell'Alto Adige vivono, in sostanza, in due macrocosmi linguistici separati. Oggi, francamente, non è necessario essere bilingue, questo si percepisce, perché le amministrazioni pubbliche forniscono il servizio bilingue, per cui ognuno si può rivolgere nella sua madrelingua all'istituzione e ottenere tutti i servizi che vuole. I macrocosmi allora sono separati, se anche l'istituzione serve i cittadini in due lingue. Il problema adesso è quello di passare dallo stato della garanzia monolinguistica e monoculturale, a quello che gli individui, indipendentemente dall'appartenenza a questo o quel gruppo linguistico, possano accedere a istituzioni bilingui. È necessario quindi che le istituzioni si facciano carico della necessità di costruire il cittadino bilingue, questo è quello che io mi sento di dire. Questo cambia moltissimo la situazione, perché oggi il bilinguismo è un approdo, un traguardo perseguito e raggiunto solo da coloro che hanno una forte motivazione individuale.
L'istituzione però non si preoccupa di costruire il cittadino bilingue. In soccorso adesso vengono i parametri europei, perché la cittadinanza europea presuppone che un cittadino europeo debba essere compiutamente un cittadino della macrostruttura europea e debba possedere, oltre alla propria lingua, almeno altre due lingue europee. Questo è quello che normalmente si dice intorno alla cittadinanza europea. Allora è chiaro che questo viene in nostro soccorso, nel senso che è evidente che, se un cittadino di questa provincia deve scegliere una delle due lingue da dominare per diventare cittadino europeo, oltre all'inglese che quasi certamente sceglierà - o forse una minoranza sceglierà il francese o lo spagnolo - sicuramente sarà l'italiano o il tedesco a seconda della sua appartenenza.
Questo ci conforta un po' per il futuro, nel senso che sarà la strada tracciata. Io direi che, se si sfruttano bene la situazione e la vocazione plurilinguistica della provincia, i cittadini avranno un vantaggio superiore a quelli di altre regioni europee, che magari sono monolingui, in cui c'è un monolinguismo territoriale, con una difficoltà superiore ad acquisire competenze e altri codici linguistici rispetto ai cittadini residenti in questa provincia.
Che cosa deve fare la scuola? Di solito alla scuola si chiede di fare tutto, perché naturalmente è l'istituzione che deve far quadrare il cerchio, fare i miracoli, costruire immediatamente il cittadino bilingue, sfornare alunni preparati in tutte le materie eccetera. Sappiamo che, di fatto, questo non avviene, la scuola fa quel che deve. Per quanto riguarda la seconda lingua, la scuola della nostra provincia ha le carte in regola, nel senso che mediamente un ragazzo che frequenta tredici anni di scolarità nelle scuole di questa provincia riceve un monte ore complessivo che varia dalle 1800 alle 1900 ore di seconda lingua. Il livello in uscita richiesto a un cittadino che si diploma nelle nostre scuole è quello corrispondente al B2, cioè il livello di progresso, quello che garantisce la comunicazione sotto il profilo dell'interazione attiva con parlanti di altra lingua. Trattasi dunque di un livello più che soddisfacente.
Per questo livello, secondo i parametri europei, si richiedono 1200 ore, quindi i nostri sono largamente al di sopra, per cui io devo dire che, sotto il profilo meramente curricolare, la scuola fa il suo dovere. Parlare di potenziamento non ha molto senso, perché non è proprio il caso di costringere gli alunni a studiare anche di notte. Allora, dove si può agire? Ovviamente non sul piano scolastico, bensì su quello extra scolastico. In quest'ultima dimensione devono essere investite energie, secondo me, perché l'istituzione deve farsi carico della costruzione di occasioni tali per cui, nell'extra scolastico, quindi in tutto l'ambiente della vita quotidiana delle persone, si creano quelle occasioni che favoriscono l'interazione, cioè l'incontro. Questo è il punto, allora si ha la certezza che nasca una forma di bilinguità diffusa, altrimenti non funziona.
Che altro aggiungere? Tra le altre cose alle quali si dovrebbe porre rimedio, c'è il problema dell'educazione in famiglia, che è uno dei grandi fattori d'influenza che condizionano l'atteggiamento dei bambini. L'educazione in famiglia, quindi l'orientamento - come giustamente diceva la collega che ha parlato prima di me - della famiglia è condizionante per un bambino. Quest'ultimo non è in grado di elaborare un atteggiamento personale, individuale e originale da spendere nei confronti della cultura diversa dalla sua, o della lingua diversa dalla sua. Il bambino percepisce in famiglia un clima di orientamento favorevole o sfavorevole all'apprendimento, dall'educazione e dall'esempio che i genitori gli danno.
Questa è la sostanza dei fatti, allora come agire sulla famiglia? È una cosa un po' difficile da fare, perché non è che si possa dire ai genitori che cosa devono insegnare ai propri figli. I genitori insegnano, in termini molto liberi, ai propri figli - anzi, certe volte non se ne danno neanche cura - quello che ritengono giusto e i figli crescono secondo il modello che dà loro la famiglia. Secondo me bisognerebbe educare i genitori, cioè far capire loro che un'educazione favorevole all'acquisizione di uno standard bilingue è utile per il loro figlio. Io dico che una grande parte potrebbe essere svolta da chi informa le famiglie, da chi diffonde le notizie. In primo luogo dai politici, che hanno creato danni enormi a questa provincia con affermazioni molto spesso poco meditate, oppure interessate per parte politica, perché il nazionalismo è una molla eccezionale per i successi politici, in una zona con un passato conflittuale come questa. Continuare a spingere sullo stesso tasto può portare anche a dei successi, questo lo vediamo anche negli ultimi tempi. I politici dovrebbero usare, secondo me, un modo molto più rispettoso nei confronti dei rapporti fra gruppi, di quello che stanno utilizzando adesso, con le loro affermazioni a volte un po' troppo ardite e poco meditate.
Un'altra fonte d'informazione utilissima potrebbe essere quella dei giornali, che a loro volta hanno creato dei disastri. Ogni volta che trattano un tema di carattere etnico o che riguarda il bilinguismo, sono sempre propensi a spingere l'acceleratore sul parossismo sociale, sull'ansietà sociale, sull'allarmismo. In questo settore l'allarmismo non è un buon terreno, perché lascia macerie dietro di sé, dunque non è un modo con cui diffondere le notizie attraverso la stampa o i mezzi di comunicazione, perché questo crea ansietà sociale, che non è utile all'apprendimento.
