IL CRISTALLO, 1984 XXVI 2 | [stampa] |
Willy Valier - Uccelli - cm. 50 x 60 - 1956
Come fosse la vita in un sommergibile non me lo so immaginare né come ve l'abbia trascorsa Willy Valier che intorno al 1940, partito da casa studente, era finito, con decisione improvvisa, nei mari del Nord, entro un tale arnese della marina germanica, per desiderio d'avventura, suppongo, un po' romantico e un po' letterario, determinato probabilmente dal ricordo di passate letture e dalla incondizionata ammirazione di eroi «esemplari» quali quelli di Giulio Verne: «Bei tenebrosi», personaggi alla Byron, ma allo stesso tempo «scienziati lucidi e meticolosi ricercatori» che avevano colpito la sua fervida fantasia.
Posso, invece, facilmente arguire che altro fosse il viaggiare con l'immaginazione per «nobili fini», accanto al capitano Nemo, a bordo del Nautilus, verso «l'Isola misteriosa», od il percorrere al suo fianco «Ventimila leghe sotto i mari» dallo stare realmente rinchiusi in spazi angusti, dall'immergersi nei profondi oceani e dal riemergerne portatori di morte, timorosi di agguati, disperati, serrati in una possibile bara di ferro, affidati ad un periscopio, agli ecogoniometri, agli idrofoni, condizionati dalla retorica dell'eroismo, dal concetto di supremazia razziale, strumenti violentati della violenza e della mistificazione di quei tempi.
Allora, in terra, nelle acque, nei cieli milioni di individui, supini a volontà prevaricatrici furono posti inconsapevoli ma a volte, ahimè, consapevoli al servizio delle deliranti idee di dominio che investirono e sconvolsero il mondo precipitandolo nella catastrofe.
Ma quando finalmente il sipario calò sulla irragionevole tragedia e gli uomini storditi, avviliti, umiliati, abbandonarono con orrore il campo sciamando per tutte le strade del ritorno verso nuove sicurezze per accertarsi dell'esistenza di altri valori, inalienabili, insopprimibili quali la libera convivenza pacifica ed armoniosa delle popolazioni, la solidarietà umana, l'amicizia, la cultura e l'arte Willy Valier era con loro.
Traversò l'Europa fuggendo i tempi dell'inganno e dell'infamia, oltrepassò i desolati teatri delle battaglie, inorridì al cospetto delle devastazioni e delle rovine, lottò per sopravvivere tra le insidie della situazione, favorito da rare solidarietà, per giungere, finalmente, al termine del lungo, tragico viaggio, quando stava per concludersi l'anno 1945.
Che anno quel 1945! L'insurrezione di primavera era stata seguita dalla fucilazione di Mussolini, dal suicidio di Hitler, dalla fine del conflitto nel continente, dalle terrificanti esplosioni di Hiroschima e Nagasaki e dal sopraggiungere di altre forti tensioni che già prospettavano l'esordio di due epoche, dopoguerra ed era atomica, che purtroppo non avrebbero realizzato quanto era nei voti né soddisfatto le aspettative della gente, deludendo e frustrando le speranze appena sorte, per il persistere ed il prevalere di vecchie ideologie conservatrici e nuovi egoismi, in una società che intendeva ancora strumentalizzare l'uomo anziché porsi al suo servizio.
Willy Valier giunto a Bolzano vi trova, una situazione assai diversa da quella lasciata cinque anni prima; la guerra traversando il territorio aveva scavato profondo: antiche ferite e nuove lacerazioni non potevano cicatrizzarsi per il riemergere e l'incombere di problemi insoluti di grande portata che si riproponevano con impeto e passione rinnovata, quali il destino di un gruppo etnico «condizionato dal corso della storia».
Su questi argomenti si erano accesi i dibattiti e si acuivano le tensioni delle popolazioni che affrontavano con veemenza i temi dell'autodecisione e dell'autonomia traendo pochi motivi di sollievo dagli accordi di Parigi, stipulati nel 1947, per la loro inadeguatezza.
