IL CRISTALLO, 2009 LI 1 [stampa]

NINO BETTA, NARRATORE TRENTINO

di SILVANO DEMARCHI

Nino Betta, conosciutissimo professore di lettere del Liceo "Prati" di Trento per avervi ammaestrato generazioni di studenti, dopo 42 anni d'insegnamento, ritiratosi dal servizio attivo ha dato vita negli ultimi anni a una sua vena narrativa che coltivava da tempo. Dopo il romanzo "Balbina va in America", edito già nel '58 da Mondadori, riscopre un suo vecchio manoscritto risalente all'immediato dopoguerra e lo dà alle stampe con l'Editore Innocenti di Trento nel 1978; il suo titolo è "Il Prigioniero".

È di quest'ultima opera che vogliamo parlare, che ci fa rivivere quei cupi momenti che caratterizzarono gli ultimi mesi del secondo conflitto, quando la guerra si era fatta sentire anche nelle valli più remote con i partigiani rintanati nei boschi che facevano sortite negli abitati, con le rappresaglie dei Tedeschi, con le incursioni aeree degli Alleati nelle quali ogni tanto qualche aeroplano veniva abbattuto col suo carico d'uomini, che però gettandosi fuori dall'aereo in fiamme con il paracadute venivano in parte catturati, in parte ospitati da qualche famiglia compiacente e simpatizzante degli Inglesi, assidua ascoltatrice in gran segreto di "Radio Londra".

Il romanzo si ambienta appunto in questo scorcio di guerra e il suo protagonista Joe Wickmare è un aviatore americano, atterrato col paracadute sui monti e messo in salvo dalla gente del luogo. Ascoltiamo i momenti drammatici di quest'esordio:

"Quei brevi momenti erano stati il suo destino: il paracadute lo aveva portato in un bosco, sopra un paese, all'orlo di campi lavorati. C'era la luce del tramonto, lo schianto, e, poi, il dolore, e il nulla… Lo aveva tirato giù un risucchio d'aria, da un canalone fra le rupi. E poi erano venuti la ragazza e il vecchio: lo avevano staccato dal grande ombrello di seta, impigliato fra i rami di un abete contorto, lo avevano fatto adagiare sotto l'albero.

A. "I tedeschi dove sono?"

B. "Sono giù nella valle… Non ti troveranno. Ti nasconderemo noi."

A. "E i miei compagni?"

B. "Sono finiti al di là del valico, sono nell'altra valle, l'aereo è esploso lassù… Adesso ti nascondiamo, poi verrà il medico… Devi avere qualcosa di rotto, ma non possiamo lasciarti qui."

"Joe sedette, spiando le stelle tra i rami degli alberi. La navigazione aerea, gli stormi da combattimento, il volo notturno: eccoli lì, i luminosi apparecchi della notte, equidistanti, dal tempo dei tempi, silenziosi, indifferenti!"

Ma da uno di questi aerei Joe era caduto. La gente del luogo ritenendo di non lasciarlo al sicuro nel paese, lo trasportò in un rifugio sicuro: una casa di montagna, "talmente isolata che avrebbe dovuto conservare il segreto fino alla fine". Arrivarono così in una località prativa in mezzo a una foresta di conifere, chiamata Pedemonte, lontana alcune ore di duro cammino dall'abitato.

"Joe si guardò alle spalle: la luce era già mutata, qualcosa sembrava sfiorare la lunga prateria, e i monti, all'orizzonte, una lama di nebbia senza consistenza, un lividore bluastro. Era già possibile distinguere le quinte diverse della selva che si articolava, più in alto e più in basso, lasciando vuoti e radure probabilmente abbastanza vasti". Il racconto è ricco di queste pennellate, di queste pause descrittive mostrate al lettore attraverso il particolare modo di vedere e di sentire dei protagonisti e che valgono ad ambientare la vicenda, a conferirle quasi un'aura incantata di magia, quella magia che si diffonde nelle lunghe, solitarie giornate trascorse in mezzo a un paesaggio di alta montagna, la cui unica novità è data dall'alternarsi del giorno e della notte e delle quattro stagioni. D'ora in poi l'azione si svolge nella vecchia casa, malandata, degli ospiti: l'anziana padrona, una signora distinta e legata a consuetudini borghesi che si è portata dietro l'inseparabile e fidata domestica, che conosce tutto della famiglia, il figlio Giulio Daini, un personaggio inquietante e strano.

 

La scena è fissa, uguale, eupa; la storia è tutta psicologica e si ravviva spesso di memorie evocate: ne emerge il quadro di una famiglia di stampo ottocentesco e dietro, quello della società che l'ha generata.

Joe in quel contesto diventa il prigioniero di quelle persone, non solo materialmente, anche se trattato con affetto e cura, ma psicologicamente, in quanto tutte sentono il bisogno incoercibile di sfogare il loro animo, di confidare le loro pene allo straniero, il quale finisce col trovarsi in una situazione ambivalente di dominato e dominatore, di beneficato e benefattore. Giulio in particolare, nel suo connaturato sadismo, di cui vedremo più avanti le ragioni, non perde un'occasione per far notare a Joe di essere venuto in volo per bombardare, di essere quindi un omicida:

A. "Comunque, dimentichi, entrando in questa casa di essere un omicida, un assassino."

B. "Oh, io non ho mai ucciso!"

A. "Ma cosa faceva in guerra?"

B. "In guerra, può darsi… certo…"

A. "Omicida è chiunque abbia ucciso uomini, non importa come e perché… Bisogna dimenticarlo entrando in questa casa. E non dica che ha ucciso, perché glielo hanno ordinato, e perché si viene costretti a questo: non si può dirlo."

