IL CRISTALLO, 1990 XXXII 1 | [stampa] |
Nel 1988 è ricorso il primo centenario della nascita di Camillo Sbarbaro, nato a S. Margherita Ligure il 12 gennaio 1888 e morto a Savona il 31 ottobre 1967. Ci sembra opportuno perciò ricordarlo, anche perché intorno alla sua opera di scrittore e di poeta, forse non ancora valutato nel suo giusto merito, si è notato recentemente un rinnovato interesse, che si è manifestato specialmente con la pubblicazione, a cura di Gina Lagorio e di Vanni Scheiwiller, di un volume della Garzanti (1985) contenente l'intera sua opera in versi e in prosa e con un ampio studio su di lui della stessa Lagorio: Sbarbaro, un modo spoglio di esistere, apparso nei libri della Garzanti nel 1981, nonché con altri studi più recenti di alcuni valenti critici, quali Francesco De Nicola, in L'ulivo e la parola (Ed. Sabatelli, Savona, 1985), e Stefano Verdino, in La poesia in Liguria (Forum/Quinta Generazione, Forlì, 1986). Si vedano anche. l'Omaggio a Sbarbaro, in «Resine», Savona, 1983 e gli scritti di G. Caproni, P. V. Mengaldo, E. Soleti in L'indice, 3, 1986. (Si consulti inoltre la Bibliografia degli scritti di Camillo Sbarbaro, Scheiwiller, Milano, 1986).
In verità di Sbarbaro si è sin dal primo apparire di Pianissimo, la sua più importante raccolta di poesie, diffusamente occupata la critica, a cominciare da Giovanni Boine, il quale in Plausi e botte, la famosa rubrica che egli tenne dal marzo del 1914 all'ottobre del 1916 su «La Riviera Ligure», parlò a proposito di Pianissimo di «poesia fuor della storia, fuor della tradizione, che a capirla basta il cuore e l'aver vissuto» e così concluse:
Sono colpito in questi frammenti dello Sbarbaro dalla secchezza, dalla immediata personalità, dalla scarna semplicità del suo dire: mi par d'essere innanzi ad una di quelle poesie su cui i letterati non sanno né possono dissertare a lungo, ma di cui si ricordano gli uomini nella vita loro per i millenni.
Si possono poi ricordare, per fare solo qualche nome, il giudizio di Carlo Bo, che nel suo libro Otto studi (Firenze, 1939) interpretò l'opera di Sbarbaro in chiave ermetica, indicandone il senso in un progressivo purificarsi della parola poetica, quale espressione di una storia interiore, e quello espresso da Giorgio Bàrberi Squarotti nel suo saggio su Sbarbaro, apparso ne I Contemporanei (Vol. I, Marzorati, 1969), dove sono posti in luce gli elementi dell'alienazione e dell'inappartenenza del mondo sbarbariano; così come si possono ricordare lo studio di Adriano Guerrini Il significato di Sbarbaro (Sabatelli, Savona, 1968), nel quale viene evidenziato il legame tra l'opera di Sbarbaro e l'esistenzialismo, della cui esperienza egli sarebbe da noi la «vera grande voce», e la «presentazione» di Pier Vincenzo Mengaldo di questo poeta nella sua antologia Poeti italiani del Novecento (Mondadori, Milano, 1978), in cui è posto l'accento sull'antieloquenza sbarbariana e sul suo impressionismo sobrio e secco, che lo fa precursore di un gusto tutto moderno, influente sulla poesia successiva, in primo luogo su quella di Eugenio Montale.
Vediamo allora di procedere, sulla scorta di questi e di altri elementi, ad un succinto esame dell'opera del nostro autore.
Le prime poesie di Sbarbaro, raccolte nel volumetto intitolato Resine, risalgono agli anni del ginnasio e furono pubblicate presso l'Editore Caimo di Genova nel 1911, per iniziativa dei suoi compagni di scuola.
In esse sono ancora_ palesi le reminiscenze carducciane e pascoliane; ma sin da allora appaiono evidenti, come osserva lo Squarotti, quelli che saranno i motivi centrali del suo poetare: l'aridità e la crisi dei rapporti col mondo esterno.