Se già queste due fonti dell'informazione, cioè quella politica e quella dei media, fossero più rispettose nel trattare gli argomenti delicati dei rapporti tra gruppi linguistici, tra culture diverse, forse avremmo la possibilità che le famiglie ne fossero influenzate in termini positivi rispetto a quanto avviene ora. Poi, soprattutto, bisognerebbe sgonfiare l'ansia che si è creata attorno a questo bilinguismo, dunque il patentino non deve più essere visto come una minaccia, per cui non si troverà lavoro se… Bisogna vederlo come una possibilità in termini positivi: se lo acquisisco, troverò lavoro. È la stessa identica cosa, ma fa vedere la situazione in termini positivi, perché si valorizza l'acquisizione di una cultura e di una lingua, in termini di vantaggio personale e non come costrizione. Secondo me andrebbero ribaltate le categorie mentali attraverso le quali oggi si affronta questo tema. Qui, naturalmente, uno dei ruoli fondamentali è quello della divulgazione pubblica, perché chi ha in mano le fonti dell'informazione e della divulgazione ha anche la possibilità di creare un clima diverso. È proprio questo clima diverso, secondo me, che potrebbe aiutare.
Verena Debiasi: a questo punto vorrei passare la parola a Isabella Tessari, insegnante, che forse ci potrà parlare di questa costruzione del cittadino bilingue, compito che non è ancora stato percepito dall'istituzione, ma che, per una cittadinanza europea, potrebbe influenzare positivamente la nostra provincia e, nello specifico, anche la nostra scuola. Hai notato dei cambiamenti all'interno dell'istituzione scolastica negli ultimi vent'anni, cioè dagli anni '90 ad oggi? Oppure ci sono stati dei cambiamenti da parte delle famiglie, come diceva l'ispettore Mariani?
Isabella Tessari: Ho ascoltato gli interventi di chi mi ha preceduto e mi sono fatta un po' di domande, come insegnante con più di vent'anni di esperienza. Insegno da sempre alla scuola media, con l'eccezione di un anno alle scuole superiori, nella zona della Bassa Atesina, quindi ho capito di poter fruire di un vantaggio l'anno in cui ho insegnato a Bolzano, in una scuola superiore, avevo tre prime classi formate da alunni molto meno competenti - in prima superiore - dei bambini di prima media che frequentano le scuole di Egna e di Salorno. Mi sono chiesta se fosse possibile che ragazzi di prima superiore non capissero quello che stavo dicendo, io che ero (e sono) abituata a non parlare mai in italiano.
La signora Ciola prima parlava di attese dei genitori, che fanno di tutto, a volte anche troppo e male, per agevolare il bilinguismo; lei parlava prima di genitori di madrelingua italiana che cercano di parlare in tedesco per dare più possibilità ai propri figli. Questa è una scelta che io vedo mettere in atto anche in Bassa Atesina. Mi sono posta veramente il problema se ci sia un'ansia di base che rovina tutto. Un'ansia che però - esattamente come la signora Ciola - io vedo come contraddittoria: ci sono bambini che, al parco giochi, creano già dei muri, probabilmente perché i genitori non desiderano che vengano a contatto con un altro gruppo linguistico, oppure non vogliono che ciò avvenga in quel modo. Noto però anche un altro tipo di ansia, che è ugualmente pericoloso, con i genitori che dicono la famosa frase: "Se non impari il tedesco, se non studi il tedesco non troverai lavoro, non potrai mai inserirti negli ambienti di lavoro".
Io credo che questa sia l'ansia più pericolosa, in quanto, dal punto di vista della motivazione, crea esattamente l'effetto contrario, quello della demotivazione negli alunni e nei ragazzi. Mi permetto di affermare che quest'ansia è molto più forte, purtroppo, nei genitori con un più alto grado d'istruzione. Io, purtroppo, vedo che è così in Bassa Atesina, dove siamo a un livello culturale sicuramente inferiore a quello cittadino, questo è un dato di fatto, perché in classe ci sono bambini provenienti da diversi ambienti, figli di contadini, di muratori e di ingegneri.
Le attese dei genitori sono bassissime, i bambini parlano il tedesco in modo naturale, spontaneo, chi meglio e chi meno bene, ovviamente. Arrivano da me alla scuola media che sono in grado di comprendere quello che dico loro, io posso tranquillamente parlare e scrivere con loro, addirittura discutere con loro, sempre e soltanto in tedesco. È chiaro, non sono del tutto corretti, non posso pretendere alla scuola media che siano anche corretti. Io mi sono posta la domanda: chi, tra questi miei alunni, diverrà veramente bilingue? Infatti per la mia concezione di bilinguismo non lo sono ancora.
È una domanda che mi faccio anche come madre, io sono cresciuta in un ambiente bilingue, ho fatto un percorso scolastico bilingue, mia figlia lo stesso, ma i miei alunni no. Loro, molto spesso, provengono da ambienti monolingui, anche se sta aumentando il numero di chi proviene da ambienti bilingui. Io noto che chi di loro vive la lingua, l'educazione linguistica in modo naturale, ha più successo. Sono gli stessi che io incontro quando frequentano l'università, ma anche il liceo e con i quali posso tranquillamente parlare in tedesco. Mi stupisco di quanto male lo parlassero con me alla scuola media e di quanto bene lo parlino poi da grandi. In qualche modo dunque un percorso scolastico normale, con un contatto naturale, senza ansie e senza demotivazioni pervenute dalla famiglia, li ha resi proprio aperti da questo punto di vista.
Poi io vedo veramente genitori, specialmente in città, che hanno delle aspettative terribili, che scelgono la scuola soltanto valutando chi, al suo interno, insegna tedesco. Non importa chi insegna matematica, storia, o addirittura italiano, che sarebbe la lingua madre di questi ragazzi, no, scelgono la scuola in base agli insegnanti di tedesco. Sono rimasta di stucco: insegnanti mie colleghe, amiche, quindi persone di una certa formazione culturale, che insegnano lingua, che hanno scelto la scuola su queste basi. I loro ragazzi non sono assolutamente in grado di apprendere il tedesco, perché c'è un'ansia, una pressione continua da parte dei genitori, che credono che l'essere bilingui sia necessario per avere un buon lavoro, per non morire di fame. È chiaro poi che in Alto Adige molti di noi sono bilingui perché ci sono molte famiglie mistilingue, che sono una grande risorsa, ma, purtroppo, non hanno avuto ancora il diritto di avere delle scuole adeguate alle loro esigenze. Io stessa, come mamma, non ho potuto scegliere un percorso che permettesse a mia figlia di essere una bilingue equilibrata. Mia figlia, come me del resto, secondo l'età, in certi momenti era più forte in una lingua, in altri nell'altra. Io vedo anche me stessa, in certi ambiti per me è più forte il tedesco, in altri invece no. Ad esempio un certo ambito è stato da me vissuto in modo italiano, secondo l'età che avevo e delle esperienze che stavo facendo in quel momento. Famiglia, ambiente, sport: un bambino che ad Ora, Egna, dove vivo io, vuole fare sport, lo fa in lingua tedesca, quindi è chiaro che in quell'ambiente imparerà soprattutto - anche se sarà il dialetto, ma ben venga, per carità - il tedesco. I fattori sono veramente tanti, un numero talmente elevato da portare al bilinguismo, bisogna però sempre vedere se intendiamo il bilinguismo equilibrato, in cui per forza ci sia una lingua più forte dell'altra, oppure ambiti diversi secondo la lingua nel momento in cui si vive quest'ambito. Io credo che potrebbe essere facilissimo diventare bilingui, ma anche difficilissimo, questo è il mio questo parere.
