IL CRISTALLO, 1994 XXXVI 1 [stampa]

ARTAUD, LA FOLLIA CHE DECOSTRUISCE IL LOGOS

di EUGEN GALASSO

Non mi interessava, in questa sede e in quest'occasione, di percorrere o ripercorrere il cammino di Artaud verso l'Oriente (altri lo hanno esaminato con una completezza indubbia) e neppure i percorsi extra-teatrali del «poeta», nel senso di creatore, appunto. Volevo invece cercare di chiarire i nodi essenziali della sua rivoluzione teatrale, segnalando alcune poche relazioni con il teatro del suo tempo e del «post», naturalmente senza entrare nel dettaglio di questioni che poi, di per sé, meriterebbero ben altro approfondimento.

Antonin Artaud, 1896-1948, geniale teorico del teatro (Il teatro e il suo doppio, ma anche altri brevi testi teorici), autore teatrale egli stesso (I Cenci), regista, attore anche di cinema oltre che di teatro, marinaio, disegnatore e teorico dell'arte (Van Gogh suicidato dalla società): Artaud che sfugge alle classificazioni consuete ed alle categorie stabilite a priori, che mostra la mediocrità imbecille degli psichiatri che ebbero ad internarlo in manicomio, proprio lui che la psichiatria l'aveva stanata come scienza del puro dominio, come strumento mortifero del potere medico e di quello giudiziario, al servizio della più crassa normalizzazione: «V'è in ogni psichiatra vivente un ripugnante e sordido atavismo, che gli fa vedere in qualsiasi artista, in qualunque persona geniale gli stia davanti un nemico»1. Molto prima dell'analisi di Foucault sul rapporto potere — sapere e quindi sulle interdizioni che il potere pone a chi pensa e crea, Artaud si rende conto di come l'artista che «smuove» (abitudini, modi di pensare e agire, concezioni del mondo e della «realtà») venga poi «sanzionato» fino al punto di apparire — «divenire» folle... In altri tempi, l'alchimista era lo stregone, l'eretico, il nemico di Dio: oggi il «veggente» (nel senso di Rimbaud) è la «parte maledetta» (part maudite, per dirla con Bataille, altro grande creatore e pensatore che riconosce il valore evocativo dell'eros, implicito anche dove la normalità mediocre non lo sa vedere). Ma l'«aggressione» complessiva si concretizza poi in un settore che è il teatro, in cui, pur non essendo assolutamente Artaud un «wagneriano», l'ottica wagneriana dell'«opera d'arte totale» è però presupposta, già acquisita pienamente. In effetti, per Artaud il teatro è «spettacolo integrale», anche se poi precisa che esso non è «da confondere con la musica, la pantomima, la danza»2. Il teatro, comunque, la «vera opera teatrale scuote il riposo dei sensi, libera l'inconscio compresso, spinge ad una rivolta virtuale»3. Non è lontano, come si vede, il déreglement rimbaudiano, lo «sregolamento» di tutti i sensi, anche se Artaud vi aggiunge la nota di ispirazione psicanalistica, che si rifà all'inconscio liberato, ma è un riferimento psicanalitico «diverso»: ancora una volta a dimostrazione di un uso non normativo della psicanalisi, quell'uso «irregolare» che è stato anche del surrealismo (e i dissensi di Artaud con i surrealisti nascono solamente dal dogmatismo di Breton, ma questa è un'altra questione...) e poi di Lacan, di cui non a caso vari autori hanno sottolineato affinità «parallele» e magari sotterranee con il surrealismo, dove però Lacan stesso riconosce le proprie affinità con i surrealisti, persino influenze, «tracce» di surrealismo nel suo pensiero. Del resto, poi, è «la regia a costituire il teatro molto più che il teatro scritto e parlato»4. Contro la tirannia della parola, del Logos («parola»), semanticamente, non ha certo la pregnanza del termine Logos, anche nella traduzione latina verbum, le manca cioè la connotazione mistico—metafisica che richiama direttamente al sapere—potere, anzi al sapere—dominio con tutte le sfumature che a livello storico—politico implicano il Sacro Romano Impero e l'«Occidente cristiano», non a caso sempre conclamato in ispecie dai franchisti di tutte le latitudini e dai settori sanfedisti della Chiesa Cattolica; non è detto, fra l'altro che l'ateismo postulatorio di Artaud non derivi proprio da questo grande rifiuto; contro la tirannia della parola, del Logos, dicevamo, Artaud si pronuncia sempre, riscoprendo il teatro come «vera poesia» dove poi «la poesia è anarchica, mette in discussione tutti i rapporti tra soggetto e oggetto, tra forme e loro significati»5. Qui, se volessimo individuare ancora tracce rimbaudiane, dovremmo dire che il rimbaudiano «moi—c'ést un autre» ha fatto certamente scuola! Il teatro sciamanico, dunque (da qui anche, chiaramente, la grande fascinazione artaudiana per il teatro balinese), come «vera operazione di magia»6 (e la magia, propriamente, è ciò che toglie — rimuove la differenza tra soggetto e oggetto). L'invasamento rimane, ma esso, a differenza della prospettiva platonica, in cui era il dio ad ispirare la pizia, la pizia a trasmettere il suo invasamento al poeta, «toglie» Dio.

