IL CRISTALLO, 1973 XV 3 | [stampa] |
II «ritratto» di Fulvio Tomizza che ho delineato nella mia Lettura triestina del Novecento (Trieste, LINT, 1968, pp. 339-53) ha bisogno, a quattro anni di distanza, non di un breve codicillo di aggiornamento, ma di una vera e propria continuazione, e in certo senso di una seconda parte, la quale, pur lasciando sostanzialmente inalterati i tratti distintivi e le connotazioni fondamentali dello scrittore, da me fissati (o proposti), rilevi e documenti l'ampio, sorprendente e quasi imprevedibile svolgimento di una attività narrativa che pareva esclusivamente ancorata, in modi e accenti diversi, all'evocazione o alla rappresentazione del piccolo mondo istriano caro e congeniale all'autore. Indice, questo, non solo di una genuina, seria e coerente vocazione artistica, ma anche dell'approfondimento e dell'«allargamento di un originale nucleo umano ed etico, gravido di sollecitazioni e di fermenti, che il Tomizza portava dentro di sé e che è venuto ulteriormente alla luce, in direzioni variamente autobiografiche, psicologiche, ideologiche, riflessive, moraleggianti, nei tre libri pubblicati nell'ultimo quadriennio (Milano, Mondadori): L'albero dei sogni (1969), La torre capovolta (1971) e La città di Miriam (1972).
L'albero dei sogni, premio Viareggio 1969 per la narrativa, si colloca direttamente, da un punto di vista contenutistico, accanato a La quinta stagione: alla fine di tale romanzo, infatti, ci imbattiamo nel piccolo protagonista, Stefano Marcovich, che si reca nel seminario di Capodistria; e all'inizio dell'Albero dei sogni Stefano si trova in quel seminario (e la cittadina istriana è chiamata latinamente «Capris»). Dall'angolo visuale della struttura e della sintassi narrativa, invece, il nuovo romanzo si riallaccia alla Ragazza di Petrovia, nel senso che quella rigorosa e insieme delicata indagine psicologica, che l'autore aveva esercitato sulla figura di Giustina, ora egli la rivolge sopra se stesso, ma con molto maggiore ampiezza e con un coraggio talora persino impietoso, accentuato dall'uso della «prima persona» (mentre le vicende della Quinta stagione erano state affidate alla dimensione oggettiva della «terza persona»).
Evidentemente ci troviamo di fronte a un approfondimento del tema introspettivo, e della resa narrativa, stilistica e linguistica che gli corrisponde, con armoniosa, insostituibile necessità. Siffatto approfondimento è dovuto, innanzitutto, all'adozione della psicanadisi di tipo freudiano, manifesta specialmente in quel rapporto di «ambivalenza», fatto insieme di amore e di odio, di attrazione e di repulsione, di ammirazione e di rivolta, che Stefano stabilisce con il padre e che costituisce il motivo dominante (o uno dei motivi dominanti) dell'intero romanzo e del sofferto itinerario psicologico, ideologico e morale del protagonista, in cui il romanzo medesimo viene quasi interamente a risolversi. Il che, tra l'altro, sta a significare che il Tomizza, nell'Albero dei sogni, ha risentito assai più che nelle sue opere anteriori dell'alta lezione umana, etica e per eccellenza «problematica» della letteratura triestina del nostro secolo; e si pensi almeno al capitolo «La morte del padre» nella Coscienza di Zeno dello Svevo e ai racconti Il ritorno del padre e L'isola dello Stuparich.