Verena Debiasi: Parere conclusivo, a quanto sembra! Chiedo a Fabio Bonafè di esprimere un punto di vista, da Merano, sulla bassa Atesina o su quanto è stato detto fino ad ora dai genitori, dagli insegnanti, dagli ispettori, sull'apprendimento bilingue.
Fabio Bonafè: Penso che su quest'argomento ci sono veramente tantissime cose da dire, sono usciti anche ultimamente ottimi libri, ad esempio "La lingua degli altri" di Siegfried Baur, Giorgio Mezzalira e Walter Pichler, una ricerca storica molto interessante. Io cercherei, sostanzialmente, di distinguere tre elementi, innanzitutto sul bilinguismo come percorso personale, dicendo alcune cose, brevemente. Poi, ricollegandomi a quanto detto dall'ispettore Mariani, vorrei soffermarmi sull'aspetto politico.
Per prima cosa io devo dire che insegno italiano lingua 2, in una scuola di lingua tedesca, questo è il mio lavoro dal secondo o terzo anno nel quale ho cominciato ad insegnare. Ho insegnato prima presso il liceo classico italiano di Merano, un'esperienza molto carina, in una quinta ginnasio. Mi sono laureato in filosofia, non ho mai studiato tedesco, a scuola ho studiato francese, una volta si studiava la lingua straniera gli ultimi due anni della scuola media e nei primi due anni della scuola superiore.
Quando sono venuto qui per ragioni personali, di lavoro, affettive, ho studiato in una settimana il tedesco, che mi è servito per fare un colloquio e per entrare nelle graduatorie degli insegnanti di seconda lingua, italiano. In una settimana, come ripeto, e i commissari mi hanno guardato come se fossi un marziano: sicuramente lo ero, ma in quel momento avevano bisogno d'insegnanti. La selezione che mi ha riguardato, dal punto di vista linguistico, è stata molto agevole, perché sicuramente il mio tedesco non era adeguato. Io sono uno di quegli altoatesini che per anni hanno inseguito il bilinguismo, anche se insegno in una scuola di lingua tedesca, nel senso che io possiedo un relativo bilinguismo passivo, ma parlo in tedesco solo dei momenti nei quali credo che la persona che dialoga con me abbia più difficoltà nell'italiano di quanto ne abbia nel tedesco.
Dico questo perché quello del bilinguismo è un concetto da disinnescare, da trasformare in parte; per esempio, sicuramente, dobbiamo andare verso una dimensione che parli di plurilinguismo, di multilinguismo. Io, come insegnante, possiedo un bilinguismo che sicuramente è inferiore a quello delle donne delle pulizie della mia scuola, questa è una cosa interessante. Infatti io sono focalizzato sull'insegnamento e ho strutturato la personalità che serve nell'insegnamento dell'italiano, nella correzione degli errori degli altri. Io sono andato anche a insegnare all'estero, ho fatto un concorso ed ho insegnato all'Università di Olomouc, in Moravia. L'ho fatto perché possedevo il tedesco, ho fatto un concorso, si trattava di una zona linguistica mista, ci si poteva andare conoscendo l'inglese e il tedesco. Ho fatto il concorso e gli insegnanti che conoscevano il tedesco - i partecipanti a questo concorso erano 1600 - erano molto pochi, siamo rimasti in 300 agli esami orali. Ho fatto un piccolo colloquio in tedesco, che è stato approvato e mi sono recato a insegnare nella Repubblica Ceca. In quello Stato le persone più anziane parlano tedesco, mentre i più giovani parlano inglese. Era necessario imparare il ceco, che è una lingua difficilissima, molto più difficile del russo, anche se si scrive nell'alfabeto latino e non in cirillico, ma è una lingua strana, perché è stata riscoperta a metà dell'800. Io ho imparato, grazie a dei corsi, il ceco e quando venivano a trovarmi delle persone, quando mi recavo a fare la spesa o a comprare altro, tutti mi guardavano come se fossi stato un marziano, perché pensavano che avessi una buona competenza del ceco. In realtà la mia competenza era inferiore a quella di un conoscente italiano pugliese che era venuto a Praga ad avviare un commercio di cristalli. Lui, grazie alla sua attività, era immerso tra le persone che parlavano il ceco e, non conoscendo particolarmente l'inglese, ha dovuto imparare rapidamente la lingua locale.
Rilevo questi vantaggi di persone che non sono culturalmente laureate, perché spesso l'aspetto culturale crea una stortura rispetto all'apprendimento della lingua. Ad esempio a me piacciono le lingue con il sistema grammaticale, sintattico, lessicale, ma sono poco portato a utilizzarle. È una questione semplicemente personale. Io sono stato sette anni all'estero, quattro anni nella Repubblica Ceca e poi per tre anni ho insegnato a Innsbruck, teoricamente dunque possiedo un tedesco che mi permette di sopravvivere in un ambiente altro parlante. Devo subito rilevare però che se io fossi stato trent'anni a Innsbruck il mio tedesco sarebbe ottimo, io oggi scriverei tranquillamente in tedesco. Che cosa vuol dire questo? Che di fatto ci sono situazioni locali che da una parte favoriscono e dall'altra creano degli handicap.
Una di queste è inevitabilmente il fatto che c'è un tedesco standard e un tedesco dialetto, per cui, anche nel momento in cui noi immaginiamo delle possibilità di incontro, le cose non sono pacifiche, non sono semplici. Ragazzi che s'incontrano tra loro useranno registri linguistici diversi, anche se cercano di utilizzare la stessa lingua, il tedesco. Quindi esiste una difficoltà supplementare, da questo punto di vista, la situazione non è facilmente risolvibile.