In un clima di sfiducia reciproca le rivalità accese, alimentate da opposti e complementari nazionalismi, oltre a permanere, andavano riproducendosi via via trovando sostegno soprattutto nei venti anni di coercizione fascista e nei dodici di nazismo che avevano determinato l'isolamento di molti territori ed in particolare del Sudtirolo, dalle correnti di sviluppo del pensiero europeo nei suoi vari aspetti, non escluso quello artistico.
Faceva sentire, inoltre, il suo peso negativo il fatto che non si fosse coagulato, in loco, nessun gruppo di lotta contro l'oppressione dei regimi dittatoriali e non fosse quindi sorto un movimento popolare di liberazione, territoriale od almeno intellettuale, morale e culturale capace oltreché di abbattere le chiusure verso l'esterno che al contrario tendevano a farsi sempre più ermetiche, di spingere singoli e collettività verso indagini non opportunistiche ma impietose nei confronti del recente passato che tanto gravava sul presente, impedendo persino gli approcci ai grandi temi della vita emersi nella società austriaca già nei primi anni del secolo.
Infatti i linguaggi della Secessione, quelli di Kokoschka nella pittura e di Schönberg nella musica, come le proposte architettoniche e le voci della scuola viennese, dal neopositivismo alla psicanalisi freudiana che avevano fatto saltare rassicuranti certezze e modelli consolidati, sociali ed individuali, scavando nella vita oscura e contraddittoria dell'inconscio, spentesi nella crisi liberale o nelle repressioni dei movimenti socialisti, assieme alle proposte delle avanguardie europee, stentavano ancora a farsi strada a causa del tardo sviluppo della borghesia locale. Essa era affetta da grosse difficoltà di rimozione, dalla coscienza individuale e collettiva, delle teorie e delle opinioni che accumunavano il «moderno» al «degenere» e da un forte conservatorismo che si aggiungeva agli altri motivi di isolamento, in difesa di una identità etnica che doveva sì essere preservata e tutelata, ma non pietrificata.
È in questo ambiente ed in queste atmosfere che si precisa in Valier la necessità e la volontà di svolgere un discorso proprio, riprendendo un tipo di comunicazione che già aveva sperimentato molti anni prima con aspetti e modi naturalistici.
Attraverso quali prove esistenziali egli sia giunto a questa scelta, quali fatti della esperienza pratica abbiano inciso sul suo destino di uomo, sulla sua determinazione, forse è impossibile stabilirlo ma non vi è dubbio che oltre alle «inclinazioni» naturali, abbia influito su di lui il percepire in fondo all'animo, il bisogno di trasporre il complesso delle proprie conoscenze, sociali e specifiche, in termini di poetica, di forme e di colori.
Da molto tempo ormai l'artista ha cessato di essere ritenuto una personalità marginale e nessuno gli nega più una funzione intellettuale ed universale; la leggenda dell'artista sradicato, privo di doveri e legami nei confronti della collettività, al di sopra delle parti, è cessata da un pezzo a favore della concezione dell'artista formatosi nel travaglio generale, nell'impegno ed attraverso un tirocinio, non superficiale, tecnico e manuale. Di ciò consapevole Valier cresce in sé l'ansia e si prospetta l'esigenza di attingere alle autentiche sorgenti della cultura dandosi una formazione teorica e pratica che lo renda capace di assimilare i messaggi più avanzati dell'arte europea e della società civile. Ne consegue irrevocabile la decisione di dedicarsi alla pittura pienamente, attraverso una via da individuare ancora ma che si chiarirà man mano, col procedere delle esperienze, percorrendo un difficile itinerario che lo porterà nel tempo a divenire un produttore di immagini, un ricercatore, uno sperimentatore di forme espressive relative ed adeguate alla realtà materiale ed umana analizzata, a volte con tenerezza ed abbandono, a volte con asprezza, sempre con passionale trasporto e senza infingimenti.