Come scrive Dérrida nella sua formidabile prefazione al testo di Artaud, «il teatro della crudeltà espelle Dio dalla scena»7 — forse però sarebbe meglio dire che «espelle il Dio occidentale, imperialista» o, ancora meglio, la «concezione occidentale—imperialista di Dio».

Il teatro della crudeltà come «work in progress»:

Quando si dice «teatro della crudeltà» si pensa di preferenza o a un teatro degli orrori nel senso di Sperone Speroni e comunque rinascimentale, a sua volta del resto di derivazione senechiana, magari anche ad un teatro della «crudeltà» elisabettiana, mentre in alternativa si pensa invece al «teatro cerimoniale» arrabaliano, guardando cioè al dopo Artaud. Se il concetto di teatro degli orrori è chiaro, storicamente accreditato, quello di teatro cerimoniale merita di essere approfondito — chiarito con la testimonianza del drammaturgo Arrabal, grande autore contemporaneo, non certo liquidabile come tardo erede del surrealismo, ma sostenitore di un teatro in cui il sacro e l'idea di trascendenza riemergono paradossalmente dalle proprie ceneri:

Così, io scrivo i miei lavori teatrali come si ordina una cerimonia, con la precisione di un giocatore di scacchi e nello stesso tempo do la preferenza ad un panico effimero, dove il teatro si esprime per mezzo di un delirio che non ha rapporti con la tecnica. Per questo, nei miei lavori non pubblicati, incorporo spesso degli happenings, costruendoli come una serie di linee di comunicazione, dalle quali ciascuno può ricevere, tramite gli attori, l'intensità, il movimento che desidera»8.

Ma torniamo ad Artaud, per il quale il teatro della crudeltà presuppone «la necessità del rigore, non necessariamente sadismo, orrore»9, mentre alle sue fonti sta comunque il parricidio10, inteso come atto rituale, cerimoniale, «sacro» (nel senso, beninteso anche del «sacer», cioè dell'esecrabile, del maledetto ma, al tempo stesso, con una polisemia che non è solo dell'ossimoro, appunto, anche del sacro). Si tratta, cioè di affermazioni che si muovono nel senso di un radicale rinnovamento del teatro, non di un improbabile ritorno ad un teatro, appunto, degli orrori; un rinnovamento che sconvolge la fruizione stessa dell'opera teatrale, in modo che la stessa percezione del teatro viene sconvolta: «Nel teatro della crudeltà lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda»11). E la totale dicotomia attore sul palcoscenico — spettatore in platea, chiaramente non come qualcosa di già acquisito, non come una datità ma, al contrario, come un «in fieri» continuo; qui, peraltro è da ricordare come per Arrabal il ruolo prioritario vada alla regia, non al testo «codificato»12.

A questo proposito va chiarito ancora una volta un problema: non è che Artaud voglia la tirannia del regista, inteso come regista—demiurgo, come creatore unico e incondizionato quale il regista effettivamente sarà nelle avanguardie storiche, non solo d'inizio secolo, ma anche delle avanguardie anni '60—'70; non a caso, cruciale è invece per Artaud, il ruolo dell'attore che «si muove e innegabilmente violenta le forme»13 — una linea di tendenza questa, che sarà, se mai, del «teatro povero» di Jerzy Grotowsky e dei suoi sviluppi in Eugenio Barba e di una linea di «terzo teatro», che oggi rimane fondamentale, pur se forse, in parte, ridimensiona una certa polemica contro la regia intesa come dittatura teatrale (terzo teatro o «teatro contemporaneo», come, con una certa audacia terminologica propone di dire Antonio Attisani). Parlando di Artaud però, bisogna cercare di non caricarne i testi di polemiche e discussioni che saranno post—artaudiane, che quindi sono rami che si dipartono, spurii o meno, dal tronco comune di Artaud. Di Artaud conta più l'input teorico che le realizzazioni sceniche, le messe in scena, anche perché delle messe in scena non sappiamo moltissimo per i noti motivi di non—riproducibilità, non disponibilità di materiale filmico etc.; le indicazioni precedenti, perciò servono solamente a segnalare dei percorsi. Teatro non logo-centrico, si diceva: «il dialogo, sia scritto, sia parlato, non appartiene specificatamente al teatro, appartiene al libro; lo prova il fatto che nei manuali di storia della letteratura gli viene riservato un posto come ambito accessorio della lingua articolata»14.

