IL CRISTALLO, 1987 XXIX 3 [stampa]

«ALL'ETERNO DAL TEMPO»: BIAGIO MARIN E IL CANTO DI UNA VITA

di BRUNO MAIER

Si è spento a Grado, il 24 dicembre 1985, Biagio Marin. Si è spento in quella Grado che lo aveva visto nascere nel lontano 1891 e che era rimasta costantemente il centro, a un tempo, della sua vita e della sua poesia. Marin, nella sua lunga e travagliata esistenza, ha avuto modo di soggiornare in Istria, a Firenze, a Gorizia e, per molti anni, a Trieste, che nel giugno dell'anno scorso lo ha proclamato, con una solenne e commossa cerimonia, cittadino onorario; e tutte queste diverse esperienze hanno naturalmente inciso sull'uomo e sul poeta; ma il cuore o, crocianamente, il «cuore del cuore» di Marin non si è mai staccato, idealmente, dalla sua «isola d'oro», dal suo «paese belo» che «tra sielo e mar par un castelo in aria»: da quell'«isola» e dal quel «paese» che egli ha saputo rendere uno dei luoghi universali della poesia: come la Recanati di Leopardi e la Trieste di Svevo e di Saba.

Tuttavia un compiuto approccio critico alla lirica in dialetto gradese di Marin - ora che egli è passato, per dirla con Dante, «all'eterno dal tempo» - non può puntare soltanto sul rapporto fra l'autore e la sua isola; e deve prendere in considerazione altri elementi che a quella singolarissima poesia hanno variamente contribuito. Così, è bensì necessario ricordare gli anni trascorsi da Marin, soprattutto durante la giovinezza, nell'isola nativa, dalla quale ha derivato non soltanto la tematica della sua lirica, ma anche un senso energico e intenso della vita, una peculiare esuberanza e anzi violenza di affetti, uno schietto amore della natura e del paesaggio e una religiosità profonda e tutta interiore; ma occorre tenere presente pure la sua partecipazione, insieme con l'amico Slataper, Carlo e Gianni Stuparich, Alberto Spaini, al movimento della «Voce» prezzoliniana, del quale condivise il proposito di essere sincero con se stesso e con gli altri, la tendenza allo scavo psicologico e la concezione «antiletteraria» della poesia; e ancora l'impegno di vivere in profondità, di badare all'essenziale, di mirare a quella «semplificazione» di cui allora parlavano concordi Slataper e Carlo Stuparich. Anche quel che di sano, di genuino, di «barbaro», non intaccato o adulterato dalla cultura, è avvertibile in lui, può segnare un punto di contatto fra Slataper e Marin: il quale è rimasto sostanzialmente fedele alla lezione «vociana», intesa come «persuasione» intima, come alta coscienza umana e morale, e quella lezione, tradotta in una forma di larga, aperta, fervida umanità, ha filtrato nel limpido, purissimo canto della sua poesia. Indice, questo, di una rara coerenza interiore, e della felicità di una vocazione artistica come poche altre feconda, e tale da improntare di sé un'intera vita.

In un processo di accostamento a Marin poeta è utile inoltre non dimenticare quel milieu triestino, nel quale egli così bene è venuto a inserirsi, con la sua concezione della poesia come assidua esplorazione autobiografica, come scandaglio psicologico, come confessione e, in particolare, come rappresentazione o rievocazione del «piccolo mondo» di Grado, e di quella specifica «epica paesana» che lo caratterizza, in chiave di universalità, non di bozzettismo o di folclore, ossia badando sempre alle ragioni profonde dell'umano vivere e patire. Analogamente conviene rammentare, su un piano culturale tutt'altro che privo di interferenze con la poesia, con la genesi, la sostanza, la struttura di questa, alcune sollecitanti letture, fatte da Marin specialmente negli anni giovanili, che non poterono non lasciare qualche traccia nella sua lirica: rileverò, così, per esempio, il suo amore, oltre e più che per Carducci (e in ispecie per il Carducci autore di «Davanti San Guido» e melanconico rievocatore della sua «triste primavera» toscana), per il Pascoli di Myricae e dei Poemetti, poeta del doloroso intimismo domestico, della povera gente di campagna, del paesaggio romagnolo, dei mesti colloqui, trascorsi da brividi surreali, con i morti; e ancora per certo D'Annunzio - caro anche a Slataper -, cantore solare e panico della natura; risalendo quindi verso Foscolo e Leopardi e la lirica romantica tedesca, da Goethe a Schiller e da Heine a Lenau, per giungere ad autori più recenti come Rilke, alcuni nostri ermetici e gli spagnoli Jiménez e Machado. Né va trascurata, in un ambito formale, la simpatia di Marin per le forme metriche chiuse, e soprattutto per le strofe tetrastiche, sia nella misura a maiore dell'endecasillabo a rima alternata o incrociata, sia in quella minore del settenario, del senario e del quinario; poiché proprio tali strofe conferiscono alla lirica mariniana quella musicalità che solum è sua e che ulteriormente sottolinea l'unicità, più che la rarità, di una simile attività poetica, beatamente ignara dell'avvicendarsi delle poetiche (dal crepuscolarismo all'ermetismo e al post-ermetismo), in un secolo come il nostro, in cui così spesso la cultura estingue l'ispirazione (cui Marin ha sempre, ostinatamente, romanticamente creduto) e la diffidenza per la melodia incoraggia una poesia che non suona e che nemmeno crea.