Willy Valier - cm. 35 x 50 - Composizione - 1956 - Proprietà:
Arch. dott. Rolando Veneri - Bolzano
Dal ristretto orizzonte provinciale Willy Valier si affaccia sulla scena europea, cercando di superare limiti etnici e folcloristici, evadendo inoltre dai pericolosi sedimenti romantici legati agli aspetti deteriori di un certo paesaggismo e figurativismo locale; in realtà egli cerca di rendersi conto dei giusti indirizzi verso i quali avviarsi per scoprire i miti di una simbologia corrispondente alle sue necessità espressive, pertinente alla vita moderna ma che contemporaneamente abbia presenti memorie ormai in lui connaturate, intrise di connotati contrastanti ed anche polemici.
L'orientamento in quei tempi, per un giovane artista, era reso ulteriormente difficile dal presentarsi concomitante e tumultuoso di almeno tre tendenze principali ognuna delle quali trovava le proprie radici e motivazioni nella linea di sviluppo della cultura del secolo e nei suoi vertici più rappresentativi.
Una di esse, la non figurativa od «arte astratta» rifiutava ogni riferimento ad elementi veristici e qualsiasi richiamo a forme tratte dalle conoscenze esterne; la «figurazione» tendeva, invece, come da sempre, ad un rispecchiamento della realtà oggettiva, ma in modi che dovevano aver presenti le esperienze fatte dalle avanguardie storiche nell'anteguerra; la terza corrente, detto molto schematicamente, era quella dello straniamento: si realizzava in una pittura dagli aspetti diversi, a volte addirittura contrapposti e si richiamava, sia nell'uno che nell'altro caso, alle condizioni di angoscia del singolo davanti al mondo moderno ed alla sua alienazione, derivanti dalla posizione conflittuale, individuale e collettiva, nei confronti di una umanità dominata dai «prodotti» e dai loro consumi.
Valier non abbraccia nessuno di questi indirizzi, forse al momento non ne coglie appieno il valore, il significato, lo specifico e compiendo da solo una rivisitazione degli artisti che più avevano contato per il determinarsi di queste tendenze elegge a suoi maestri ideali Klee per le infinite possibilità che gli suggerisce di espressione e di creatività e Picasso per l'autonoma esistenza della sua immagine dipinta: guarda a loro con grande interesse, cerca di trarne un insegnamento, una lezione e muove, incerti, i primi passi liberando e dando spessore alla sua vena narrativa.
Ritenendo ciò non bastante per la sua formazione e necessario un'altro tipo di approfondimento, frequenta per alcuni anni l'Accademia di Belle Arti a Monaco di Baviera; tuttavia convintosi della difficoltà e della importanza del tirocinio da compiere nell'ambiente di vita, la conoscenza del quale, anziché essere mediata, deve essere diretta e subire continui aggiornamenti che la scuola non è in grado di dare, intuito che l'indirizzo accademico non favorisce né il manifestarsi né lo svilupparsi dell'originalità, ma anzi la reprime e la mortifica, lascia i corsi e muove verso contatti più eccitanti e alla ricerca di consapevoli esperienze sia in Monaco stessa che a Milano, Firenze ed altrove.
Gli incontri intensi di quell'epoca, il lavoro istintivo e meditato, l'impegno interiore, l'amore per la vita, la continua scoperta del «meraviglioso» naturale sono testimoniati da quello che costituisce, sulla base dei principi generali che lo informano, il primo periodo della sua opera nel quale le immagini si manifestano e si compongono come risultato dell'affiorare di una oggettività interiore e sono frutto di emozioni che si estrinsecano, attraverso l'abbandono di vecchi schemi condizionanti, in rappresentazioni simultaneamente reali e fantastiche.
E in questo momento che il rapporto intenzionale, tra idea e pratica, comincia a concretizzarsi con opere ove il colore viene usato in funzione del segno allo scopo di realizzare una visione precisa e tangibile ma ugualmente inventata, della quale, oltre a «soavi fanciulle» ed arlecchini, pesci ed uccelli sono i soggetti predominanti composti con acri passaggi cromatici, con rossi sonori, gialli irritanti, blu ed azzurri smaglianti, verdi e terre brune. Pesci di mari sognati, uccelli multicolori, leggendari animali delle paludi, degli stagni, dei boschi vengono anche individuati, da Valier e simulati in rugose cortecce d'albero, in vecchie radici, in sassi, in povere cose del vivere quotidiano sulle quali stende lucenti porpore d'oro, argenti e lacche preziose al servizio del suo estro felice.