Non che la lingua di per sé venga rifiutata però in toto, anzi: essa ha però la funzione di «reagente»

I gesti e i movimenti vi hanno la stessa funzione del testo, che è stato proprio composto per servire da reagente a tutto il resto. E credo che sarà la prima volta almeno qui in Francia, che un testo di teatro è scritto in funzione della messa in scena, le cui caratteristiche sono uscite del tutto concrete e vive dalla mente dell'autore15.

Il concetto di funzione, anche nell'accezione matematica del termine: voilà le mot, anche se naturalmente non vale la pena calcare troppo su una metafora che rischia di essere inopportuna, eccessiva, sfasante. Il testo scritto (copione, diremmo nel senso più limitato e limitante del termine) come funzione della messa in scena: oggi è quasi lapalissiano, ai tempi di Artaud era una scoperta; l'ultima citazione è tratta da una citazione di Artaud stesso — note di regia? Sarebbe dire francamente troppo poco — alla sua realizzazione de I Cenci, il testo (usando il termine nella sua completezza, quindi come testo scenico, non certo solamente come testo scritto) che si sarebbe avvicinato di più al teatro della crudeltà, sia pure pervenendovi solamente «per vie traverse e simboliche»16. In questo stesso articolo si accenna ancora, ma è più di un «cenno» naturalmente, all'uso di vibrazioni sonore, diffuse per mezzo di «altoparlanti» e di «manichini»17: se i manichini ci rimandano a Edward Gordon Craig con i suoi attori «supermarionette», le vibrazioni sonore sono invece un tratto costitutivo di tanto teatro contemporaneo (nel senso più ampio del termine, però, non in quello anzidetto a proposito delle riflessioni di Attisani) dove l'uso del materiale sonoro (non di musica in senso classico) è costante, ineliminabile. Una profonda differenza questa, peraltro, rispetto all'ottica grotowskyana, con la quale sopra avevamo pur rilevato affinità perché la prospettiva grotowskyana—barbiana prevede la musica eseguita in scena, da parte degli stessi interpreti. E Artaud rivendica il lato «leggendario», «esaltato»18 di questo suo teatro: carattere ben alternativo, ancora una volta, alla razionalità del Logos onnivoro, occidentale, borghese. Artaud parte da una vicenda «oscura» ma storicamente accertata, da una «falla» dell'Occidente, collocata proprio in quello spazio—tempo che il Logos ama come «quintessenza dell'armonia», ma si muove in direzioni inaspettate, inarrivabili per l'epoca e forse anche per l'oggi. Rivendicando la grandezza del teatro come peste (l'antica concezione agostiniana rovesciata di segno) il grande teorico del teatro e artista ci dice che «nel teatro, come nella peste, c'è qualcosa di vittorioso e al tempo stesso di vendicatore»19.

Una negazione che poi si sarebbe rovesciata nel non—più—teatro e non—più—poesia, nella «follia» speculare al culmine della conoscenza—intuizione.

Proprio a partire da queste considerazioni, appare assolutamente fuori luogo rilevare lo scarto fra il programma teorico artaudiano e le sue realizzazioni drammaturgiche: di queste ultime possediamo solo il testo scritto, le note di regia, recensioni e commenti, ma non siamo in grado di ricostruire la drammaturgia vera e propria e per di più, sarebbe assurdo pretendere un'attuazione realizzativa di un progetto teorico quale quello artaudiano, cui la sua «poesia teatrale» si avvicina solo parzialmente, né poteva essere altrimenti.

 


NOTE

1 A. Artaud, Van Gogh suicidato dalla società, in Il mito Van Gogh (raccoglie testi su Van Gogh di Artaud e di Battaille), Bologna, Il Mulino, 1987, p. 73.

2 Artaud, Il Teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1968, p. 20.

3 Op. cit., p. 123.

4 Op. cit., p. 132.

5 Op. cit., p. 134.

6 Op. cit., p. 13.

7 J. Dérrida, Prefazione a op. cit., p. XII.

8 F. Arrabal, volume I, Milano Libri, 1969, p. 10 (testo tratto dalla «Prefazione» di Alain Schifres).

9 A. Artaud, testo citato, Il teatro e il suo doppio, p. 31.

10 Op. cit., ibidem.

11 Op. cit., p. XXIII (prefazione di Dérrida).

12 Vedi ancora op. cit., p. 132 (nota 4): è sicuramente uno dei testi chiave della «rottura epistemologica» del teatro moderno.

13 Op. cit., p. 113.

14 Op. cit., p. 130.

15 A. Artaud, I Cenci, Torino, Einaudi, 1972, p. 80 (articolo apparso su «La Béte Noire», 1 maggio 1935.

16 I Cenci, p. 81.

17 Ibidem.

18 Ibidem.

19 A. Artaud, Il Teatro e il suo doppio, cit. p. 129.