Vorrei tornare un momento sull'aspetto personale: 20 anni fa il tema del bilinguismo, a livello di società del Sudtirolo, era innestato ad una riflessione che riguardava il modo di vivere, l'interetnicità. Tutte le famiglie erano in qualche modo coinvolte da una sensazione positiva rispetto all'incontro con gli altri, anche se esistevano entità politiche che negavano l'incontro. L'assessore provinciale Anton Zelger era piuttosto convinto che tenersi separati fosse vantaggioso. Diciamo però che il bilinguismo è un elemento personale, storico, perché è il modo in cui noi lo percepiamo; è un elemento naturale, infatti chi mi ha preceduto ha sottolineato questo aspetto, ma è anche un elemento estremamente relativo, ancora di più del prodotto interno lordo! Nel senso che quest'ultimo ci dice qual è la ricchezza in termini materiali secondo certi parametri stabiliti, ma il bilinguismo ha una relatività ancora più articolata.
Ho insegnato per venti anni in un liceo scientifico a Merano e sicuramente in quel periodo il livello dei miei studenti era apprezzabile. Non sto parlando solamente del livello di bilinguismo, ma anche dell'interesse nei confronti della seconda lingua; provenivano da un ambiente familiare nel quale si era interessati all'apprendimento dell'altra lingua, non soltanto in termini strettamente strumentali, cioè nell'ottica lavorativa, ma anche in termini più ampi, culturali. C'era molto rapporto con l'Italia, le persone andavano al mare in Italia, conoscevano ed erano state a Firenze, desideravano visitare i monumenti di Roma. Poi ho avuto un anno molto breve in una scuola tecnica a Bolzano, scherzo sempre su questo: all'ingresso c'era scritto "Qui non importa studiare". Io scherzo, ma la percezione della motivazione allo studio era enormemente più bassa rispetto al liceo scientifico.
Questo significa che quello che le famiglie si aspettavano dagli studenti era che prendessero un pezzo di carta e poi entrassero nel mondo del lavoro. Ho avuto una parentesi di sette anni all'estero e adesso insegno in un istituto per geometri, l'unico della provincia, dunque da tutto il territorio provinciale arrivano studenti che provengono da famiglie che abitano in piccoli paesi, nei masi ecc. L'interesse per la seconda lingua è relativamente buono dal punto di vista strumentale, scarsissimo, direi quasi che rasenta lo zero, dal punto di vista dell'interesse per i rapporti con gli altri. Dietro ci sono famiglie meno attrezzate, spesso, per sostenere l'apprendimento della seconda lingua, meno motivanti dal punto di vista culturale. La maggioranza dei miei studenti, se non vengono portati da noi con una gita scolastica, non visiteranno mai Verona, mentre conosceranno Affi perché c'è un centro commerciale. Questo significa che, in realtà, dopo una parentesi di sette anni all'estero l'atteggiamento nei confronti della scuola è assolutamente diverso, è molto più basso, c'è meno serietà, anche se nella scuola tedesca ce n'è sempre abbastanza, diciamo così. La scuola, per molti studenti, rimane l'ultimo posto dove ci si deve sforzare, quindi un grattacapo. Questo è un problema, perché spesso è visto come tale anche dai genitori, ovviamente, che non vedono l'ora che lo studente finisca questi cinque anni di scuola superiore, entri nel mondo del lavoro e diventi autonomo. Voglio aggiungere che effettivamente uno dei punti più importanti è l'ansietà, questo è il motivo per cui io dico che il concetto di bilinguismo non può essere uguale per un cittadino italiano a Bolzano, per un cittadino italiano di madrelingua italiana a Merano, oppure nella bassa Atesina. Ci sono dimensioni di bilinguismo importanti e diverse.
Chiudo quest'aspetto personale dicendo che io ho due figli, che hanno fatto la scuola italiana a Merano - adesso sono ultratrentenni, sono entrati nel mondo del lavoro - e hanno avuto un curriculum abbastanza normale. Entrambi hanno tratto un enorme beneficio dal fatto di avere studiato un tedesco normale nella scuola che hanno frequentato. Entrambi però si trovano fuori dalla provincia di Bolzano e il loro tedesco viene speso nei rapporti con la Germania e con l'Austria da punti di vista diversi, scientifici e commerciali. Naturalmente, in quest'ottica, sono avvantaggiati rispetto a coloro che si trovano attorno, ai loro colleghi che non hanno avuto l'insegnamento del tedesco, che noi riteniamo magari inadeguato e insufficiente per la nostra provincia, ma che permette loro di andare a Berlino o a Monaco e di trattare con chiunque. Devo aggiungere che possiedono anche una buona base d'inglese, che permette loro di entrare a contatto con cittadini francesi, olandesi, eccetera. Questo per dire che, in fondo, lo strumento scolastico è buono.
Vorrei prendere in considerazione anche l'aspetto politico, che non può essere limitato ai responsabili politici, non esistono soltanto la Landesregion, il Landes hauptmann o il Landtag, l'atteggiamento politico riguarda tutte le persone. Io ripeto ogni tanto ai miei studenti: tu puoi dire che non ti interessi di politica, sappi però che la politica si interessa di te. Questo è importante, c'è un problema di educazione alla partecipazione che si è aggravato negli ultimi vent'anni, sicuramente. Non parlo di politica in senso stretto, però c'è un'istituzione che ha un enorme ruolo sociale, culturale e politico ed è la Chiesa cattolica. È strabiliante se noi pensiamo che la Chiesa cattolica, in sessanta anni di dopoguerra, non ha prodotto forme apprezzabili di convivenza e di bilinguismo. Non sto rivolgendo una critica alla Chiesa, ci sono delle ragioni per cui questo è avvenuto, sono il primo a riconoscerlo. Certo però che si tratta di un'entità che sarebbe votata all'incontro tra le persone, all'interesse per gli altri, direi proprio a livello istituzionale, mentre un partito come la Volkspartei rappresenta istituzionalmente l'elettorato di lingua tedesca, così come scritto nel suo statuto, quindi può avere interessi divergenti rispetto a un'altra parte della popolazione.
La Chiesa cattolica invece non ha questo compito, è all'opposto! Allora, sicuramente noi possiamo riconoscerle sforzi e impegni, però mi chiedo quanto ancora sarebbe possibile fare e non è fatto. Io non credo che non sia fatto solo per caso, perché non c'è la sensibilità e ci deve essere qualche ragione in più. Io credo che, da questo punto di vista, potremmo dire che probabilmente esistono delle ragioni politiche. Non stiamo parlando solamente dell'aspetto istituzionale, o addirittura degli organi elettivi, perché ci sono degli aspetti politici che noi respiriamo tutti i giorni. Prima si parlava dei giornali, ai quali potremmo anche aggiungere le televisioni naturalmente, ma c'era un giornale, l'Alto Adige, che per anni ha avuto una pagina in lingua tedesca. Niente? Non è vero, era un segnale, anche se lo faceva per ragioni credo strettamente economiche: in realtà ospitando anche una pagina in lingua tedesca o due il giornale aveva diritto ad un finanziamento supplementare.