Ai fini di un avvicinamento alla lirica di Marin può riuscire opportuno richiamare alla memoria in sede teorica la distinzione, formulata da Pancrazi, fra «poesia dialettale» e «poesia in dialetto»; ma soltanto per asserire inequivocabilmente che quella di Marin è sempre e soltanto «poesia in dialetto», cioè poesia che, come ogni vera poesia, si costruisce o si crea il proprio linguaggio, coincidente, nel nostro caso, con la parlata gradese, accolta e sentita dall'autore come un'imprescindibile necessità espressiva e divenuta tutt'uno, attraverso un felice processo di selezione e di depuramento, con il mondo paesano da lui evocato e con la sua medesima presenza e dimensione umana. E se qualche relazione è istituibile per altezza di esito poetico, fra Marin e i triestini Saba e Giotti, ne risulterà dimostrata, una volta ancora, una certa somiglianza o identità di poetica, per cui anche la lirica mariniana tende a una costante condizione di autobiografia (ma meno «laica» e più pervasa da vibrazioni e suggestione religiose), e vuol essere, nel senso più lato dell'espressione, il «canto» di «una vita»; ma se ne dedurrà, al tempo stesso, la differenza fra Marin e gli altri due autori, e cioè l'originalità sorgiva e pregnante del primo: originalità che va ritrovata sia nell'accezione che ha per lui il termine «autobiografia» (a parte la connotazione di religiosità dianzi accennata), ovvero con una netta, graduale preminenza sui «fatti» delle ragioni interiori, del soliloquio segreto, della trivellazione psicologica risolta in musica, al di fuori di ogni appiglio o pretesto contingente; sia nella diversa tematica svolta; sia, soprattutto, nella differente maniera di sentire e di concepire la vita, propria del poeta di Grado. Gioverà insistere, anzi, su quest'ultimo punto, anche perché sarà così lecito entrare direttamente nel mondo umano e poetico di Marin. Il quale sente la vita con una prensile, sensuale, violenta, profonda (e talora crucciosa e polemica) carica affettiva, con una piena e calda adesione, alla luce di una pronta e schietta emotività, in un prevalere dell'amore (e non alludo soltanto all'amore per la donna, che pur ha tanta parte in questa lirica) su tutti gli altri affetti, e insieme con una disposizione che si può definire religiosa, fondata su un elevato senso dell'eterno, e talora su un moto di gratitudine verso l'esistenza e verso Dio, che si sono andati progressivamente accentuando con gli anni. E ancora propria di Marin la capacità di vedere il mondo - il suo mondo paesano e il suo stesso mondo interiore - con un fresco stupore di «meravegia», e di trascrivere in immagini di sorprendente, sempre fertile novità inventiva le «zogie», i dolori e le vicende della vita; e di sollevarle in un'aura di canto, in una tesa, quintessenziata melodia, cui talvolta pure Saba e Giotti mirano, ma non dissimulando la loro preferenza per una misura di poesia colloquiale, «raso terra», dove l'esito canoro è attenuato da pause e inarcamenti e si piega alle esigenze di una pensosa e sentenziosa saggezza.