Inoltre nell'Albero dei sogni il dissidio etnico-politico fra gli italiani e gli slavi passa da una misura, per cosi dire, esterna, rappresentativa e descrittiva o mnemonico-cronachistica, a una dimensione tutta interiore, ossia viene interamente calato nell'animo di Stefano, e si configura come uno scontro o un incontro tra le due componenti dialettiche della personalità del protagonista. Il quale oscilla fra la nostalgia per un vecchio mondo che sta per crollare (o è di fatto crollato) e la suggestione di un mondo nuovo in via di elaborazione; e subisce in tempi diversi sia il fascino del nazionalismo italiano, sia quello del socialismo jugoslavo, sentendosi variamente attratto dalla concezione patriarcale, ottimistica, euforica della vita, propria di suo padre, e dal senso pratico della madre, e cercando di conciliare in se stesso, non senza fatica e attraverso numerose e per lo più deludenti esperienze, l'influsso paterno e quello materno. Stefano, insomma, si trova sempre di fronte a dei dilemmi, a delle scelte difficili e rischiose; e quasi sempre si mette nella posizione sbagliata, anche se con la più o meno lucida consapevolezza che proprio di errori, di pentimenti, di rimorsi è costellata (e non può non esserlo) la strada tortuosa e inagevole che porta alla verità.
L'albero dei sogni si può pertanto definire una serie di esperienze sbagliate, o una drammatica sequenza di dislocazioni storico-morali, che si conclude con una più piena, anche se rassegnata, e affettuosa, pur se melanconica, e tuttavia virile, accettazione dell'esistenza, attraverso una lunga espiazione e una riconciliazione quasi in articulo mortis con il padre. Riconciliazione che prosegue anche dopo la morte del genitore in una serie di pagine diaristiche datate «1953-1968», in cui il medesimo accento onirico viene a confermare quel protratto «esame di coscienza» o quel tormentato e tormentoso curriculum esistenziale, sullo sfondo di un periodo quanto mai politicamente intricato, in cui consiste il romanzo.
L'approfondimento dell'Albero dei sogni rispetto alla Ragazza di Petrovia è verificabile anche sotto l'aspetto dello stile, ossia nella felice sperimentazione di una scrittura ampia, complessa, minuziosamente analitica, la quale si adegua nel modo migliore alla fisionomia di confessione e d'introspezione, propria del libro. Nel quale, come già nella Coscienza di Zeno, gli avvenimenti, i personaggi (fra cui spiccano quelli dei genitori, di alcuni parenti, di alcune donne variamente amate o corteggiate) e i medesimi paesaggi, coerentemente all'impostazione generale del romanzo, non hanno una loro autonomia narrativa che non coincida senza residui con dei momenti e con delle esperienze del medesimo itinerario vitale del protagonista, della sua «educazione sentimentale», della sua Erlebnis, della sua graduale, accidentata maturazione psicologica, politica ed etica.
Tale maturazione si svolge attraverso numerosi avvenimenti, che vanno dalla permanenza nel seminario di Capris e, quindi, in quello di Gorizia al soggiorno nella casa dello studente a Capris e agli studi compiuti in quel Liceo (con i relativi conflitti, da un lato, con i compagni socialisti e, dall'altro, con i condiscepoli e i professori italiani), dai numerosi passaggi dal nativo ambiente istriano alla Trieste occupata dagli alleati e teatro di scontri violenti di opposti nazionalismi all'esperienza universitaria di Belgrado e a quella cinematografica di Lubiana, all'esodo finale da Giurizzani in suolo italiano, in seguito al diritto di opzione sancito dal Memorandum di Londra.
