IL CRISTALLO, 1987 XXIX 3 [stampa]

LA POESIA DI G.A. BORGESE

di ALDO CAPASSO

Correva l'anno 1914; e dietro i poeti italiani c'erano le musiche della grande triade, Carducci Pascoli D'Annunzio; e intorno, dominante, c'era l'atmosfera, c'era il mondo dei «crepuscolari»: in toni dimessi (che a loro parevano, e non sempre erano, sicuro usbergo contro la temuta tirannica influenza dannunziana), garbate autoironie, fievoli malinconie, e talora infantilismi inutilmente ostentati. Ed ecco, un poeta solitario che, allora risiedeva in Roma, ed aveva l'anima inquieta e triste, affacciandosi alla sua finestra distingueva soltanto una grande cupola, solida isola, e tutto intorno il verde di alberi e alberi, che fingevano una immensa boscaglia. Questa gli parve una contrapposizione fra la disordinata, caotica libertà della Natura (crudele, si sa, ai suoi figli e a sé medesima) ed una religione e tradizione precisa e ordinata, ma dogmatica e autoritaria, forse consolante ma sempre imprigionante. Tranne quel dilemma, gli parve non ci fosse altro, nella vita degli uomini. «Così infausto mi pare tutto quel che vedo e quel che sento / da questa mia finestra spalancata:/ alberi cupi e una cupola con una croce.» «...il parco si congiunge ai colli, e pare un'impervia foresta, / e la cupola che ne emerge, liscia e sublime, è incredibile come un'isola architettonica e inaccessibile / in mezzo a un disperato oceano. / Forse non v'è altra scelta nel mondo: / o l'Oceano o quell'isola, o la foresta o la Chiesa...». O la brutalità della Natura o la disciplina del carcere? Il poeta non sa accettare né l'uno né l'altro corno del dilemma; e scoraggiato s'allontana dalla finestra, vuol tornare al lavoro; si volge verso le cose della sua vita consueta: il suo studio, la sua libreria, libri e libri che a volte gli parvero suggerire alti e cari ideali. Oggi tale consolazione non vale, oggi essa gli si muta in sarcasmo: «Sardonicamente mi sorridi oggi, Ideale, dai miei libri e dalle mie carte, / Ideale di libreria, / invitandomi alle nostre consuete marce nei reami della Storia, / nei paesaggi della Memoria, / ove...». Ove, che cosa? ove scaturisce una nota sarcastica che ci fa ripensare alle «magnifiche sorti e progressive» schernite dal Leopardi: «... ove possiamo esplorare il filone sotterraneo / che ci sveli le origini / di questa prodigiosa civiltà contemporanea.» E non sopraggiunge altra conclusione dopo il sarcasmo.

Era il giugno 1914; nell'agosto sarebbe cominciata una delle più crudeli guerre della storia; dopo la quale molti sarebbero giunti a meditare sul «crepuscolo dell'Occidente». Lo scoraggiamento non era gratuito, dunque.

Ma il critico letterario si trova a sottolineare quella data per un'altra ragione: perché, se riflette, discerne che stava spuntando - e proprio in Italia - un nuovo modo di poesia, di tono colloquiale, quasi prosastico, non per malinconie «crepuscolari», non per canzoncine acidule, bensì per una poetica meditazione sui più duri problemi esistenziali.

Scrivemmo già un'altra volta (in Sicilia: La lucerna, Vittoria, nov.-dic. 1962) di questa ampia pensosissima lirica intitolata «Prefazione», notando come essa pur nella sua veste ritmica, fosse molto vicina ai fascini e alle suggestioni della «prosa d'arte». (Che è pur essa - quando riesce - una forma di poesia.)

Era vero. Ma oggi, dopo tutti gli anni trascorsi dal '62 in qua, mentre la poesia italiana pare ancor sempre irretita nelle sue lunghe incertezze, altro dobbiamo sottolineare. Intanto, la stagione trionfale della «prosa d'arte» italiana - quella della «Ronda» - non s'era ancora iniziata; e non i rondisti, dunque, potevano porgere un aiuto a quel poeta novatore.

Tra poco (dopo la grande guerra) si sarebbe diffusa la rinomanza di T.S.Eliot, che quanto a toni prosastici molto insegnò al Montale e ad altri; allora, il Borgese, ovviamente, di Eliot non conosceva nemmeno il nome. (Né, poi, si sarebbe entusiasmato, dell'Eliot, tanto da perdonargli certe sue brusche fratture). Senza alcun viatico da Eliot, egli, nei fatti, rinnovava la lirica italiana, approdando (quasi tutte le Poesie borgesiane, apparse in volume nel 1922, rimontano agli anni '14-'19) alla (fortunata) ricerca di «adottare alla lirica la prosa alzandola a recitativi, e sciogliere il cantabile nella comunicativa del colloquio».