Valier sente il bisogno di un rapporto intellettuale col concreto, ma trasposto in una icasticità vagheggiata, in una realtà che ci deve essere da qualche parte, che si deve comunque ottenere e della quale dà una rappresentazione utopica separando da sé e rimovendo, gli ossessivi ricordi recenti per ritrovarsi nell'immaginoso universo della propria infanzia.
E proprio il rapporto con i suoi materiali è quello del fanciullo con le favole: di tenero affetto e di ironia, di intensa partecipazione e di altrettanto senso della finzione. Come nelle favole tutto diventa magico attraverso le sue mani, gli oggetti trovati e le cose acquisiscono una loro allusività, una loro potenzialità espressiva: una scorza si trasforma in animale, un'animale in un simbolo familiare ed allucinato che oltre all'apparente esplicito, ci insinua un sentimento ulteriore come se quanto proposto fosse l'annuncio di un mondo stupefacente o della sua attesa.
Dal 1954 al 1958 Valier sviluppa dunque una iconografia che non estranea, s'intende, ma non ancora adeguata alle scelte culturali del tempo, viene ugualmente recepita dal pubblico e dalla critica locale con curiosità ed interesse notevole per quel tanto di edonistico e di ludico che contiene, non partecipe dei problemi e degli scontri in atto ma adatta ad adornare abitazioni private e pubblici locali per il suo raffinato decorativismo.
Quando il successo, almeno un certo tipo di successo, è alla sua portata e la domanda di elaborati in continuo aumento, costretto dalla propria intelligenza, sensibilità e cultura ad una riflessione sulla pittura in generale e sulla sua in particolare, prova come uno smarrimento, un senso di nausea nei confronti del «piacevole» e dei soggetti abituali che aveva pur con tanto amore e talento sinora analizzati ma che si erano frattanto consunti, divenendogli estranei.
Nel contempo l'insinuarsi di dubbi e inquietudini destabilizzanti ed il prospettarsi di uno spazio ulteriore, oltre il fantastico, sino ad ora dichiarato, lo portano a vivere una crisi di grandi proporzioni che sfocia nella necessità della revisione critica complessiva del suo lavoro, dalla quale sortirà radicalmente diverso e rivolto, nel secondo periodo della sua attività ormai del tutto svuotata dei simboli abituali, ad intendere la pittura come maniera di esistere ed agire.
Partito da posizioni irrazionali od esistenziali l'Astrattismo è stato il prodotto di una volontaria ed inconsapevole alienazione che ha tuttavia tracciato un solco profondo nella storia dell'arte contemporanea sia mettendo in evidenza l'esigenza di una universalità dell'immagine sia scoprendo nuove strade ed esplorando nuovi spazi e possibilità comunicative. Attraverso varie fasi ed esperienze quali «l'Espressionismo astratto» e «l'Informale» si afferma e si diffonde all'interno della corrente, intorno agli anni '50, in Europa ed in America, una linea che dagli artisti e dalla critica viene definita «materica» perché «proprio dell'importanza conferita alla materia fa il suo primo privilegio» (Dorfles 1973).
La purezza e la forza di questa forma espressiva e la possibilità di adire al vero attraverso mezzi naturali anziché attraverso l'imitazione illustrativa, colpisce Willy Valier che abbandona gli ultimi frammenti della figurazione stemperando i tenui segni dell'oggetto e del soggetto nelle seduzioni dell'opera compiuta per mezzo di media non tradizionali che gli consentono di spaziare in superfici tridimensionali.
Egli ora si vale oltre che dei normali colori anche di materiali insoliti quali il gesso, il cemento, la sabbia e gli impasti a base di Vinavil per un tipo di ricerca svolto con la materia stessa intesa come una entità capace di significati autonomi.