Gli unici versi salvati da Sbarbaro di questa sua prima stagione letteraria sono quelli di Primizie. In essi è già il segno di una raggiunta maturità stilistica e già compare la tematica che sarà dello Sbarbaro maggiore quello di Pianissimo: il motivo del vagare assorto per la città nemica ed il senso dell'estraneazione e della disperata solitudine: «Vo nella notte solo / per vicoli deserti / lungo squallide mura»; «Come il vesito vecchio / l'anima addosso mi pesa;/ tutto intorno m'ingombra...»; «E mi butto da lato e rasento / di nuovo le mura,/ se il piede nel lastrico inciampa...».
La raccolta però con la quale Sbarbaro si affermò come poeta fu Pianissimo, apparsa nel 1914 a Firenze nelle Edizioni de «La Voce». In essa il suo lungo travaglio interiore trova ormai compiuta espressione e si manifesta in maniera originale e sicura sin dai primi versi del libro, con quel loro incipit così immediato e perentorio, che subito ci introduce in un mondo desolato, fatto di aridità e di sconforto, di vagabondaggi senza meta e di disperata ricerca di un ubi consistam:
Taci, anima stanca di godere / e di soffrire (all'uno e all'altro vai / rassegnata). / / Nessuna voce tua odo se ascolto: / non di rimpianto per la miserabile / giovinezza, non d'ira o di speranza,/ e neppure di tedio. / / Giaci come / il corpo, ammutolita, tutta piena / d'una rassegnazione disperata. / / Non ci stupiremo,/ non è vero, anima mia, se il cuore / si fermasse, sospeso se ci fosse / il fiato... / Invece camminiamo,/ camminiamo io e te come sonnambuli. / E gli alberi son alberi, le case / son case, le donne / che passano son donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è. / / La vicenda di gioia e di dolore / non ci tocca. Perduto ha la voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande / deserto. / / Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso.
Non c'è traccia qui di finzione letteraria; tutto appare spontaneo e dettato da un'intima necessità. Il dramma che tormenta Sbarbaro è un dramma reale, non un pretesto che offra al poeta l'occasione per scrivere dei piacevoli versi. La sua sofferenza è sincera e il suo dire privo di ogni aulicità.
Ci troviamo di fronte ad una concreta frattura tra l'io e il mondo esterno; ad un'assoluta impossibilità di aderire alle cose e di comprenderne il senso. Se qualche eco del Leopardi può trovarsi in taluna di queste poesie (si veda ad esempio la seconda, dove si possono leggere questi versi: «Come uno smarrimento allor mi coglie, / uno sgomento pueril», e altrove: «...in quell'attimo dentro m'impauro»), si tratta piuttosto di un'occasionale consonanza spirituale che di una reale imitazione, tanto diversa è la personalità dei due poeti: l'uno più classicamente rifinito e compiuto, l'altro più arido e spoglio nella sua deserta disperazione.
Ciò che Sbarbaro avverte è l'assurdità del vivere, come fatto privo di senso, ed inoltre l'abisso incolmabile che lo separa dalla realtà esterna, che egli sfiora appena, senza mai poterla concretemente afferrare: «Perché a me par, vivendo questa mia / povera vita, un'altra rasentarne / come nel sonno, e che quel sonno sia / la mia vita presente».
Il motivo centrale di questo mondo è l'angoscia, dovuta appunto a tale estraneazione dalle cose e dagli altri uomini: «...separata dal resto della terra / è la mia vita ed io son solo al mondo»; «Ch'io cammino fra gli uomini guardando / attentamente coi miei occhi ognuno,/ curioso di lor ma come estraneo», «Son come posto fuori della vita,/ una macchina io stesso che obbedisce,/ come il carro e la strada necessario».
Il rifugio in una dimensione onirica può allora divenire per il poeta il solo rimedio che gli consenta di sfuggire ad una realtà ancora più amara e inquietante: «Sonno, dolce fratello della Morte /.../ Quando si dorme non si sa più nulla». Parrebbe la condanna all'immobilità e all'inaridimento, se non intervenisse il dolore.
Sbarbaro infatti comprende che il dolore è preferibile ad un inconcludente aggirarsi in un incerto dormiveglia: «Voglio il dolore che m'abbranchi forte / e collochi nel centro della Vita»; «Io ti vedo con gioia e con paura / ogni giorno scemare, mio Dolore». È il dolore che lo fa sentire vivo e gli dà la forza di continuare la sua lotta quotidiana con l'esistenza.