Un'arte che quasi diremmo famigliare, di toni attutiti, ma non per autoironie, bensì per meditazione (meditazione commossa, e per ciò con alta possibilità poetica) sui temi più aspri e complessi del nostro moderno pessimismo e della nostra umana povertà.

Tutto un filone di poesia (ricordiamo Giulio Caprin, poeta del tormento della vecchiaia, il più maturo Ugo Betti, Cesarina Rossi, il meglio del Lionello Fiumi ultimo, tante pagine belle di Giorgio Bassani o di Silvano Demarchi...) si sarebbe svolto da quel primo punto di partenza. Tentarono, gli ermetici e gli ermetizzanti, avidi di «misteri» mallarmeani e rimbaldiani, di far dimenticare questo filone, - anzi di non vederlo; ma esso sussiste, e s'impone come una realtà di prim'ordine.

 

Voler dimenticare, obliterare quella prima grande réussite del Borgese, significa alterare e falsare tutto l'andamento storico della poesia di questo secolo; tanto più che con le Poesie borgesiane, oltre a un modo nobile e pensoso di utilizzare i toni bassi e «prosastici», cominciava anche altro: la famiglia dei nuovi poeti pessimisti, degli espressori del «pessimismo» fondato su una società che ha via via perduto le certezze religiose e molte certezze filosofiche. Pochi anni dopo la impetuosa «laus vitae» del d'Annunzio e mentre Marinetti e i suoi futuristi cercavano di accettare rumorosamente tutto ciò che fosse recente e meccanico e magari «babelico», il Borgese parlava, al cuore umano, della caducità del mistero, della perenne incertitudine, dei poveri desideri d'un riposo pieno e definitivo. Ancora non s'era udita la voce del Montale primo e migliore, che pur egli diceva il «male di vivere». E poi gli «ermetici», coloro che più onorarono il Montale (ma, più del primo, il secondo e minore) crearono un'orchestra di musicalità troppo raffinate che dell'angoscia cosmica non potevano dir molto; e per l'appunto operarono per rigettare ai margini i veraci nuovi espressori del «pessimismo» contemporaneo: il Betti (in realtà, il Betti poeta non è inferiore al drammaturgo), il Caprin vecchio e tragico, ed altri ancora: gli ideali continuatori del Borgese. Più che mai il disegno storico del presente secolo viene confuso e mutilato, così.

Ma ascoltiamo il Borgese quando le religiose o teosofiche ipotesi e domande - di cui si mostrò tanto informato nel romanzo de I vivi e i morti - gli fecero temere altre vite dopo questa faticosa vita terrestre:

«Se rilutto ad un travaglio sterile, o m'incombe un'ora oscura,
se mi punge coi suoi denti attossicati la maligna Cura,
penso al Tempo che nel gelido risucchio del suo fosco volo
anche quest'amaro giorno porta via, e così me ne consolo.
Ma alla pena un'altra pena incalza, si rinnova la fatica,
sopra un'onda che s'adagia, s'accavalla un'altra onda nemica,
e non v'è misericordia se non quella dell'estrema pace
che discende diaccia sopra gli occhi vitrei di chi spento giace.
Sicché so che cosa intendo quando sale su dal cuor mio triste
l'implorazione sconsolata: transeat a me calix iste.
Lo conosco il nome della cheta, macilenta filatrice
che m'ascolta e, trattenendo tra le dita un breve stame, dice:
passerà, sì che passerà.

Il nuovo poeta rifugge dalle vecchie mitologie, ed evita di nominare, ancora una volta, dopo il Panini, dopo il Foscolo, le Parche. Ma la Parca è lì, nel suo pensiero: una filatrice cheta e macilenta, senza dubbio stanca come lui stesso: una figura benigna, che vede la brevità del suo stame, e può dunque bisbigliargli un conforto chiaro: passerà da lui il calice temuto, tutto tutto passerà.

Se le pene sono tante e s'incalzano l'una su l'altra, se tanti nostri travagli sono sterili, se gli assalti della Cura sono frequentissimi, sussiste un conforto: la vita è cosa breve, e avrà pur fine.

Ma è proprio vero? anche questo sollievo è transitorio, poiché nemmeno la pace dei morti è cosa davvero sicura.