A tutta questa vasta trama, includente una fitta successione di spostamenti, e, quindi, di ambienti, di personaggi, di città e luoghi diversi, dà unità e coerenza, si accennava, la figura del protagonista Stefano Marcovich, alter ego dell'autore, esaminato essenzialmente sotto il profilo della sua relazione con il padre, Marco: un uomo mite, buono e allegro, legato, ma con istintivi slanci di generosità, al vecchio mondo padronale, che la nuova realtà politica viene implacabilmente abbattendo; e proprio perciò avversato a un tempo dagli italiani e dagli slavi, processato e condannato da questi, esule a Trieste e pure deciso a finire i suoi giorni, quando sente approssimarsi la morte, nella sua terra istriana. Ora, un simile personaggio ha per il figlio un'importanza capitale e determinante (e si pensi per qualche remota, ma non casuale analogia al rapporto fra Enea e Anchise, dato che è proprio un passo del sesto canto dell'Eneide a suggerire il titolo del romanzo): da un lato, il padre è per Stefano un sorta di paradigma di vita, dall'altro suscita in lui sordi rancori e oscure ribellioni, apparendo, in altre parole, una sorta di segno di contraddizione dell'esperienza umana e affettiva del figlio e insieme l'artefice primo dei suoi dolorosi e non facilmente superabili «complessi». Tutto il libro è, in fondo, la storia di questi complessi, ossia di un ambiguo avvicendarsi nell'animo di Stefano di amore e di avversione, sino all'autoaccusa d'un ideale parricidio (un tipico, ortodossamente freudiano «complesso edipico»!), ma con un risultato finale di conciliazione con il genitore, o di superamento di ogni rancore e, dopo la morte di lui, di ogni rimorso, nella consapevolezza, gradualmente acquisita, di aver sperimentato, sofferto, errato, espiato per conto proprio e di non essere, in ultima analisi, indegno di suo padre. Si comprende, di conseguenza, come, data una simile struttura del romanzo, questo si svolga sul filo di un lungo e lucidissimo «monologo interiore», di un'autobiografia che è anche, alla fine, liberazione, riscatto, catarsi morale, conseguimento di un nuovo, più saldo e maturo, equilibrio umano.
È questo il significato globale della vita e delle esperienze di Stefano, narrate nell'Albero dei sogni: di uno Stefano che a noi vuoi parere una sorta di moderno, attualissimo Wilhelm Meister, agente e recitante nel gran teatro del mondo. Ma il significato del romanzo non si ferma qui: poiché esso è anche, vorrei dire, il libro-chiave della personalità e della narrativa del Tomizza, quello che ci consente di comprendere ciò che sta sotto i suoi diversi libri, l'humus vitale da cui sono rampollati, la coscienza umana, morale e storico-politica che sottintendono, l'antiideologica ideologia onde sono scaturiti: e dico «antiideologica», poiché mai condensata in un definitivo «credo» politico o religioso e di volta in volta risolta in esperienza, in ricerca e in scavo interiore, nell'ampia dimensione di un aperto, anfrattuoso, contraddittorio cammino esistenziale.
Ma occorre aggiungere che la storia di Stefano Marcovich non è soltanto una vicenda individuale, ed è, al tempo stesso, la storia di quanti, uomini o scrittori «di confine», hanno vissuto, più o meno, le sue esperienze e i suoi conflitti. L'albero dei sogni, nella misura in cui è l'iter della coscienza e dell'autocoscienza di Stefano, lo è insieme di molte altre persone; e intendo riferirmi non solo e non tanto a numerosi esuli istriani, ma anche, e soprattutto, a tutti gli esuli di tutte le patrie, a tutti coloro che hanno sentito come un trauma fisico e psichico la vicinanza inquietante di un confine conteso. In questo senso il romanzo, che è anche libro di più intenso respiro e affiato «mitteleuropeo» scritto dall'autore istriano, va ritenuto il coronamento di quel gran motivo dell'«esilio» (un esilio che può essere un fatto umano e morale, prima ancora che politico), che si colloca al centro stesso dell'opera narrativa del Tomizza.
La torre capovolta si connette, strutturalmente e tonalmente, alle pensose e problematiche pagine diaristiche, sospese in un difficile equilibrio fra la realtà e il sogno, con cui si conclude, dicevamo, L'albero dei sogni. Ciò dimostra, in primo luogo, che il Tomizza non è soltanto l'interprete (e il poeta, per intima, sofferta congenialità) del piccolo mondo istriano in mezzo al quale per tanti anni è vissuto e del quale ha seguito con accorata partecipazione le sorti, nel periodo della seconda guerra mondiale e del drammatico dopoguerra; ovvero che un siffatto mondo è ben lontano dal costituire, con il nucleo centrale, il limite di un'attività narrativa che sorprende per il rigore e la continuità con cui si svolge e lascia libero un ampio spazio ad altre dimensioni tematiche e ad altri registri di stile, almeno in apparenza diversi.