Il perduto contatto con la realtà, l'estraneazione dal mondo e l'inappartenenza, sono però causa di un sempre maggiore isolamento ed inducono Sbarbaro a scorgere nei propri simili l'aspetto repellente e grottesco della maschera piuttosto che quello umano.
Fronti calve di vecchi, inconsapevoli / occhi di bimbi, facce consuete / di nati a faticare e a riprodursi,/ facce volpine stupide beate,/ facce ambigue di preti, pitturate / facce di meretrici, entro il cervello / mi s'imprimono dolorosamente. / E conosco l'inganno pel qual vivono,/.../ Ché ciascuno di loro porta seco / la condanna d'esistere: ma vanno / dimentichi di ciò e di tutto, ognuno / occupato dall'attimo che passa,/ distratto dal suo vizio prediletto.
La deformazione espressionistica che emerge da questi versi la ritroviamo anche in certe pagine dei Trucioli, il libro che raccoglie le prose d'arte di Sbarbaro, apparse dapprima su «La Voce» e su altre riviste e poi pubblicate in volume da Vallecchi, a Firenze, nel 1920.
Una livida alba cittadina che i tram carichi s'avventavano verso le officine e le saracinesche sollevate gridavano, provai un senso d'angoscia. In una femmina lenta che traversava la strada scorsi la larva molliccia che fa intristire la pianta. La bocca d'un'altra mi ripugnò come la vista d'una mignatta. Nella magra che incrociava sprezzante l'uscita dei portalettere riconobbi un'atroce cavalletta.
Così è anche del «frammento» in cui l'oste «reca da bere con palese scherno» agli avventori e «ricolloca a sedere... chi sorge a provare la voce», «come fa il padrone del bersaglio col fantoccio scattato».
Neppure l'amicizia, che sin dai tempi antichi fu considerata uno dei massimi beni della vita, vale a rasserenare il poeta: «I miei occhi implacabili che sono / sempre limpidi pure quando piangono / Amicizia non vale ad ingannare». Chiuso nel cerchio della necessità, non s'illude di poterlo varcare, sicché non gli resta che un «sincero desiderio di morire» che fa vuote e prive di senso le sue giornate.
Dopo quello dell'estraneazione dal mondo, l'altro grande tema di Pianissimo è quello della città, tanto caro ai poeti decadenti, che però in Sbarbaro diviene particolarmente luogo di perdizione e di incubi; deserto in cui si vaga come sonnambuli tra una folla anonima ed ignara di sé e degli altri, in un paesaggio desolato e quasi irreale.
«A queste vie simmetriche e deserte / a queste case mute sono simile./ Partecipo alla loro indifferenza»; «Vado per la città solo, la notte,/ e l'odore dei fondaci al ricordo / vince l'odor dell'erba sotto il sole»; «sempre assorto in me stesso e nel mio mondo / come in sonno tra gli uomini mi muovo»; «Io t'aspetto allo svolto d'ogni via,/ Perdizione».
Anche a questi versi fanno riscontro le prose dei Trucioli, come è possibile rilevare ad apertura di libro: «Così l'anima ha messo radice nella pietra della città e altrove non saprebbe più vivere. Mi esalta il fanale atroce a capo del vicolo chiuso. Come la vite mi cibo di aridità».
Sono parole che paiono a loro volta ricalcare i versi con i quali si chiude Pianissimo: «Ma poi che sento l'anima aderire / ad ogni pietra della città sorda / com'albero con tutte le radici,/ sorrido a me indicibilmente e come / per uno sforzo d'ali i gomiti alzo...»: il che sta a dimostrare la continuità e la rispondenza tra poesia e prosa in Sbarbaro, nel quale il «frammento» in prosa assume spesso lo slancio lirico che è proprio della poesia, di cui riprende e sviluppa i temi.
Si vedano ancora questi passi dei Trucioli: «Da quando posso parlare, la mia vita è colpita d'immobilità. Del più desiderabile bene, se la parola lo tocca, rimane la buccia... Così da me mi muro e pietre sono le parole»; «La mia, è ora la vita del greto»; «...per città mi trascino e del suo frastuono mi riempio come la caverna dell'eco».