....Ma non cedere all'inganno di parole vane. Tu lo sai che anche il sonno
della morte ha il suo domani, che ti sveglierai,
ed il fiume torbo della vita, pur
mutando argini e corso
volgerà gli stessi flutti d'ansia, di
rimpianto, di rimorso.
Perciò è meglio che tu, vigile in un
lucido, arido coraggio,
sappi riconoscere il deserto ove finge oasi il miraggio,
sappi che, se il canto dell'aurora ti promette una chimera,
mente anche la cara squillo pacificatrice della sera.
Non ha porte onde il recluso evada la prigione della vita,
e perfino la speranza della morte gli sarà tradita.
Anche tu, povero cristo, chiedi: Eli, Eli, lamma sabactani?;
ma anche in cielo all'oggi che tramonta segue identico il domani.
Non passerà, non passerà («Immortalità»).

Nemmeno la morte potrà dare definitiva pace? alla morte seguiranno altre vite, senza fine? Per chi è stanco, questo è un pensiero terribile; e, almeno in questo momento, par sicuro, perché diventa norma il credere, sempre, al peggio. E la squilla della sera, mesta, che è confortante per chi attendeva il riposo, il silenzio, le tenebre notturne, appare, ecco, ingannatrice, a suo modo, quanto le presunzioni dell'aurora. Ma era pur stata di conforto: e si percepisce, nella voce poetica, non so che ultimo residuo di tenerezza, nel nominarla.

Poesia senza illusioni, poesia amara.

Ma un tanto «pessimismo» genera, in un cuore ben fatto, sensi di pietà e fraternità verso le altre creature soggette allo stesso destino; ed una delle più belle poesie borgesiane è ispirata dalla morte, tacita anonima, d'una ragazzetta ancora scolara - che fa pur pensare al destino delle donne in genere, povere creature subalterne.

Due giornate assai dolci ha la donna: - dice una voce che suona
da pallide lontananze, perdutamente mesta -
quando a lei sposa si dischiude la porta
della nuova casa, ed essa il fiorito limitare ne sale,
e quando poi la riportano via morta.
Tu, giovinetta, non hai avuto che un solo giorno di festa:
quando le compagne t'hanno attesa alla porta dell'ospedale,
reggendo nelle mani ruvide di geloni grandi ceri.
E il tuo debole capo non ha conosciuto che una corona:
quella dei tuoi pesanti capelli neri.
Ma sapessi che ha da sopportare fra le nozze e il funerale
una povera donna, fra l'una e l'altra sua giornata buona!
Coi tuoi occhi di capriola spaurita, con le tue spalle strette,
troppo strette per quel peso, meglio avere avuto solo questa,
delle due giornate che l'antica voce promette.

La lirica è estremamente nuova ed originale rispetto a tutti i precedenti immediati, che ancora tenevano il campo. Ben diversa, non soltanto dagli esempi della grande triade, ma anche dal modo in cui il «pessimismo» era stato espresso da Arturo Graf. Il suo singolare fascino proviene soprattutto da una vox poetica dolente e insieme sobria, pietosa eppure d'una emotività severamente dominata e controllata. Questo dolore calmo, seminascosto, ci tocca ben più che la scoperta lamentazione, quale quella di un Sergio Corazzini.

Pietoso affetto il Poeta esprime per la ragazzetta dagli occhi spauriti; ma la

riconosce fortunata ben più di tante altre donne, che non sono morte presto, che a lungo hanno dovuto attendere la seconda loro grande giornata. Egli ovviamente non pensa alle poche donne che, allora, si cimentavano con le attività maschili, sì alla fatica oscura, pazienza oscura, eroismi oscuri, delle «casalinghe», delle donne che, dalle epoche più lontane, senza gloria sostenevano il peso delle loro famiglie sulle non erculee spalle. Comprensione profonda – in quella voce non imitabile - e autentica fraternità.

Un altro esempio istruttivo troviamo nella lirica «Due mazzi di fiori».