Per me è una perdita, perché la percezione della bilinguità, dell'interculturalità deve essere ripetuta ogni giorno per tutte le generazioni, questo è un elemento importante. Ecco perché il bilinguismo è anche un aspetto - torno un attimo indietro - storico: la percezione del bilinguismo è diversa, oggi, per questa generazione che deve farci i conti, rispetto alla generazione dei miei figli e a quella dei genitori. Ecco, c'è un elemento storico, non ci si può dimenticare di questo.
È molto interessante davvero il tentativo di analisi operato dall'ispettore Mariani: certo, lo Statuto di autonomia è stato percepito moltissimo dall'opinione pubblica italiana in questi termini, perché ha restituito qualcosa che il gruppo linguistico tedesco si era visto togliere. Non dimentichiamoci di questo, pensiamo ad esempio alle scuole di lingua tedesca, alla formazione degli insegnanti, quindi si tratta proprio di una restituzione. Ora, è molto importante invece che in questo momento si approfondiscano gli aspetti, gli input politici positivi per dire: va bene, adesso facciamo un passo avanti, non un passo indietro. Invece si annuncia quotidianamente, in tante espressioni politiche, proprio un passo indietro. Bisogna fare un passo avanti - poi forse sarà possibile riprendere questo discorso - perché effettivamente ci sono degli ambiti nei quali è necessaria una svolta, dal punto di vista politico. Mi ricorderò sempre Silvius Magnago, che diceva: "Se per garantire l'autonomia dell'Alto Adige avessimo bisogno di avere un elicottero per ogni sudtirolese, ebbene, noi cercheremo le risorse per avere un elicottero per ogni sudtirolese". È un'espressione bellissima, dobbiamo renderla in altri termini. Se ci fosse bisogno di avere un elicottero per rendere i cittadini dell'Alto Adige bilingui, interculturali, pienamente cittadini di questo territorio, la politica deve prevedere un elicottero per ognuno di noi, proprio perché deve diventare una priorità. Chiudo dicendo che sicuramente chi si trova più in difficoltà oggi sono i cittadini italiani che abitano a Bolzano, che sono svantaggiati, parlo di una fascia che frequenta scuole come l'istituto tecnico o professionale, sono cittadini maschi, tra l'altro. Ci sono poi cittadini sudtirolesi che abitano nei paesi dove non c'è una presenza significativa di persone di madrelingua italiana, spesso non ci sono neanche professioni e momenti lavorativi che portino a rapporti significativi. Ebbene, se io penso agli interventi che dovrebbero essere fatti per sollecitare una maggiore consapevolezza della necessità del bilinguismo, anche dal punto di vista della convivenza, della capacità di costruire in questa terra quello che potrebbe essere a livello europeo ed internazionale, credo che ci voglia uno sforzo congiunto, ci vogliono anche degli assessorati che si occupino di cultura e di scuola, parlo di sforzo congiunto, perché non può essere fatto solo a titolo individuale, non ci può essere una politica scolastica, culturale, isolata. Sì, certo, bisogna operare su esigenze diverse, con strumenti diversi, ma con lo stesso animo di creare una realtà nuova forte, sul piano culturale.
Verena Debiasi: provo a dire qualcosa anch'io. . Parto dalla mia esperienza personale: io, come del resto anche Isabella e Roberta hanno sottolineato prima di me, sono cresciuta fuori Bolzano, in periferia, a Vipiteno, in una famiglia bilingue non perché in famiglia, come spesso adesso sentiamo e si usa, la mamma parlare in tedesco e il papà in italiano.
Noi, in famiglia, parlavamo il dialetto tedesco, i parenti che vivono nelle vicinanze sono tutti tedeschi - Aukenthaler, più tedeschi di così! - mentre mia madre, unica fra tutti, ha deciso, senza chiedere niente a nessuno, di sposare un italiano a Vipiteno. Mio papà - lo chiamo volutamente così - ha compiuto ottanta anni e non conosco un sudtirolese più duro di mio padre, che è legato a questa terra, addirittura a Vipiteno, più di chiunque altro io conosca da vicino, anche se lui è di origine trentina. Noi in famiglia parlavamo il dialetto tedesco, però io credo che quello che mi ha portato a diventare bilingue sia stato qualcos'altro. Io non ho imparato a parlare italiano da mio padre, ma dall'ambiente di apertura verso le due lingue che esisteva nella mia famiglia, che mi è stato trasmesso dei miei genitori, forse soprattutto da mia madre, ma sicuramente mi ha aiutato anche l'atteggiamento di mio padre.
Le due lingue sono sempre state considerate di uguale valore e questa è una cosa che ho approfondito. Infatti, studiando e occupandomi di bilinguismo, ho notato che, se dalla famiglia o dall'ambiente familiare allargato viene fuori qualche valutazione negativa nei confronti di una delle due lingue presenti sul nostro territorio, che possono essere presenti all'interno di una famiglia, anche da genitori di lingua diversa possono nascere figli che si chiudono nei confronti di una delle due lingue. Purtroppo è possibile che, nel periodo dell'infanzia in famiglia, i figli abbiano percepito una valutazione negativa nei confronti di una delle due lingue. Questo è un problema che nessuna istituzione, neanche la scuola, riesce più a risolvere. A me, come insegnante di tedesco seconda lingua a Vipiteno, è successo due volte nella mia carriera di accorgermi che un bambino aveva la mamma tedesca alla prima udienza, perché questo bambino si rifiutava più di tutti gli altri di parlare in tedesco e di fare qualcosa in tedesco. Solo al momento dell'udienza mi sono accorta che la mamma era di lingua tedesca, perché lei mi parlava in tedesco, a quel punto le ho chiesto come fosse possibile una cosa del genere: ma come, suo figlio non sa il tedesco e lei, la mamma, Muttersprache? La mia unica spiegazione è stata quella che basta un accenno da parte del padre, che magari non ha l'apertura necessaria nei confronti del bilinguismo, che non vuole che in casa si parli tedesco perché lui non lo capisce, che decide che quando lui è presente si parli solo italiano. Tutti questi comportamenti possono modificare l'apprendimento delle lingue, che invece dovrebbe essere naturale.
Forse ho imparato la lingua italiana all'asilo, perché mi hanno mandato all'asilo italiano, non con l'intento di farmi imparare la lingua, ma per una scelta di apertura. La mia mamma voleva che noi crescessimo in questo modo. Io, lo dico sinceramente, ho il dubbio che i miei genitori mi abbia mandato all'asilo italiano perché c'era una brava cuoca! Infatti, invece di mangiare piatti tipici della cucina tedesca lì si mangiavano pasta e fagioli, lasagne e altre leccornie. Io, dell'asilo, mi ricordo soprattutto quello, però ho imparato l'italiano senza accorgermi di niente.