Aridità, perdizione, senso di colpa, impossibilità di comunicare e quindi solitudine, sgomento di fronte alla luce del giorno e desiderio di morte: sono questi i motivi che subito balzano agli occhi di chi legge Pianissimo. Eppure la poesia di Sbarbaro non si esaurisce in questa negazione. In essa si trova anche un profondo amore per la natura, che appare specialmente dalla poesia che inizia: «Il mio cuore si gonfia per te, Terra / come la zolla a primavera» e seguita con versi che sono tra i più limpidi ed effusivamente arresi di questo poeta.
Tale amore per la natura ha largo spazio nei Trucioli. Si vedano ad esempio quelli dedicati a Spotorno ed a Noli, che sono tra i più apertamente lirici della raccolta; tra quelli cioè nei quali la prosa assume più chiaramente il ritmo e lo slancio della poesia:
Spotorno, terra avara. Vi imbianca l'olivo, il sorbo vi
si carica di mazzetti duri. Ti siedi e taci sulla spiaggia sterposa di contro
a un pallido mare. Vi tremola a volte una manciata di zecchini; al largo passa
il guscio della petroliera.
Il greto abbacina. La montagna mostra bianche ferite. Negli orti le casette
screpolate rosee trasaliscono al passaggio del direttissimo. Allarga l'abitato
la voce della maretta.
Spotorno, paesaggio dell'anima; cielo che a guardarlo si beve...
Si vedano anche la pagina dedicata a Paraggi e quella in cui Sbarbaro parla dei licheni con l'entusiasmo di un neofita: «Mi ingombra la stanza, la impregna di sottobosco un erbario di licheni»; «Il lichene prospera dalla regione delle nubi agli scogli spruzzati dal mare»; «L'erbario è un campionario del mondo».
Ma ovunque la natura è vista nei Trucioli con uno sguardo di particolare partecipazione emotiva.
La sofferenza che la città provoca a Sbarbaro sparisce a contatto con la natura. In quella egli vaga senza speranza, simile ad un dannato tra altri dannati, in questa il cuore gli si placa e gli si fa leggera l'anima. Ritrova se stesso e si salva.
La voce di questo poeta diviene però particolarmente lieve e commossa allorché egli parla delle persone a cui è legato da più profondo affetto: il padre e la sorella.
Le due poesie che Sbarbaro dedica al padre, quelle che cominciano con i versi: «Padre, se anche tu non fossi il mio / padre, se anche fossi a me un estraneo,/ per te stesso egualmente t'amerei» e «Padre che muori tutti i giorni un poco,/ e ti scema la mente e più non vedi / con allargati occhi che i tuoi figli / e di te non t'accorgi e non rimpiangi...» sono tra le più alte che questo tema abbia ispirate.
Affettuosissima è pure la poesia in cui Sbarbaro si rivolge alla sorella e le parla con accenti di ritrovata speranza, riuscendo persino, lui che tutto aveva negato, a fare progetti per l'avvenire: «Forse un giorno, sorella, noi potremo / ritirarci sui monti, in una casa / dove passare il resto della vita./ E vivremo così in compagnia / dei maggiori fratelli, i fiumi e i boschi,/ pacificati con la nostra sorte...»: dove è evidente che il motivo degli affetti familiari tende a legarsi con quello dell'amore per la natura, nella quale il poeta vuole confondersi per trovare la propria autenticità umana.
Accanto allo Sbarbaro dell'estraneazione e dell'incomunicabilità, ecco allora un altro Sbarbaro, delicato e commosso, che sa parlarci dei più puri affetti con estrema sensibilità.
È lo stesso Sbarbaro che incontriamo nelle poesie di Rimanenze e dei Versi a Dina.
Fra le poesie di Rimanenze vanno ricordate almeno quelle dedicate a Voze e alla Liguria. Voze è una frazione di Noli, che il poeta canta con voce sommessa ma profonda, rievocando alcuni episodi della propria vita. «Voze, che sciacqui al sole la miseria / delle tue poche case, ammonticchiate / come pecore contro l'acquazzone;/ e come stipo di riposti lini / sai di spigo, di sale come rete /.../.