Stavo in un piroscafo ancora dentro il porto di Messina
dopo il terremoto, quando
ancora qualche putrefatto avanzo
spenzolava giù dai rotti cornicioni della Palazzata.
Una sera entrò con pochi fiori gracili una signorina,
e, donandoli alla nostra comitiva che sedeva a pranzo:
Ecco, disse, sopra le rovine già la primavera è nata.
L'altro mazzo, proprio di rose e viole come in un sonetto,
una bella donna me lo portò a casa, mentre pei viali
il buon nonno Inverno, ridacchiando dentro la barba, fuggiva,
inseguito dai raggianti gridi del febbraio giovinetto.
Era il giorno che con grandi lettere annunziavano i giornali.
che su tutti i fronti, dalle Fiandre all'Asia, cominciava l'offensiva.
Son sfioriti già da molto tempo, ma di quei due mazzi
non potrò dimenticarmi, e vorrei quasi chiederne perdono:
a coloro cui la morte, come un boia, al fare del mattino
risvegliò squassando il caldo letto, e li fissò con occhi pazzi;
e a chi. nel balzarle incontro con la baionetta a capo prono,
per non la guardare in volto cacciò un urlo cieco da assassino.

Pietà sull'uomo, comunque sia condannato a patire l'incontro fra la vita e la morte; pietà su tutto quanto è assurdo nel mistero esistenziale. Pietà su quanti - colpiti dal Fato nel modo più brusco e imprevedibile - possedettero appena pochi attimi tra il risveglio e l'agonia, e uguale pietà su quanti, uscendo dalla trincea, ebbero un po' di tempo per misurare ciò che affrontavano. Né si creda, per quell'ultimo terribile verso con quell'«urlo cieco da assassino», che il Borgese fosse uno zelatore degli utopici pacifismi al modo di oggi: era stato interventista, volontario, buon combattente. Ma l'accettazione dell'andare in armi al servizio della Patria, non gli impediva di vedere la tragedia là dove essa stava, e, nella guerra anche giusta, altri modi ancora, per l'uomo, di subire il tallone ferreo del Destino.

O si veda come, nelle liriche «Sinalunga» e «Il primo dei miei morti», il «pessimismo» già definito e il senso profondo dell'amicizia si fondano, con una dolcezza quasi straziante. L'amico, Marcello Taddei, amava leggere i poeti, nutrire grandi sogni, prepararsi all'avvenire: morì presto, presto, e avvenire non ci fu. «Voglio ricordarmi come eri puro e bello, / quando declamavi i poeti o parlavi dell'avvenire...». E la tenera pietà è anche per i fratelli, di lui che vivono ancora, ma non per realizzare miraggi, utopica bellezza: «I fratelli errano nel vento della vita come foglie esulate / dall'albero che fiorì, senza legare, in una stagione remota. / Non hanno ricordi né canzoni: picchiano pallidi a lontane / porte, cercando nel grande mondo nient'altro che un piccolo pane...». E - come sempre - pietà su tutti gli uomini; i cui diversi itinerari, in fondo, sono sempre così uguali: «... Tu sei il primo dei miei morti, Marcello, / quello che hai rinnovato il mio cimitero. / M'hai insegnato tu l'odore della terra smossa. / Ogni ragazzo viene su in un suo bel verziere, / ove un giorno seppellirà l'amico, poi il fratello; / e le buche s'aprono via via, sempre più da presso, / finché, quand'è pieno, si cerca il posto per la sua fossa».

 

Le liriche che abbiamo menzionate sin qui fanno parte d'un gruppo magnifico, dove la tonalità «prosastica» permette effetti d'una dolorosa originalità indiscutibile. Un gruppo di cui indichiamo qui, in ordine, tutti i titolo: «Tutta la notte ho sognato»; - «A Maria»; - «Prefazione»; - «Sinalunga»; - «L'albero precoce»; - «Storia di un anno»; - «Immortalità»; - «Le due giornate»; - «Partenza da Parigi»; - «La stella filante»; - «la voce lontana»; - «Un amico»; - «Gli arrivi»; - «Il racconto»; - «Il primo dei miei morti»; - «La giovinezza».

Ma altre poesie, a cui possiamo rimproverare qualche lieve menda, non sono di molto al di sotto: anche se toccano motivi meno intensi e un po' diversi. Citiamo «Le dimenticanze», «Waterloo»; «Concerto romano»; «Selezione sessuale»; e quelle limitate dalla estrema brevità: «Ritmo e coscienza»; - «Bloccato»; «Dentro e fuori»; - «Congedi». (Né è privo di virtù l'unico canto umoresco, «Il viaggio meraviglioso di Pirro Spicchi», dove felicemente, il ritmo ridiventa, con versi brevi, cantabile...)

Non abbiamo sin qui nominato quello che parve il punto debole del libro, e perciò fu sfruttato dall'astio di Alfredo Gargiulo a fini stroncatori: «In realtà, nonostante qualche rima, è una bella prosa d'arte».