Io penso che l'apprendimento delle due lingue non sia compito esclusivo della scuola, così com'è stato già detto da tutti quelli che mi hanno preceduto, - Isabella l'ha rilevato prima - io sono convinta che il compito primario della scuola non sia quello di far uscire ragazzi perfettamente bilingui o con una grande competenza nella seconda lingua, bensì quello di non bloccare un apprendimento life and learning rispetto alle lingue in genere. Fabio, un passo del tuo intervento mi è piaciuto moltissimo, quando dicevi che era necessario uscire dalla scuola con la voglia di continuare a imparare, con un'apertura, con un atteggiamento di curiosità, di sicurezza del proprio essere e della propria identità. Tutto questo permette a ognuno di entrare ad esempio in una biblioteca tedesca, di andare a una conferenza o a una rappresentazione teatrale in lingua tedesca, di seguire un film in lingua tedesca. Infatti, dopo questi eventi nessuno è interrogato e anche se non si è capito tutto, anzi, se si è capito solo a metà, oppure addirittura se non si è capito nulla, si è cercato di farlo, di entrare e continuare. Solo questo è il modo giusto per continuare a imparare.
Qui voglio rilevare la particolarità del dialetto tedesco, che percepito sempre come un problema, invece è una ricchezza: ad esempio sedermi attorno ad un tavolo con gente che parla in tedesco e divertirmi del fatto che io ho imparato il tedesco a scuola in un certo modo, mentre qui parlano in dialetto! La curiosità di scoprire tutto questo, perché nessuno pretende da me, italiana, di parlare il dialetto tedesco, ma io ho passato il fine settimana nel trevigiano e tutti, con me che vengo da Vipiteno, parlavano un italiano molto standard. Ogni tanto però capitava che quando parlavano tra loro diventava addirittura veneto. Io non ho molte occasioni di sentir parlare il dialetto italiano, però, quando capita, io mi sento accettata se davanti a me parlano in dialetto. Il dialetto sudtirolese spesso è percepito e interpretato come una lingua, un linguaggio di chiusura e di esclusione. Noi sudtirolesi tedeschi tra noi parliamo in dialetto per darci un'identità ed escludere anche l'italiano sudtirolese che è lì vicino; questa forse è la percezione di chi ci vede da fuori, però se non viene più percepito così è vissuto con maggiore leggerezza. In caso contrario sarebbe veramente un problema. Ci sono anche diversi piccoli progetti nelle scuole, soprattutto nelle scuole elementari italiane, mi raccontava una collega che insegna fuori Bolzano. Purtroppo gli esperimenti sono sempre organizzati più volentieri fuori dalla città. Si fa ascoltare ai propri alunni, anche in seconda elementare, dei cd, dove s'intervallano il ladino, il dialetto, il tedesco e altre lingue. È un gioco, dove i ragazzi devono indovinare quale lingua stanno ascoltando. I bambini sono contentissimi e si divertono molto, perché indovinano: questo è ladino, questo è dialetto, questo è tedesco. A me sembra un ottimo approccio ludico, nel senso profondo della parola, che toglie la paura e l'ansia da questo incontro con altre lingue.
Io mi fermo qui, finisco dicendo semplicemente che tra tutto quello che può fare la scuola c'è sicuramente l'impegno a togliere la paura e l'ansia verso l'apprendimento dell'altra lingua, dando un insegnamento di qualità nella seconda lingua. Sicuramente noi viviamo, in Alto Adige, in una società che possiamo definire Bancomat, ancora oggi, dove una persona nasce, schiaccia il bottone tedesco o quello italiano e poi può seguire un percorso monolingue istituzionalizzato fino alla fine della scuola superiore. Poi noi abbiamo un'università bilingue, ma anche se un ragazzo va a studiare scienze dell'educazione, il monolinguismo, il percorso monolingue, purtroppo rimane.
Le istituzioni non sono ancora adatte a una costruzione del cittadino bilingue citato dal signor Mariani e sono d'accordo - per averlo vissuto in prima persona e per vederlo spesso ancora adesso - che chi vuole diventare bilingue deve cercare le occasioni per poterlo fare. Sto parlando di occasioni presenti all'interno della scuola, di progetti d'incontro, di gemellaggi, di scambi tra la scuola tedesca e la scuola italiana che rappresentano una fatica in più. Capita che siano sostenuti dall'insegnante di L2 ma non dalla scuola in toto e a volte neanche delle altre istituzioni scolastiche, quindi diventano molto faticosi. Si può uscire dalla scuola e andare in una Musikschule tedesca, oppure in una scuola musicale italiana, tutto esiste doppio. Se voglio diventare bilingue devo proprio cercare queste occasioni e sfruttarle.
Termino citando l'esempio della Chiesa, che fino ad ora non ha dato esempio di bilinguità e di convivenza: io proprio non sto vedendo sforzi in questo senso, non solo perché frequento poco le chiese. Vedo esempi di questo genere nei centri minori come Vipiteno. Ho due nipoti della stessa età, uno sta crescendo in lingua italiana, nelle scuole italiane e nella parrocchia italiana, l'altra è cresciuta nella scuola tedesca. Avendo la stessa età, hanno fatto la comunione nello stesso anno e nello stesso giorno, alle nove mia nipote presso la chiesa parrocchiale, alle 10. 30 mio nipote maschio presso la chiesa Santa Margherita, che dista 1 km dalla chiesa parrocchiale. La mia mamma, che è la nonna di entrambi, ha dovuto correre affannosamente da una chiesa all'altra perché non si è fatta un'unica celebrazione per i cinquanta bambini di una parrocchia e i dodici dell'altra.
Procediamo ora con le repliche
Christoph Hartung von Hartungen: Posso iniziare io. La questione è quella delle motivazioni, tutti sappiamo che c'è un monte ore enorme, che va oltre quanto previsto dalle indicazioni europee. Quasi tutti noi abbiamo avuto l'esperienza che ci porta a dire che chi è motivato riesce a imparare l'italiano o il tedesco con molte meno ore, con meno scolarizzazione riesce a superare queste difficoltà. In questo senso mi riferisco ai cosiddetti cittadini non europei, o extracomunitari, che vengono qua e sono ultramotivati, forse perché vedono nella scuola una possibilità di promozione sociale.