La poesia dedicata alla Liguria è forse quella che Sbarbaro scrisse con maggiore abbandono, e certo è uno dei canti più alti che i poeti liguri levarono alla loro Patria d'origine: «Scarsa lingua di terra che orla il mare,/ chiude la schiena arida dei monti;/ scavata da improvvisi fiumi; morsa / dal sale come l'anello d'ancoraggio;/ percorsa dalla fersa; combattuta / dai venti che ti recano dal largo / l'alghe e le procellarie / - ara di pietra sei, tra cielo e mare / levata, dove brucia la canicola / aromi di selvagge erbe». La poesia, che è molto lunga, così si conclude: «Fossi al tuo sole zolla che germoglia / il filuzzo dell'erba. Fossi pino / abbrancato al tuo tufo, cui nel crine / passa la mano ruvida aquilone./ Grappolo mi cocessi sui tuoi sassi».
I Versi a Dina sono gli unici versi d'amore scritti da Sbarbaro, e sono anche quelli nei quali il poeta si confessa con maggiore sincerità, aprendo totalmente la sua anima.
Qui il cerchio della solitudine si è spezzato; Sbarbaro è venuto a contatto con un'altra esistenza, che gli ha parlato e lo ha compreso.
Almeno per un istante il mondo ha cessato di essere per lui un deserto ed un amaro luogo di pena: «Ora che sei venuta,/ che con passo di danza sei entrata / nella mia vita / quasi folata in una stanza chiusa - / a festeggiarti, bene tanto atteso,/ le parole mi mancano e la voce / e tacerti vicino già mi basta».
Vero è che anche questo bene, improvvisamente giunto, presto dilegua e non resta di esso che l'ombra di un ricordo. Pure è valso a portare qualcosa nel vuoto di un'esistenza; a gettare una luce nel gelo di un'anima. E questo è già molto per chi non aveva veduto nel mondo che deserto e squallore.
È come un grappolo superstite, scoperto dal vignaiolo tra i pampini rossi. Dono impensato di una stagione ormai finita, dà gioia e asserena.
Giunta al termine della sua parabola, la poesia di Sbarbaro va dunque illimpidendosi: scopre il contatto umano e si tinge di immagini luminose.
Ne è una riprova la breve lirica che chiude l'edizione Scheiwiller delle sue poesie (1971): «La bambina che va sotto gli alberi / non ha che il peso della sua treccia,/ un fil di canto in gola», nella quale la tristezza, che pure al fondo permane, sembra per un attimo superata da quella visione della figuretta gentile che ci viene incontro con la sua grazia. Ed è una visione che disacerba e che placa la mente ed il cuore.
Ha scritto Giorgio Caproni in uno dei suoi articoli sui «liguri» che esiste in Sbarbaro, «sotto la apparente assenza di pietà, il filo d'oro d'un amore scontroso ma profondissimo per il prossimo», che «lega e tiene insieme, dandogli un alto significato morale, l'intera opera». Ed Adriano Guerrini, che conobbe Sbarbaro personalmente, ed anzi gli fu amico, così si espresse nel saggio sopra citato Il significato di Sbarbaro:
Bisogna... dire, rovesciando vecchi clichè, che Sbarbaro è uno degli scrittori più commossi ed umani del nostro mezzo secolo: commossi in modo vero e profondo, e perciò anche ritroso; ma, dietro la ligustica ritrosia, delicato, persino ingenuo.
Certo, Sbarbaro fu un uomo dall'acuta sensibilità, che la vita ferì, sicché egli si difese isolandosi. Laddove appare più arido e indifferente è perché più soffre. Ma basta scavare appena sotto la superficie della sua pagina per far scaturire la vera natura dell'autore: un essere capace di affetto e di pietà per il prossimo e di sincera e duratura amicizia (si vedano i suoi rapporti con Barile, Tomba, Natta, Pierangelo Baratono, ecc.).
Particolarmente significative a questo proposito sono le lettere che Sbarbaro scrisse ad Angelo Barile, pubblicate poi da Vanni Scheiwiller col titolo Cartoline in franchigia.
In esse Sbarbaro si manifesta in tutta la sua schiettezza, rivelando anche doti di insospettato umorismo, che a tratti affiorano qua e là dai suoi scritti, dai quali sempre emerge la maestria del prosatore, la chiara virtù dello stile, che appare in piena luce specialmente nei Trucioli e nei Fuochi fatui, dove il frammento, nato dall'esperienza vociana, dà i suoi frutti più consistenti.