Certamente maestri come Burri, Tapies, Dubuffet, o Fautier lo hanno influenzato e sollecitato ad abbandonare la «bella pittura» ma a spingerlo in questo senso deve aver concorso anche la sua specifica conoscenza e l'uso fatto in passato del ready-made e di altre sostanze che ora gli potevano servire per costruire una nuova realtà fenomenica naturale attraverso stratificazioni di superfici, rilievi, spessori ruvidi, levigati, opachi o splendenti.
Il brusco cambiamento nella attività pittorica di Valier, addirittura una inversione di tendenza che ha inizio alla fine del 1957 e si sviluppa negli anni successivi sin verso il 1961/62 non trova però sufficienti motivazioni in quanto sin ora addotto: infatti il senso del tempo, l'aggiornamento culturale, l'amore per i materiali non legittimano e non spiegano che in parte un passo così radicale e repentino se non li si collega ad un progressivo isolamento dell'artista dall'ambiente col quale e nel quale tutti i suoi rapporti andavano sempre più deteriorandosi.
È appunto in quel periodo che l'esasperarsi delle passioni porta, in un quadro politico internazionale di «guerra fredda», ad un aggravamento della «questione» locale che sfocia in agitazioni irredentistiche e nei primi atti terroristici del 1956, seguiti da una lunga e luttuosa scia di attentati dinamitardi che rompono la quiete apparente e squarciano le notti sconvolgendo animi e relazioni nella regione ed altrove. Spinte reazionarie provenienti in buona parte dall'area tedesca ed austriaca si scontrano con la miope visione politica italiana che pretende di risolvere problemi di questa portata con furbesche manovre, tattiche dilatorie e misure repressive. In tale plumbea atmosfera ed in questo preciso contesto, Willy Valier si separa, come anzidetto, dal suo passato civile ed artistico ma non per lenta evoluzione, o per successive modificazioni, bensì per saturazione, per determinazione improvvisa e con un rovesciamento di idee ed indirizzi, in senso «storico», si propone intenzionalmente in modo polemico sia nei confronti degli altri che di se stesso. Evidentemente egli intende palesare attraverso questi atteggiamenti il suo rifiuto degli schemi e dei moduli di vita rigidi che l'ambiente e le condizioni tendono ad imporgli e dichiarare la sua negazione di tutte le strutture costrittive e restrittive, non solo locali, della libertà di comportamento: ricusa ogni formalismo non riconoscendosi più in alcuno di essi.
La pittura ora prodotta depone ampiamente sul mutato stato d'animo dell'artista sia nei confronti del fruitore abituale della sua opera sia di quello recente che si affaccia emergendo dai ceti sociali affluenti.
Sostanzialmente Valier si reputa alienato, nel proprio ambito, ma vincolato ugualmente allo svolgimento di un ruolo all'interno di esso senza essere o sentirsi con ciò ideologicamente «impegnato» o «disimpegnato»; non più fiducioso ne disilluso dalla «borghesia» ma bensì da essa distaccato, assume un atteggiamento non rivolto contro la classe di appartenenza ma contro il fatto che quella classe frustra le sue ambizioni, le sue speranze ed i suoi valori.
Conscio delle difficoltà alle quali va incontro si mette a repentaglio col quadro che compone, ove la «materia» è testimonianza della genesi dell'opera e «l'immagine» dichiarazione di estranéità, ma non di indifferenza, nei confronti delle tragiche vicende del tempo.
Ombre oscure, incubi angosciosi, profondi neri scendono su spazi primordiali, illuminati da improvvisi bagliori, dentro i quali la presenza-assenza allarmante dell'uomo è immersa nelle utopie del presente; non senza motivi Valier tenta di riportarsi all'origine dell'atto espressivo con risultati formali e poetici che lo collocano in quella categoria artistica definita dal critico spagnolo Gonzales Robles dell'«astrazione drammatica» ed a proposito della quale G.C. Argan ha scritto: «L'artista esiste ed esiste perché fa, non dice che cosa debba o voglia fare nel e per il mondo, sta al mondo dare un senso a quello che fa.»