Ci sono esempi di cinesi, soprattutto, di albanesi o di kosovari, miei alunni, arrivati qua con pochissime, quasi nessuna competenza in ambedue le lingue, che poi riescono, terminato il percorso scolastico - dove si sono introdotti non nella prima classe elementare, molto più avanti - a essere quello che noi auspicheremmo fossero anche i nostri alunni soprattutto delle scuole secondarie. Forse non è colpa della scuola se non si riesce a raggiungere i risultati sperati. Pare che i politici se ne siano resi conto. Ho sentito il presidente Durnwalder dire che anche le famiglie devono impegnarsi, che se questo non avviene è inutile investire sempre più nei metodi e negli strumenti didattici delle scuole.
Il problema, qui vedo una connotazione culturale, che non è chic nel mondo tedesco imparare l'italiano, è molto più chic imparare l'inglese. Conosco troppo poco la scuola italiana, ma forse lo stesso discorso vale anche per le scuole in lingua italiana. Se è così, in effetti, forse abbiamo perso una battaglia, perché venti o trent'anni fa era molto più sentito il bisogno di imparare la seconda lingua, forse perché era più esotica, non so come dire.
Adesso ci siamo abituati a vivere - non a convivere - accanto in questa provincia senza grandi motivazioni e senza grandi entusiasmi. Nel mondo tedesco si guarda soprattutto la tv estera, si leggono giornali tedeschi d'interesse locale o giornali esteri. Adesso l'Italia attraversa un periodo molto al ribasso nelle quotazioni internazionali. Questo rende difficile l'accettazione o il convincimento che l'apprendimento della lingua italiana possa essere una ricchezza. In questo caso andare controcorrente e creare motivazioni che conducano allo studio della lingua italiana è difficile, quasi impossibile. Poi forse esisterà si penserà così anche dall'altra parte: io, che sono un cittadino italiano, per quale motivo devo studiare la lingua tedesca? A questo punto non saprei come riuscire a superare questo handicap: il bilinguismo da noi sta diventando quasi un fenomeno d'elite: c'è un ristretto gruppo di persone di entrambi i gruppi linguistici che dice che questo è importante, che è fondamentale, che vogliono che i figli studino l'altra lingua, non solamente per una questione di pagnotta, ma anche per motivazioni culturali.
Al contrario la maggior parte della popolazione- questa almeno è la mia sensazione - si sta progressivamente allontanando da questa possibilità, o potenzialità, assolutamente in controtendenza rispetto alla tematica europea di integrazione, che chiederebbe di possedere una lingua propria, quella del vicino e l'inglese come terza lingua, non solo a livello di vicinanza, ma proprio per quanto riguarda l'ambito europeo o addirittura continentale.
Verena Debiasi: credo che per quanto riguarda la parte italiana, la domanda: "Io sono italiano, perché devo studiare il tedesco?" sia diventata molto meno frequente negli ultimi quindici o vent'anni. Negli anni '80 si sentiva ancora molto, ma dagli anni '90 in poi molto meno, anzi, c'è adesso la forte richiesta di una scuola bilingue, di un bilinguismo vissuto in tutti gli incontri scolastici ed extra scolastici. Io propongo invece un'idea di base diversa da quella che finora ha guidato il pensiero del bilinguismo e dell'incontro: in fondo siamo molto simili, non c'è grande differenza tra italiani e tedeschi, siamo sempre sudtirolesi.
Capovolgerei questo pensiero, perché l'interesse nasce solo dalla novità e dalla differenza. Io dico che avere avuto un percorso storico separato della scuola italiana, della scuola tedesca e delle istituzioni extra scolastiche, culturali, tedeschi ed italiane adesso, guardando indietro, rappresenta un vantaggio e come tale dovremmo sfruttarlo. Nel senso che abbiamo creato, sullo stesso territorio, due scuole culturalmente molto diverse e questo è un fenomeno che non è riscontrabile da nessun'altra parte, perché normalmente si trova la scuola tedesca in Germania e la scuola italiana in Italia, mentre qui, in Sudtirolo, abbiamo una scuola culturalmente italiana e un'altra culturalmente tedesca, praticamente porta a porta.
La differenza, secondo me, dovrebbe essere mantenuta ma con la percezione della ricchezza che da essa deriva che potrebbe essere il movente di una collaborazione, di un incontro, di uno scambio. Dovrebbero esserne partecipi tutti i componenti della scuola, ad iniziare dagli insegnanti. Io chiedo sempre, quando giro per le scuole, agli insegnanti di scienze, matematica e italiano se conoscono ed hanno scambi personali e privati con i loro omologhi della scuola tedesca. Vi giuro che anche a Vipiteno, dove è difficile non incontrarsi neanche per caso, non ho ancora trovato nessuno che mi risponda positivamente. Prima di pretendere da un bambino o da uno studente di vivere un anno intero nella scuola dell'altro gruppo linguistico, io vorrei sapere quanti professionisti, quanti insegnanti sono entrati per un giorno, per una festa o per un anno in una scuola dell'altro gruppo linguistico. Vorrei sapere, ad esempio, quanti insegnanti della scuola italiana conoscono dall'interno la scuola tedesca per esserci entrati fisicamente, per aver visto com'è una sala insegnanti di una scuola tedesca.
Deve esserci invece un rapporto senza assimilazione, senza che si crei un miscuglio.
Isabella Tessari: vorrei aggiungere qualcosa, per completare e confermare quanto diceva Verena. Il mio sogno, come insegnante, è sempre stato quello di vedere una scuola mista, prima di morire. Per scuola mista io intendo una scuola in cui possono insegnare persone che hanno avuto un percorso scolastico anche monolingue, dell'uno o dell'altro gruppo linguistico.
Forse è un'utopia riuscire a far sì che gli insegnanti, legati comunque alla loro intendenza scolastica, possano insegnare in un altro tipo di scuola. Parlo di una scuola di lingua diversa, con discipline diverse, dove gli insegnanti possano alternarsi; ci sono diversi modelli da seguire, c'è quello ladino e molti altri, non voglio entrare nello specifico perché non è il caso. Questa sarebbe una scuola con una possibilità in più, magari non si diventerebbe comunque bilingui, ma almeno ci sarebbe la possibilità di provare a diventarlo.
Marco Mariani: Condivido quello che hanno detto le due colleghe che hanno appena parlato, servirebbe alla scuola italiana, per avere un ossigeno nuovo per rinfrescare e rinfrancare gli animi, uscire dagli schematismi scolastici e curriculari che abbiamo conosciuto fino a questo momento. Devo dire, personalmente, che mi sembra ci sia un orientamento più favorevole in questa direzione, se prendiamo in considerazione l'ultima novità legislativa della provincia, cioè l'introduzione dei curricoli scolastici nella scuola primaria, elementare e secondaria di primo grado. In essa è previsto - proprio all'articolo 14, quinto comma della legge che ha introdotto la novità dell'apprendimento e della valutazione per competenza, con i curricoli scolastici - che siano possibili, da parte delle scuole, percorsi innovativi per incentivare il plurilinguismo degli alunni.