Non contento ancora di avergli fatto pesare l'ospitalità Giulio Daini, vuole mettere a nudo la coscienza del suo interlocutore, inducendolo a riflettere su ciò che può provocare un bombardamento e gli racconta uno dei tanti episodi raccapriccianti e reali che accadono in tempo di guerra:

A "Nella casa accanto alla nostra, in città, c'era un rifugio antiaereo ricavato nelle cantine… il bombardamento ha rotto le tubazioni dell'acqua e… e quantunque sotto le macerie il rifugio abbia tenuto… quelli che c'erano andati, non hanno potuto liberarsi, sono tutti morti annegati, misurando il tempo della vita con l'acqua che saliva! ... Non è stato lei, per caso, a eseguire quel bombardamento?

B. "No, era la prima volta che ero destinato a questo settore: la prima volta su questo fronte e… mi hanno abbattuto!"

Di particolare rilievo psicologico è la figura di Giulio Daini per molti aspetti un dissacratore, ma soprattutto un nevrotico, divenuto tale a causa di una madre autoritaria, che lo aveva messo, da giovane, in seminario, senza che avesse vocazione, ed ora lo teneva sotto controllo col suo sguardo gelido e indagatore ogni volta che voleva parlare, ma che si sfogava col prigioniero quando era solo con lui.

È appunto in quei momenti di massima sincerità che rivela il suo carattere bizzarro ma capace di intuizioni illuminanti sul tipo di educazione avuto, tutto formalismo borghese e bigotto, anche se la sua critica corrosiva sovente oltrepassa i limiti.

Che non fosse del tutto nella normalità ce lo dimostra l'episodio in cui, come il barone di Münchausen che mise il braccio nella gola di un lupo inferocito, anch'egli, introdusse la mano nella bocca di una mucca per tirarle fuori l'asciugamano che stava ingoiando e risulta ancora dai numerosi dispetti che faceva alla vecchia domestica. Giulio è un essere frustrato da una serie di fatti: l'educazione pietistica, l'autoritarismo materno, una sessualità soffocata, per cui è rimasto sostanzialmente un bambino che si diverte a sfogare la sua natura repressa in forme di infantile sadismo o in ragionamenti sofisticati, in motti di spirito corrosivi e dissacratori, in cui s'annida indubbiamente un germe di verità.

Per venire ora all'altro protagonista del racconto, Joe, il prigioniero, si ricava l'impressione di un tipico uomo inglese, o americano che sia, dominato dal self-controll, che non si scompone neppure dinanzi al farneticare di Giulio o alle sue scortesi insinuazioni. Sicuro di sé, ha guadagnato un suo equilibrio interiore di impronta fatalistica per l'abitudine di giocare ogni giorno con la morte e considerare quindi la precarietà dell'esistenza.

 

Il che non vuol dire che non abbia un'anima capace di commuoversi, soprattutto al ricordo del suo amore per Gillian. Di Giulio dirà: "Mi ha avvelenato tutto questo tempo con la sua saggezza da manicomio!"

Due mondi diversi che si sono trovati a confronto ma tra loro irriducibili.

Intanto la guerra sta volgendo alla sua fine. È stata firmata la resa. Alcuni soldati tedeschi in fuga vengono ospitati nella casa di Pedemonte, sono Austriaci, stanchi della guerra e desiderosi solamente di tornare a casa, che scattano sull'attenti ogni volta che vedono Joe, ora il capitano Joe. C'è in casa un'aria di attesa e di festa, di trepidazione e di incontenibile gioia, quando la notte si ode uno sparo e al mattino appare questa scena: "La porta del pollaio era scassinata, le galline rubate, e, contro il muro, era appoggiato, morto, Giulio Daini, nel suo mantello macchiato di sangue, aperto intorno al corpo, come una nera corolla. Era incominciata la pace."

Con questo lugubre, inaspettato e misterioso epilogo si chiude il lungo racconto "Il Prigioniero", condotto dall'Autore con rara perizia di narratore sia nella costruzione della vicenda, prevalentemente interiore e psicologica, che nella caratterizzazione dei personaggi e nell'acutissima introspezione che risulta da numerose osservazioni sparse di contorno. Non dispersiva pluralità di temi ma il ruotare del racconto su un unico soggetto nelle diverse motivazioni e contestualità, continua apertura dell'orizzonte tematico che moltiplica e varia il potenziale semantico d'un unico referente. L'abilità discorsiva e la condensata descrittività rendono omogeneo il fiato narrativo entro un'architettura di ampia vitalità, col tono accattivante di chi sa di darci uno spaccato irripetibile di realtà, di fermare un momento storico con tutto l'urgere della sua interna dinamica e soprattutto fermare l'attenzione su una prospettiva critica del sociale che si riflette sulla psicologia dei personaggi.

 

 

 

 

Nino Betta, è nato a Rovereto il 5 dicembre 1909. È stato professore al Liceo "Prati" di Trento fino al 1975. Ha scritto liriche, racconti e romanzi brevi: fra questi "Balbina va in America" e "Il Prigioniero". Nella critica letteraria si è occupato soprattutto di Leopardi, Pratolini e Montale.