Come già L'albero dei sogni, il cui finale non era qualcosa di estrinsecamente aggiunto o giustapposto e veniva a dare le motivazioni occulte e come il senso interno del romanzo (che a sua volta forniva la chiave per capire la Trilogia istriana e La quinta stagione), così La torre capovolta riprende qua e là la prediletta tematica istriana (e vi ricompaiono i consueti personaggi del nostro autore, con i loro piccoli e grandi problemi, sullo sfondo costante degli eterni temi della vita e della morte, dell'aperta e sempre nuova dialettica del reale); ma la riprende con un accento differente, che riguarda sia la misura dei racconti o piuttosto «raccontini» (la precisione, vedremo, non è casuale), sia l'afflato umano e artistico cui sono improntati.
Abbiamo detto «raccontini»: il termine, come si sa, è di Umberto Saba ed è stato usato dal poeta triestino per intitolare una delle sue opere più significative, e quasi paradigmatiche della sua umana «bontà» e «saggezza» (e si tratti pure di un'amara e dolorosa saggezza), Scorciatoie e raccontini. Quelli del Tomizza sono, appunto, dei «raccontini» nell'accezione sabiana; o dei brevi spunti, pretesti, esperimenti narrativi, dove la rappresentazione dei personaggi e la rievocazione di esili e quasi inconsistenti vicende sono tutte in funzione d'una strenua ricerca di moralità, e cioè di piü alte ragioni e verità umane, che vengono a emergere a poco a poco dalla pagina, più che altrove rarefatta, quintessenziata, talora quasi sillabata e ben scandita nel ritmo degli accenti e delle pause, contraddistinta sempre da un alone di sobria, discreta e «pallida» liricità.
Discorrendo di Scorciatoie e raccontini abbiamo a suo tempo proposto (o arrischiato) un accostamento alle leopardiane Operette morali; e ora non ci pare fuori luogo affermare che le prose della Torre capovolta sono per più lati le moderne — sconcertantemente moderne — operette morali di Fulvio Tomizza. Anche perché accanto agli accennati raccontini (come I vicini, Il bambino, La spoliazione, ecc.), i quali condensano vicende e momenti di vita (anche dello stesso autore) e nascono all'insegna d'una tensione etico-esistenziale che quasi fatalmente confluisce in quella che abbiamo definito moralità, ci sono le scorciatoie, ossia tutta una serie di appunti, osservazioni, considerazioni scaturite dalle più varie occasioni e trasposte in un'aura staccata di favola e di mito e, si badi bene, al di là e al di fuori di qualsiasi frammentarismo. In esse si sente che il ritmo non è più distesamente narrativo, sì invece denso, concentrato, verticale, e talvolta persino aforistico e sentenzioso; e tuttavia vi ricorre ancora la tenace ricerca di moralità, e sancisce la loro piena armonia e sintonia con i raccontini, determinando inoltre la globale unità e organicità del libro.
Moralità, si è detto: tale parola deve essere intesa in un'accezione del tutto speciale, ossia non nel senso della morale di cui solitamente si correda e con cui si conclude il genere favolistico, ma in un modo più ricco e pregnante: moralità configurata come chiarificazione di ragioni umane psicologiche, come scoperte (e talora quasi sfolgoranti, prodigiose illuminazioni) di stati d'animo, intonate alle più diverse inflessioni e rinvianti alla personalità tutta del Tomizza, alla sua umanità di fondo, in cui la tranquilla accettazione della realtà può unirsi alla polemica, alla malizia, al sarcasmo, all'ironia, alla battuta, allo scherzo, alla demistificazione, al pieno e cosciente ripudio dei luoghi comuni (o presunti tali), al cui posto egli non esita un istante a porre, anche con crudezza e con consequenziaria e dissacratoria fermezza, quella che ritiene, lealmente, coraggiosamente, la sua pur irritante, ostica, sconvolgente verità. Il medesimo titolo del libro, La torre capovolta (che è poi quello di alcune pagine fra le più sapienti e limpide dell'opera, ma con nel fondo alcunché di ermetico, di magicamente sospeso tra realtà e simbolo), allude immaginosamente proprio a quell'indagine del sottosuolo interiore del Tomizza, a quella lucida e penetrante inchiesta delle sue intime ragioni, che così largamente e profondamente vi si dispiega: indagine e inchiesta che trovano la loro più aderente e persuasiva espressione in talune prose non evadenti dallo spazio, talora, di una sola pagina o di una mezza pagina (e persino di qualche frase o periodo), la cui misura esterna è in proporzione inversa all'intensità e alla durata interiore, al sondaggio nel mondo complesso della coscienza e in quello buio, ambiguo, impervio e contraddittorio della subcoscienza.