Man mano che la ragione prende il sopravvento su di un certo automatismo, nelle stesure materiche, ancora difficilmente penetrabili, eseguite tra il '61 ed il '62 con la chiara volontà di affermare istanze irrazionali, si comincia ad intravedere quello che sarà il terzo tempo del discorso di Valier che con l'organizzarsi delle forme all'interno della visione, col passaggio da un mondo organico ad un mondo inorganico e col recupero all'immagine di una tematica che si arricchisce di contenuti, prende l'avvio per realizzarsi completamente al ritrovamento del segno. Il segno si fa struttura portante della materia, sistema nervoso. Da questo momento materia e segno congiunti divengono i mezzi di espressione, il tessuto connettivo adatto alla visualizzazione del pensiero dell'artista che a sua volta si evolve liberando le passioni, individuali e sociali, fino a quel punto non ancora esplicate e le profonde tensioni della sua natura tormentata.
L'irrazionalismo surreale misto alla concitazione espressionista delle opere, prodotte all'interno di una specifica situazione storica, ora posta sotto accusa, trovano nel grafismo compositivo e nelle tonalità drammatiche le condizioni essenziali della loro comunicatività.
Sogni ed incubi si concretizzano e vengono messi in figura i fantasmi ossessivi della mente, mitici e remoti, quotidiani e reali.
I temi del lavoro che ora Willy Valier affronta, sono svolti con grande intensità e straordinaria partecipazione attraverso forme plastiche travagliate usate per rappresentare un'umanità sopraffatta e sofferente.
Nel 1963 prende l'avvio anche un ciclo di quadri erotici nei quali non compare «la dolce figura femminile» dell'iconografia retorica e perbenistica di consumo, ma erompe dalla crosta dell'ipocrisia, in un turbamento profondo, l'eccesso sessuale, la pulsione aggressiva, lo sbocco orgasmico, la fuga dal tempo nel soddisfacimento delle passioni e della ariostesca «libidinosa furia»: da ambigue corporeità affiora l'esaltata determinazione di una figuralità arcana e primordiale.
L'immagine ipertesa collocata in atmosfere visionarie, in spazi virtuali, ottenuta per mezzo del segno che le infligge ferite devastanti, rivela e denuncia la propria presenza emergendo da profondità metafisiche e da zone inesplorate del subconscio: proiezione di uno scontro aperto tra coscienza e realtà della vita, rappresentazione del conflitto originario tra Eros e Thanatos.
Sono di quel periodo quadri come «Figure sospese», «I fabbri», «Vietnam», «Contro la Violenza» ed altri dove la singolarità figurativa si accoppia con la vigorosa plasticità della composizione e l'intensità dell'espressione.
A proposito di queste ultime opere scrive Mario De Micheli: «La tecnica ed il gusto materici degli anni 60 trovano qui una misura di coerenza non estetizzante, si raccolgono in immagini dure, definite, che sfuggono all'approssimazione mediante una tensione di forme esplicite, organiche, ma non ridotte a puro flusso psico-fisiologico.
Valier tende a generare superfici di cartilagini brunite. I corpi dei suoi personaggi appaiono lucidi, variegati, come protetti da una consistente membrana; corpi che occupano lo spazio in modo prorompente, esorbitante quasi che volessero dilatarne i limiti.»
Si può ben dire che Valier estrinseca chiaramente, attraverso queste immagini, la sua iniziale impostazione così come la sua formazione intellettuale diretta contro i pregiudizi borghesi dominanti e contro la società sulla quale si basano, sempre più volta verso posizioni di insofferenza nei confronti delle istituzioni ufficiali che ritiene sature di una morale convenzionale e conservatrice.
Secondo gli Illuministi gli uomini nascono «uguali» e solo le condizioni della vita li rendono «diversi», ma forse è anche vero il contrario e cioè che gli uomini nascono tutti «disuguali» in un mondo che li pretende «conformi»: contro questo «conformismo» Valier conduce la sua polemica surrealista, espressionista, simbolista, negandovisi in una lotta che pur non sradicata dalle proprie origini resta ugualmente limitata ad essere puro gesto solitario di protesta.