È facile trovare nei Trucioli alcune delle pagine più compiute di Sbarbaro, scritte con quello stile sobrio e asciutto (Montale direbbe «scabro ed essenziale») che è proprio dei «liguri» e che pare rispecchiare certi aspetti della loro Terra, sospesa tra cielo e mare, imbevuta di salsedine e illuminata, specie in certe giornate nitide di tramontana, da un'accecante luce.
Quest'anno le agavi del litorale han messo il fiore: un'alberella
di pannocchie bionde, alloggio alle vespe. Sulla vertebra nuda della strada,
sui monti calvi e calcinati, luglio si accanisce. Scarnito all'osso, il paese
s'apre secca fauce sul mare, che ne elude la sete spruzzandolo di schiume amare.
Mi specchio ancora in questo paesaggio; questa aridità mi sostenta. Nell'ulivo
incassato nel muro mi riconosco, nello sterpo che vive, nella rena ardente.
Ma - per dissolvermi - guardare una volta bastava: filo d'erba anch'io, lucertola
su sasso...
(dove quel «dissolvermi» fa subito venire alla mente il montaliano «Svanire / è dunque la ventura delle venture» - Portami il girasole -).
Notevole è la ricerca stilistica compiuta da Sbarbaro in queste prose d'arte, le quali procedono in maniera nervosa, con rapide notazioni e spesso in modo ellittico, quasi isolando le parole per dar loro maggior risalto:
Amo l'acqua: la prima cosa viva; i fili strepitosi della
pioggia che ringiovanisce la terra; le gocce larghe e tepide di quella primaverile;
l'acquitrino, miniera di gemme malcelata dall'erbaglia; la lama d'acqua; la
massa verde del canale, calma e possente come la coppia dei bovi.
Ma più, questa fretta d'acqua: che schizza, salta fuori dai canalini,
innaffia, improvvisa pennacchi, sprizza iridi.
Sotto la sua voce, che empie il silenzio, s'ode il brusio degli insetti: canovaccio
che lacerano i gridi degli uccelli impazziti.
E si vedano i Fuochi fatui, dove spesso la prosa assume il ritmo e l'alone che sono propri della poesia, come avviene ad esempio in questo passo: «Marzo. Sul muro di cinta il tralcio del glicine s'incipria d'azzurro. Il fico è nell'orto un candelabro bianco che butta per sgranchirsi i bracci a capriccio e lingueggia qua e là di fiamme verdoline. Dal greto, vivo di nuovi ruscelli, giorno e notte squilla il rospo il tremulo assolo». (Ma si vedano anche altre pagine di questo libro, dove si trovano massime amare e pungenti, quali: «Nella vita come in trincea alzi la testa e fischiano le pallottole» e pensieri come: «Non fare l'arte, lasciala farsi», che sono estremamente indicativi del modo di porsi dello Sbarbaro di fronte all'attività letteraria).
Da ultimo i licheni. Sbarbaro si dedicò alla loro ricerca e al loro studio per lunghi anni, sino a diventare un esperto di fama internazionale in questa materia. Famosi sono i suoi erbari, che egli vendette anche all'estero. L'ultimo, quello a lui più caro, lo donò al Museo di Storia Naturale di Genova.
In una prosa dei Trucioli Sbarbaro ci racconta come approdò ai licheni, preso dalla sua «predilezione per le esistenze in sordina». In effetti il lichene, che come si sa è un incrocio tra un fungo e un'alga, per la sua capacità di adattamento alle condizioni climatiche più disparate, dalle zone equatoriali a quelle polari, diviene per Sbarbaro un po' il simbolo della vita che resiste nelle sue forme minime anche là dove ogni altra sua forma sparisce.
Grande è l'entusiasmo con il quale il nostro poeta ci parla dei licheni, affascinato dalla loro bellezza, ma anche preso dal significato che essi per lui assumono di esistenze appartate e schive, portatrici tuttavia della forza della natura, che ognora si rinnova.
«Anche oggi un lichene nuovo: il mondo non è finito di fare». È questo un pensiero dei Fuochi fatui, nel quale si affaccia la meraviglia di fronte ai miracoli della natura e un sentimento di serenità e di pace che sembra riconciliare il poeta con il Creato. Qui è lo Sbarbaro non della negazione ma quello dell'amore per la vita in tutte le sue manifestazioni, che sa chinarsi su di un fiore e intenerirsi per l'innocenza di un bimbo. Ed è lo Sbarbaro che in queste pagine abbiamo cercato.