Mi riferisco a pagine veramente esemplari, come «La foglia», dal sapore vagamente kafkiano; «Essere padre», in cui è soppresso ogni diaframma fra reale e irreale e un biglietto tramviario può diventare un metaforico «passaporto per il mondo dei vivi»; «Isole dalmate», dove si assiste a un dialogo quasi blasfemo (Parce mihi, Nomine, quia dalmata sum...) fra san Girolamo e il Tomxnaseo; «Concerto serale», in cui è sottolineata (e può essere una spia dell'ideologia del Tomizza) la «terrestrità dell'eterno»; «Yacht», dove si impone l'immagine grandiosa, surreale dello yacht-balena, che sembra addirittura levarsi in piedi e camminare «nella bassa acqua con enormi scarpe da palombaro»; «Micene», in cui affiora una continuità storica che affonda le sue radici in remotissimi miti mediterranei; «Morte musulmana», con l'immagine, che sarebbe stata certamente gradita all'astratto, «metafisico» Leopardi delle Operette morali, del progressivo annullamento della Terra, «inchiodata con pali di pietra all'oltretomba»; «Il Papa giovane», dall'andamento estroso e capriccioso (e argutamente irriverente) del divertissement (cui è avvicinabile I sotterranei del Vaticano); e ancora le variazioni sulle vipere, le quali, più che in un ritorno a certa tematica istriana e carsica (e persino folcloristica), si risolvono in un'esplorazione per meteora o per simbolo della stessa irrazionalità ed enigmaticità della vita, delle sue labili e insidiose strutture.
Da quanto si è notato risulta che La torre capovolta è un libro indispensabile per comprendere Tomizza uomo scrittore; e, si potrebbe aggiungere, forse più il primo che il secondo, se le ragioni psicologiche e psicanalitiche, che nel volume hanno la parte preminente e ne costituiscono l'ossatura, gli archi portanti, il centro profondo (e proprio perché profondo non sempre agevolmente afferrabile), non avessero il loro corrispettivo formale in una prosa calibrata, misurata, priva di sbandamenti e di cedimenti, intimamente poetica. Una prosa che si sarebbe indotti a proclamare «d'arte» (o da petit poème en prose), se tali termini non suonassero un po' equivoci, e certamente inopportuni per uno scrittore saldamente legato al concreto, alla realtà della sua terra (anche ambientale e morale) e del suo tempo nelle sue medesime elusioni, evasioni ed esplorazioni dell'anfrattuosa geografia e geologia psicologica, e tutto volto a prendere, di questo e di quella, una chiara, responsabile, e spesso inquieta e dolente consapevolezza.
La torre capovolta è, in questo senso, uno di quei libri di confessione, di scavo d'anima, di conquista e dominio di se stessi che proprio per la maturità (di mezzi e di sussidi introspettivi, oltre che stilistici) che presuppongono, sono scritti di solito dopo una lunga esperienza di vita e d'arte o addirittura alla fine e a coronamento di un'intera attività letteraria. Che il Tomizza l'abbia composta a poco più di trentacinque anni è una cosa sorprendente e anzi, per più ragioni, eccezionale.