Non ho mai letto una cosa simile in una legge provinciale. Percorsi innovativi per incentivare il plurilinguismo significa proprio l'adozione di questo metodo CLIL (Content and Language Integrated Learning), che prevede che porzioni di programma svolto in una materia possano essere replicati in un'altra lingua. Oppure che parte del programma, addirittura parti rilevanti del programma, possano, nell'ambito della flessibilità consentita alle scuole di ridurre alcuni insegnamenti per potenziarne altri, essere attivati in questo modo. Questa, a mio parere, è un'apertura significativa, perché è proprio la concretizzazione di un'aspettativa che da tanto tempo era stata avanzata dalle persone più lungimiranti: sto parlando di uscire dagli schematismi scolastici. Dicevo prima che si era costruita una provincia che, a livello legislativo e istituzionale, garantisse i diritti fondamentali delle persone, che sono quelli della prima lingua. Adesso devo dire che questo passo ci fa sperare che, in futuro, la scuola bilingue non sia poi una cosa tanto impossibile. La scorsa estate il presidente Durnwalder ha detto che non avrebbe nulla in contrario se, all'interno delle scuole, se istituissero delle sezioni monolingui in altra lingua. A me non pare un'affermazione qualsiasi, anzi, mi sembra coraggiosissima, perché esce dagli schematismi.
Devo dire che mi sembra che la cosa sia possibile, perché vedo, di là da questa proposta, un'intenzione difensiva della scuola nella propria madrelingua, adesso vi spiego perché. Noi abbiamo, da qualche anno, nella scuola superiore, questo esperimento dell'anno in L2. Alcuni alunni, per motu proprio, spontaneamente, per scelta della famiglia o per volontà propria, invece di andare all'estero, frequentano un anno, di solito il quarto, nella scuola dell'altro gruppo linguistico, quindi con una lingua d'insegnamento diversa dalla propria. Per fare un esempio: gli studenti del quarto anno del Carducci vanno a frequentare un anno nel liceo Von der Vogelweide e viceversa.
Ora, quest'esperimento è interessantissimo, perché l'alunno ha la possibilità di avere un'esperienza in un'altra scuola, nel corso della quale, naturalmente, approfondisce molto bene le proprie conoscenze nell'altra lingua. Questo però è un esperimento di respiro un po' corto, secondo me, perché se il numero degli alunni che partecipano a questo esperimento è esiguo, la scuola che li riceve lo può metabolizzare senza fatica. Al contrario, se il numero fosse molto alto, l'altra scuola riceve immediatamente un gruppo di persone da seguire che, in qualche maniera, può alterare gli equilibri didattici della scuola stessa. Infatti, se io ospito un solo alunno di un'altra lingua nella classe, posso seguirlo con tutta l'attenzione dovuta, l'alunno ha attorno a sé un gruppo di compagni di classe che parlano un'altra lingua ed è coinvolto da quest'ambiente, da questa situazione in maniera molto proficua e, naturalmente, ne trae beneficio. Se, invece, gli alunni che arrivano nell'altra scuola sono quindici, magari tutti in una classe, ovviamente bisogna ammettere che quella classe cambia aspetto, cambia natura e i professori si trovano improvvisamente di fronte ad un gruppo forte, che li obbliga a cambiare stile.
Questo probabilmente snatura quella scuola. Voi capite? Questo è il punto, perché magari altri dicono: perché noi dobbiamo avere una scuola snaturata, se l'abbiamo scelta apposta per le caratteristiche che aveva? L'escamotage sarebbe di seguire questa necessità, o questo desiderio di avere l'istruzione in altra lingua all'interno della propria scuola, per cui gli insegnanti di un'altra lingua sono assunti dalla scuola che organizza questa sezione, questa classe e insegnano presso una scuola di altra lingua, nella propria lingua. A questo punto avremmo una classe, o una sezione, di un'altra lingua in una scuola ospitante che ha, come lingua tradizionale, quella dell'altro gruppo. L'esperimento sarebbe interessante, anche se si perde un po' quello che si diceva prima, perché il gruppo sarebbe monoliticamente appartenente allo stesso gruppo linguistico, non ci sarebbe il rapporto con i pari, ma ci sarebbe solo una scuola in altra lingua. Ecco, si perderebbe questa dimensione, è vero, però di fatto si avrebbe un'esperienza che può perdurare nel tempo. Infatti si avrebbe il contatto con i pari della propria scuola e noi sappiamo benissimo che le scuole attuano la flessibilità e i progetti trasversali tra le classi, per cui quella classe non sarebbe un corpo diviso dal resto della scuola, ma parteciperebbe comunque alla vita di quell'istituto. Gli alunni sarebbero immediatamente inseribili dei progetti della propria madrelingua, perché sono di quella madrelingua, per cui il contatto con le altre classi, con gli altri alunni della propria scuola, rimarrebbe. Avrebbero, però un percorso pluriennale, diciamo anche completo, verticale, nella loro scuola, in altra lingua. Questo sicuramente rappresenterebbe un vantaggio, quindi la perdita da una parte porta vantaggi dall'altra.
Verena Debiasi: Ispettore, Lei adesso ha aperto un dibattito, sento già il mormorio in sottofondo, l'aria è diventata elettrica, cinque minuti prima della fine di questo incontro!
Marco Mariani: Ne possiamo parlare anche un'altra volta!
Verena Debiasi: Penso che effettivamente di questo si potrebbe parlare in un'altra occasione, perché il concetto della sezione tedesca in una scuola italiana, o di una sezione italiana in una scuola tedesca è, per la mia idea di bilinguismo e di plurilinguismo nella costruzione del cittadino bilingue, diametralmente opposta a tutto quello che dovrebbe essere la visione futura del Sudtirolo bilingue o plurilingue. Forse si poteva cominciare a discutere proprio da questo punto.
Marco Mariani: Preciso solo una cosa: ho aperto questo argomento perché, secondo un profilo di Realpolitik, bisogna fare i conti con quello che materialmente è possibile, perché è chiaro che noi possiamo inventarci un modello di scuola e di Sudtirolo a livelli teorici, così come ognuno di noi lo vuole. Se però vogliamo rimanere con i piedi per terra, dobbiamo parlare di quello che si potrebbe avere, poiché questa proposta è stata avanzata dal vertice della Giunta provinciale, potrebbe essere una strada da perseguire. Naturalmente nel rispetto dell'autonomia delle scuole.
Verena Debiasi: In chiusura mi sembra di poter dire che in questa conversazione sono emerse sia l'importanza dell'apprendimento extrascolastico sia la funzione catalizzatrice che spetta alla scuola.