Anche in Marin (e specialmente nell'ultimo Marin) si avverte una simile saggezza, con la corrispondente, aforistica ed epigrammatica dimensione di poesia; ma altrove va cercata una caratterizzazione psicologica dell'autore, capace di rendere ragione della sua lirica e dell'atteggiamento umano ed esistenziale che questa presuppone. Osserverò pertanto che è tipico di Marin presentarsi intero, «nuo» (per dirla alla sua maniera) nella sua poesia, non celare nulla di sé, offrirsi schiettamente al lettore con una ingenuità e un candore di fanciullo (un ricordo o una variante del «fanciullino» pascoliano?), che egli ha saputo, quasi miracolosamente, conservare nella sua vita, tutt'altro che priva di amarezze, dolori, sventure. Come il suo «Felisse Moro», Marin ha serbato «un cuor de puto / rico de canti d'oro inamorai»; ed è appunto questo candore fanciullesco, questa ingenuità di fronte alle cose, questa capacità di entusiasmo e di meraviglia - ch'è al tempo medesimo ricchezza di sentire, estro fantastico, esuberanza vitale -, che conferisce alla lirica mariniana il suo forte respiro umano e la sua poetica levità, il suo dono di canto. Sicché tale lirica, la quale sembra configurarsi come un costante stato di grazia che allieta di sé, quasi per prodigio, un'intera esistenza, mi fa pensare a quella bellissima, potente immagine vichiana dei «grandi fiumi», i quali per la «violenza del corso» conservano «dolci le acque» dopoché, «sono entrati nel mare». Penso che una simile immagine non sarebbe dispiaciuta a Marin; la cui poesia è un fiume che scorre e si mantiene «dolce» nel gran mare, spesso tempestoso, della sua vita, e anzi, con il passare degli anni, lungi dall'estinguersi o dall'illanguidirsi, si fa più intensa, più limpida, e brucia con la sua fiamma, con il suo «fogo» di «ponente» ogni scoria, anche ogni pretesto tematico, per sublimarsi, scorporata, in musica e in canto.

Con tali osservazioni è possibile intendere i caratteri e gli aspetti della poesia di Marin, che si presenta, si diceva, come il canto di tutta una vita, ovvero come un'intera vita risolta e trascritta in canto. Un canto che non è, come qualcuno ha detto, immobile, ma che ha, al contrario, una sua storia e si è svolto coerentemente nel tempo per oltre un settantennio. Tale canto è alimentato dall'amore di Marin per la sua isola: un amore straordinariamente complesso, intessuto insieme di entusiasmo e di melanconia, di esultanza e di amarezza, di vitalità e di angoscia, il quale dà i più alti risultati artistici quando Marini scava nel serbatoio della memoria o vagheggia la sua isola a distanza (non necessariamente fisica), o con lirico e pur partecipe distacco, e la canta con passione d'innamorato, riassapora i momenti di gioia, e soprattutto d'amore, che vi ha conosciuto, e rappresenta le persone e il paesaggio a lui cari in accenti di volta in volta casti o sensuali, delicati o crucciosi, appassionati o religiosi, teneri o energici; ed esprime la felicità dell'amore e della vita e il senso accorato e dolente della morte, il tenace attaccamento alle belle cose dell'esistenza e l'elevazione al divino, il conforto dell'amicizia, il riscatto e il superamento del dolore nel quasi quotidiano esercizio poetico («Amor y poesia, cada dia»!), sentito come una vittoria sul tempo e un'aspirazione all'eterno. Una simile disposizione affettiva dimostra come Marin, anche quando più direttamente rappresenta la sua isola, non scade mai nell'illustrazione paesana, non ha mai la curiosità di chi si avvicina a un mondo interessante, ma irriducibilmente estraneo. Egli si sente sempre, invece, parte viva del mondo che raffigura; e lo raffigura dall'interno, in un'ottica tutta interiore, sia per la possibilità di facili trasposizioni simboliche (come avviene nella citata lirica Felisse Moro, e in tante altre), sia per quel filone autobiografico, che ricorre costantemente nei suoi componimenti e sta a suggellare, una volta di più, la felice identificazione del poeta con la sua isola, di «epica paesana» e d'introspezione, di sollecitazioni oggettive e d'interventi psicologici e affettivi.