La città di Miriam, considerato globalmente, si configura come una storia d'amore, e anzi di amore coniugale, e si differenzia pertanto sia dai romanzi e dai racconti della Trilogia istriana, sia dai due volumi più scopertamente autobiografici, La quinta stagione e L'albero dei sogni, sia ancora, e a più forte ragione, dagli esperimenti rievocativi, meditativi e morali della Torre capovolta. Tuttavia si sentiva, leggendo le opere qui citate, che prima o poi il Tomizza si sarebbe impegnato, per intima necessità interiore, nella trattazione della tematica amorosa, se non altro per la presenza, sia pure saltuaria, di siffatta tematica in parecchie pagine della sua attività di scrittore. Ci riferiamo, per esempio, all'episodio di Femia e di Francesco in Materada, tutto improntata a un clima di commozione, in cui la memoria nostalgica d'un remoto passato si acutizza nella mesta, straziata consapevolezza del vicino esilio; o, ancora, al motivo centrale della Ragazza di Petrovia, che pure è immerso e diluito in una più vasta condizione umana e sociale, in cui si rispecchia quel caratteristico dramma della frontiera che ha nel Tomizza un singolarmente elevato e sensibile interprete. Né si possono dimenticare taluni parchi e sobri accenni amorosi della Quinta stagione, dotati di un'evidente aderenza autobiografica, cui si richiamano direttamente, in sede d'una progressiva maturazione psicologica e morale e in rapporto a una più vasta e complessa educazione sentimentale e ideologico-politica del protagonista Stefano Marcovich, alter ego e portavoce dell'autore, quelli tanto più frequenti dell'Albero dei sogni. Né è un caso che in questo libro compaia a un certo punto la fresca, graziosa figurina d'una fanciulla ebrea, che l'autore chiama suggestivamente «Anna Frank» e che sembra contenere, almeno in nuce, il presentimento o il preannuncio della Città di Miriam.
In questo romanzo il tema d'amore acquista un rilievo dominante e qualificante, anche se non è mai disancorato dalla storia e dalla cronistoria dell'autore protagonista, o da certi prediletti spunti e occasioni che così spesso ricorrono nell'anteriore Tomizza: l'interesse per la psicanalisi, fondamentale nell'Albero dei sogni; l'attenzione a quel momento delicato e inafferrabile in cui la realtà sfuma nel sogno; la tendenza a interpretare, in maniera più o meno ortodossamente freudiana, il fenomeno onirico, inteso come spia dell'inconscio e magari del rimorso, della cattiva coscienza; e ancora il facile dirottamento dalla prosa narrativa al «raccontino» esemplare, dotato di una sua interna carica etica, e magari a livello di simbolo e di allusione, il gusto, cioè dell'episodio-apologo, della «scorciatoia» e, dell'«operetta morale», che costituisce l'intenso, concentrato, essenziale, modulo costruttivo dell'impervia Torre capovolta.
In questo senso è lecito osservare che in La città di Miriam c'è tutto Tomizza, e sia pure con una netta prevalenza dell'elemento amoroso. Il Tomizza, cioè, ha rappresentato in questo romanzo la vicenda del fidanzamento, e quindi del matrimonio, di Stefano con una ragazza ebrea triestina, Miriam Cohen; e ha raccontato la storia di questo rapporto, «coli accecante» da sembrare «un attimo ininterrotto e che invece ha pur avuto le sue tappe, i suoi sviluppi, come i suoi cedimenti».
