IL CRISTALLO, 1980 XXII 2 | [stampa] |
A qualche mese dall'uscita dell'ultimo lavoro poetico di Renzo Francescotti, «Cantada dei emigranti» - Ed.U.C.T.-Trento - un sottile ma succoso quaderno di versi in dialetto trentino sui temi dell'emigrazione (e deliberatamente di un quaderno da poveri si tratta: veste modesta, copertina a quadretti, caratteri dattilografici, prezzo esiguo e in tutto ventuno storie cantate amare, da uccel di gabbia che se non canta d'amor canta di rabbia) a lettura finita mi trovo coinvolta tra emozioni e considerazioni, non nuove né risolte: sulla storia delle classi subalterne, sui vari modi di indagarla e di interpretarla, sul suo rapporto con il linguaggio e la poesia. Sono i temi e i modi consueti del fare poesia di Renzo Francescotti. E anche del suo fare storia. E tuttavia non manca mai di stupirmi, e spesso di incantarmi, la scioltezza con cui egli affronta e risolve i nodi di questo duplice approccio, con una sorta di incandescente passione sociale che pure non intorbida la sua vena poetica, così personale e quotidiana. Ma nello stesso tempo - e qui scatta l'originalità di questo poeta,- egli riesce a trarne una forma di espressionalità di questo poeta, - egli riesce a trarne una forma di espressione collettiva, di dialogo, di canto, di ritmo, di drammatizzazione e infine di politicizzazione, tali da restituire forma e contenuti alla piena fruizione comunitaria.
Impresa coraggiosa ma a quanto pare non temeraria, se si tiene conto del chiaro successo delle due precedenti raccolte di versi «La guerra dei carneri» e «Morte di Manitou».
Ma stavolta il materiale umano e sociale esplorato appare, se possibile, più reattivo e dolorante; o forse soltanto più recentemente vissuto e perciò meno difeso dai recinti della storia e meno simbolizzato. Questi emigranti hanno un nome che ancora si ricorda in paese; la loro stressante avventura s'è conclusa appena ieri; le loro lettere appassite dalla «Merita» del Sudo del Nord sono li nel cassettone, ripiegate come fazzoletti; la loro voce con il dialetto di valle trema di pena e di rabbia...
Il dialetto, appunto, come Renzo lo raccoglie e lo piega appena all'onda delle immagini: questo dialetto trentino così avaro e stento, che pare uscire a fatica, come un rantolo, dalle bocche dei minatori, degli spaccapietra silicotici; o come un sospiro di fatica e un contrappunto alla fatica dei segantini, dei «aisenponeri», dei «molèta» e dei molti muratori e braccianti sparsi perle contrade del mondo. Il dialetto è strumento essenziale e sensibilissimo per una indagine sul campo; ma in queste cantade è qualcosa di più e di diverso: un codice, un sistema di comunicazione e di identificazione, un magma non decantato; e i moccoli, le «sirache», gli idiotismi, i termini grevi vi affiorano schiumanti come fermenti.
Quello che non appare invece, o non pesa, ma è indubbiamente sotteso, è il supporto tenace di una ricerca di carattere storico, semantico e antropologico sulla cultura contadina e popolare, sui lavori di valle, sulle emigrazioni stagionali e definitive, interne e intercontinentali a cui lo scrittore dedica quotidianamente il suo impegno. Per oltre cent'anni il Trentino dovette subire nelle sue valli più povere e remote un continuo e irrimediabile salasso di abitanti. Statisticamente è tutto risaputo, registrato, pubblicato. O quasi tutto. Ma la parte sommersa di una simile catastrofe ecologica e umana non è ancora stata detta e tanto meno storicizzata perché non sono «documenti», considerati tali dagli storici, le lettere degli emigranti, i racconti orali, le canzoni del lavoro, il teatro popolare... Forse solo la poesia ha gli strumenti per esplorare questa zona d'ombra: una poesia come questa, scabra e dialettale, parlata più che scritta o quantomeno composta di unità fonologiche più che di stilemi, dove spesso la voce del personaggio soverchia e spegne quella del poeta. Come nella «Lettera dal Brasile» a cui, avverte il Francescotti, «è stata data solo la misura del verso». Una guardata particolare meritano le dieci tavole originali di Giuseppe Varnerche accompagnano i testi poetici e tuttavia sembrano volersene sganciare per raccogliersi nella propria essenza terrosa e impetrirsi tra le pagine come grumi di fango e scaglie di pietra. Chi mai potrà sollevare da terra queste valigie di porfido, o staccare dal suolo queste gambe pesanti e gonfie di umori come radici, questi piedi di ceppi?
La gente di Varner non è della razza che va via, è il paese che resta, con gli occhi spenti che guardano basso, i visi chiusi delle donne sole sotto il fazzoletto nero, il dagherrotipo sbiadito della famiglia numerosa nella tasca dell'emigrante e, appunto, sulla copertina di questo quaderno di poesie.