Ma ora questo non gli basta più: egli desidera immergersi, anche fisicamente in una suggestiva corrente di pensiero, ha bisogno di più vasti e diversi rapporti umani oltreché di sentirsi parte di un movimento storico, capace di dare una base scientifica al suo estremo conflitto interno, al travaglio di sentimenti e passioni. Già in passato i principi del surrealismo erano tesi verso la ricerca delle «libertà individuali» (Freud) da ottenersi insieme con le «libertà sociali» (Marx) ed attraverso l'iscrizione al P.C.I., nel '66, Valier intende compiere una scelta precisa in tal senso, un gesto coerente col suo pensiero, con le sue tendenze, per partecipare in prima persona a questa ricerca.
Il grande «murale» dedicato agli operai eseguito alla «Camera del Lavoro» di Bolzano è dell'anno successivo. Dopo si sente più tranquillo; nelle sue opere affiorano colori tenui, temi dolci e delicati: la vita non è solo lotta, è anche amore; forse il conflitto era stato così duro proprio perché l'amore era stato tanto forte.
Alle tre di un pomeriggio assolato, il due di settembre dell'anno 1968, la morte coglie Willy Valier a Senigallia. Lo ritrovo nella descrizione che Klaus Mann, in Mephisto, fa di Gründgens, ben inteso in situazioni del tutto diverse, «divorato da una febbrile, appassionata volontà di piacere che dava al suo essere lo slancio, l'empito in cui sembrava consumarsi. Che insicurezze che tormentosa sfiducia doveva nascondersi dietro quella esaltata allegria...».
Ora, a quindici anni dalla sua scomparsa, era doveroso che fosse finalmente fatto un esame più approfondito, una rivisitazione più accurata, sia dell'individuo, in quanto artista, che della sua opera e che venissero colti nel suo comportamento, col rispetto, con l'interesse e l'attenta riflessione che meritano i segni suggeritigli dalla vita e dall'utopia, proclamati nella pittura.
Il messaggio con essi trasmessoci, a volte in drammatico tumulto, è sempre rivolto all'uomo visto non solo come oggetto dell'iniquità ma anche come soggetto di giustizia e di storia: Valier non si stacca mai dalla realtà, in lui è sempre presente l'essenza delle cose; il suo terreno privilegiato è l'immaginario quotidiano del quale esalta i momenti usuali ampliandone le dimensioni a dismisura senza perdere però, nel simbolismo allucinato, i punti di partenza e di arrivo che si era proposti al fine di rappresentare stati di angosciosa denuncia, consapevoli turbamenti e gli abbandoni della sua continua elaborazione pittorica.
Egli avrebbe potuto essere soltanto un illustratore privilegiato ma la sua estrema volontà di capire, il suo rapporto irrequieto con l'arte e con l'esistenza lo hanno talmente coinvolto da rendergli inevitabile l'uso di un linguaggio personale di ininterrotta magia capace di suggestioni profonde e di drammatiche tensioni, indispensabile alle sua esigenze narrative. La sua cultura figurativa è quella di un autentico visionario che si aggira nei regni dell'immaginazione dando forma ai terrori ed alle tenere apparizioni che ci fanno attraverso il fantastico, partecipi del reale.
Molti artisti hanno visitato altre terre, conosciuto altri popoli e da lontano scoperto meglio se stessi e le loro origini; Willy Valier dal suo ambiente di vita, dal quale aveva tratto e nel quale aveva poste profonde radici, ha invece aperto uno spiraglio sull'universo ove possiamo anche noi affacciarci.
Credo che tutto quanto abbiamo avuto modo di dire, in questa occasione, riguardo l'opera di Valier, andasse detto per poter cogliere meglio e porre nel dovuto rilievo, oltre ai valori estetici, i riflessi della crisi, individuale e sociale che da essa trapela, la volontà dell'artista di essere all'altezza degli avvenimenti ed il provincialismo e la limitatezza di cui gli è sembrato afflitto il mondo che lo circondava.
Spero che ciò possa favorire la comprensione, almeno in parte, degli elementi compositi della sua arte e di come la pittura ed i suoi problemi fossero per Willy non solamente un momento od un episodio, magari anche di grande rilievo, ma la ragione stessa del vivere e cercare il volto della nostra epoca.
Willy Valier - Figure - 1963