Ho parlato di «epica paesana» e di «introspezione»: sono queste le due componenti, intimamente fuse e compenetrate, della poesia di Marin; e un loro esame diacronico può far vedere come sia stato differente, nel tempo, il modo di mediazione, di convergenza, d'incontro dei due termini anzidetti e come la parabola della lirica mariniana, considerata nel suo insieme, venga a registrare una graduale preminenza dell'introspezione o delle spinte introspettive, sino al totale assorbimento e ridimensionamento, all'interno di queste, della tematica gradese, sollevata a livello di memoria, di mito, di sogno, di occasione figurativa o ideale. Quello che ho definito il canto di una vita si è venuto evolvendo, in altre parole, con lo svolgersi della vita del poeta: pertanto, se nelle sue prime raccolte di liriche, come Fiuri de tapo (1912), La girlanda de gno suo re (1922), Cansone picule (1927), e in parte delle composizioni riunite in I canti de l'Isola (1951) si ritrova una passionale, impetuosa, violenta adesione del poeta al suo mondo gradese, e la poesia trabocca di affetti ed è colma di figure, di scorci paesistici, di esperienze di vita, d'amore, di dolore, né evita talora la misura distesa del «poemetto», già ne Canti de l'Isola e soprattutto nelle sillogi successive, da Senere tolde a Lontane rade (1985), si avverte che a poco a poco l'accennata adesione si fa più sottile e profonda, nel senso che non è più rispondenza immediata, rapporto d'identità, ma diventa struggimento, nostalgia, rimpianto, sogno, memoria, in relazione al passare del tempo e allo scorrere della vita del poeta dalla maturità verso la vecchiaia e l'appressamento della morte, con il conseguente mutamento del suo sentire nei confronti dell'esistenza. Sicché viene a determinarsi uno stato d'animo caratterizzato da un'intuizione pessimistica del fatale, inarrestabile svolgersi della vita, da un'atmosfera di stanchezza e di «manincunia», da un più vivo e assorto sentimento religioso, e ancora dal desiderio di ricuperare un lieto passato, di rievocare delle figure di donne o di amici e delle prospettive paesistiche, da una pensosa saggezza che la maturità e poi la senilità comportano e che approfondisce la medesima poesia. Ma tutto ciò non significa rinuncia alla vita; e la lunga, prodigiosa stagione di poesia che dai Canti de l'Isola giunge a Lontane rade è contraddistinta, sì, da quel patetico dispiegarsi della memoria, di cui si diceva, ma anche, e più, dall'accendersi di sempre nuovi bagliori di vita, di nuovi entusiasmi, di nuove «vogie», di nuove «meravegie», di nuovi slanci e fervori sentimentali che illuminano la condizione senile del poeta: una metaforica «estadela de San Martin», una «fioritura nova» e soprendente, allorché non la si attende più, di «fin d'aprii», poiché esiste una giovinezza metafisica, trascendentale, che il poeta porta con sé ed è tutt'uno con la sua facoltà poetica: «Credème a mi: l'istae / no la finissi mai / se la porté nel sangue / co' duti i siei stelai». Così dice Marin; e ci dà la chiave per capire la «seconda» stagione della sua poesia: una stagione che non è un tramonto, pur se dorato, ma coincide invece con il conseguimento delle vette più alte e ha il significato di un approdo trionfale. Poiché mai come in questi componimenti degli ultimi decenni Marin ha raggiunto l'estrema purezza e «rastremazione» lirica, in una poesia ch'è tutta soliloquio, interiorità, musica.

E evidente, quindi, che c'è un'evoluzione nell'itinerario poetico di Marin; e se è vero che egli è potenzialmente già tutto in Fiuri de tapo, è anche, e più, vero che l'organizzazione e strutturazione lirica dei suoi dati elementari (mare, cielo, «corcali», «mamole» e «mamolusse», «pescauri», ecc.), come attraverso un abile e raffinato gioco caleidoscopico, diventano sempre più perfette, preziose, assolute: anzi, tanto meno è forte il peso delle «cose», tanto più si afferma, vittorioso e terso, il canto della poesia. Dall'esterno all'interno, dall'analisi alla sintesi, dalla realtà alla memoria, all'emblema, al sogno: tale è la carriera poetica di Marin, le cui liriche migliori sono indubbiamente quelle dove l'endiadi «epica paesana» - «introspezione» poggia il suo accento sul secondo termine, e il primo termine è ridotto a eco, a suggestione remota, a ombra mesta o lieta, e diventa per il poeta un'occasione o un avvio a guardare dentro di sé, a esplorare la sua vita di «povaro Cristo», a rievocare un tempo lontano e trovare ancora la forza di vivere, di amare, di godere delle bellezze del mondo, di pregare, di attendere serenamente l'arrivo della «sera de le sere». E il significato più profondo della poesia di Biagio Marin (anche in una prospettiva di storia letteraria nazionale ed europea) è proprio in questa serena attesa della morte, in questa tensione all'eterno, in questo interrogare se stesso in una condizione che unisce i lineamenti amati del paesaggio gradese alla dimensione dell'assoluto, in una equazione di poesia-preghiera, di poesia-rito e liturgia: «No xe strà che porta a Dio / cussì drita comò 'l canto: / cu chi canta xe za un santo, / ala in siel che va al so nio».