Ancora una volta la storia narrata dal Tomizza nasce all'insegna d'una profonda differenziazione psicologica fra i due protagonisti, che si sentono reciprocamente attratti proprio per l'incontro-scontro o per l'armonica complementarità di condizioni diverse e opposte. Infatti, Stefano è cattolico, mentre Miriam è ebrea; il primo proviene dalla campagna e reca in sé tutto un insieme di qualità e di abitudini derivate dalla sua condizione sociale; non ultima l'ottimistica fiducia nei miti della felicità e dell'amore; la seconda è invece profondamente «cittadina» e possiede una specifica carica scherzosa, ironica, demitizzante e demistificante. Ed è proprio Miriam che si colloca al centro del libro, scritto (come L'albero dei sogni), in «prima persona», anche e soprattutto perché è lei a sollecitare e stimolare la costante, coraggiosa introspezione di Stefano, a essere presente, almeno in forma implicita, nella menzione o nel ricordo delle numerose (e per lo più fallimentari) esperienze sentimentali del protagonista: è Miriam, insomma, la sua dolce ossessione, il suo costante richiamo, il suo continuo punto di riferimento. Si aggiunga che le infedeltà di Stefano sono narrate sempre senza alcun compiacimento e, anzi, con una lucidità fredda e pungente, con distacco, e persino con repulsione, poiché permane in lui non soltanto il ricordo di Miriam (e l'inevitabile confronto), ma anche la consapevolezza di ciò che potrebbe dirne Miriam, con la sua peculiare capacità di deformare ironicamente le cose più serie e di rilevare il ridicolo di certe fin troppo ovvie situazioni. Derivano di qui gli accenti simpaticamente umoristici, e talora decisamente comici, che insaporiscono questo libro del Tomizza, come già talvolta era avvenuto, ma in più avara misura, nelle opere anteriori. E tuttavia il tono generale del libro è ben lontano dalla comicità: Stefano, pur se manifesta qualche impaccio «zeniano» e se come lo sveviano Zeno è ricondotto da qualche saltuaria amica alla moglie e alla casa, è ben lontano da ogni svagato e disimpegnato dilettantismo sentimentale. Anzi, sia il rapporto di Stefano con la moglie, sia le sue poco convinte sperimentazioni extraconiugali diventano il pretesto per un accanito e impietoso esame di coscienza, che in qualche momento sfiora il dramma e acquista quasi un'aura e una risonanza di tragedia; tanto più che il tema amoroso si unisce a quello d'una strana e sconcertante malattia di «ovattamento», la cui guarigione è realizzata (e anche questo è quanto mai pertinente all'«ultimo» Tomizza) attraverso la psicanalisi; mentre tutta una serie di sogni acquista il significato d'un ulteriore chiarimento di se stesso, da parte del protagonista.
Strutturalmente la vicenda del romanzo non si dispiega in maniera lineare e continuativa, ma preferisce, con consapevole scelta di poetica, un andamento più sottile e tortuoso, con anticipazioni e posticipazioni di tempi, che consentono la delineazione d'una varia e sorprendente episodica (pur ricondotta sempre al nucleo essenziale del libro, e quindi mai centripeta e svagata), e agevolano quella molteplicità di sondaggi analitici, che rendono La città di Miriam una sorta di confessione (in chiave più o meno psicanalitica) del protagonista, svolta coerentemente in termini narrativi. E il medesimo linguaggio si adegua perfettamente al mondo rievocato dall'autore e presenta delle novità che costituiscono un evidente scarto rispetto ai suoi anteriori strumenti espressivi. Cosi è possibile incontrare nel libro qualche neologismo televisivo come «zumare»; mentre prescindendo dai consueti dialettalismi triestini e istriani (e c'è persino una breve lirica in dialetto triestino, dal sapore vagamente giottiano, del Giotti familiare e domestico del Piccolo canzoniere), la citazione interlineare di alcuni referti medici può stare accanto alla trascrizione di alcune pagine d'un trattato divulgativo di psicopatologia sessuale: ciò che attesta per altra via certo alacre e industrioso sperimentalismo espressivo. Rimane da sottolineare l'atmosfera profondamente triestina del romanzo, esplicita sin nel titolo (che può richiamare alla memoria quello della raccolta sabiana Trieste e una donna, in cui emerge del pari una storia d'amore coniugale), e intesa sia come condizione d'ambiente, sia come connotazione etnica, storica e sociale. In questo senso il recente romanzo può essere, oltre che un'autobiografia tutta giocata sull'introspezione provocata da una relazione d'amore, una sorta d'omaggio dell'istriano Tomizza alla sua città d'elezione, considerata soprattutto nella sua dimensione borghese (entro il suo ambito spiccano, per esempio, la figura del suocero di Stefano e quelle del filosofo Kekler e del «poeta dialettale», in cui è lecito scorgere i compianti Dino Dardi e Guido Sambo).
La città di Miriam è, per le ragioni che si sono esposte, un libro nuovo (anche se saldamente agganciato, con piena sintonia e coerenza, all'anteriore attività del Tomizza): un libro d'un autore che prosegue, con giovanile freschezza e con piena e cosciente fiducia, la sua vittoriosa, ascensionale carriera narrativa.