IL CRISTALLO, 1966 VIII 1 | [stampa] |
La figura del Croce viene generalmente presentata al vasto pubblico che da tanti anni e particolarmente ora in occasione del centenario della nascita sente parlare del filosofo abruzzese, come quella di un uomo sereno, anzi imperturbabile, privo di passioni e di, problemi; tanto che nei suoi riguardi è stato persino usato l'aggettivo di «olimpico». A tale immagine hanno indubbiamente contribuito molti effettivi ma estrinseci elementi: l'agiatezza in cui è vissuto, il suo non curare cariche e onori, il signorile riserbo, il suo stesso aspetto fisico; ma altresì la forma classica in cui ha espresso il suo, pensiero e che sembra rispecchiare nella sua purezza e nella limpida struttura un animo massimamente equilibrato e superiore ad ogni turbamento.1
Senonché, la reale personalità del Croce è ben diversa da tale idillica immagine, sulla quale hanno insistito tutti coloro che o non hanno veramente capito l'uomo oppure avevano interesse a deprezzare l'opera del filosofo, dipingendolo quale indifferente ed estraneo alla vita; tosi come l'ingiusta caricatura di Socrate, presentata da Aristofane nelle Nuvole, mirava ad umiliare la figura del filosofo ateniese, col figurarlo librato appunto tra le nuvole.
In effetti, il Croce è stato uno degli uomini più tormentati della nostra epoca: fondamentalmente passionale e sensibilissimo a tutti gli stimoli della vita in ogni suo aspetto. Tuttavia, egli è stato contemporaneamente dotato e di una ferma volontà e di un animo quanto mai aristocratico. Con l'aiuto della prima ha regolato le passioni e incanalato gli stimoli della vita nella disciplina dello studio e dell'indagine filosofica, in modo che le une e gli altri, invece di esaurirsi in manifestazioni pratiche comuni, sono servite di alimento a problemi del pensiero. L'aristocratico suo animo lo ha sostenuto nel celare agli occhi del mondo il fermento più crudo delle passioni: in tal modo comportandosi non per ipocrisia, ma per pudore e correttezza. Del resto, egli non ha nascosto nulla di sé; ma, nelle sue opere, si è confessato senza veli, anche quando la cosa poteva tornare a suo svantaggio: sempre, tuttavia, presentando dei suoi problemi non l'origine personale — e quindi poco interessante o addirittura inopportuna per il pubblico — bensì l'impostazione valida universalmente.
Per conto nostro, crediamo che le native propensioni del carattere, di Croce si siano precisate e irrevocabilmente fissate in quella notte,di luglio del 1883, ch'egli trascorse imprigionato sotto le macerie della casa distrutta dal terremoto a Casamicciola, non lontano dai corpi esanimi della madre e della sorella, e ascoltando i lamenti del padre che a poco a poco si spegneva non molto discosto da lui, ma irraggiungibile. Lo smarrimento, la disperazione, la sofferenza fisica, il terrore, l'orrore anzi, protratti nell'oscurità delle lunghe ore notturne in quelle condizioni, devono avere giganteggiato nell'animo del giovane già diciassettenne e quindi ben cosciente e maturo, mentre al tempo stesso la veemenza di tutti quei sentimenti, paralizzata dall'impossibilità di abbandonarsi a moti pratici, veniva per forza di cose costretta a incanalarsi nel pensiero. Quelle ore devono aver pesato su di lui come una eternità: plasmandolo e indirizzandolo per sempre all'unica attività della mente: a quella cioè che sola gli rimaneva possibile mentre il suo corpo era imprigionato dalle macerie.2
Il Croce non si è mai soffermato nei suoi scritti su quei momenti: ma noi siamo convinti ch'essi abbiano lasciato in lui una traccia perenne, che ci sembra di ritrovare nell'abito suo costante di nascondere gl'intimi drammi pratici, come se essi rimanessero schiacciati dal peso della realtà incombente e se ne potesse salvare solamente il valore più puro. Non ha mai parlato di quelle ore: tuttavia il loro significato nella sua vita è documentato dall'avvilimento che lo oppresse nei due anni successivi, trascorsi a Roma sotto la tutela dello zio Silvio Spaventa, come egli stesso ha descritto in quelle che sono tra le poche pagine direttamente autobiografiche da lui lasciate.
Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato d'animo morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere. gl'incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m'inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio.3
Era «avvizzito prima di fiorire», non nel senso deteriore dell'invecchiare anzi tempo, perché il suo spirito sino agli ultimi anni mantenne poi sempre una meravigliosa freschezza di capacità e d'invenzione, ed il suo fisico, si conservò altresì resistente ad ogni occorrenza; ma nel senso dell'improvviso maturare di sentimenti e pensieri contrastanti con l'età giovanile. Nella sofferenza ci fu una positività, di cui ben si accorse lo zio Spaventa, che lo lasciò presto e ancora in età minorile libero di disporre della sua esistenza e dei suoi beni, fuori d'ogni tutela.
Dalla tragedia egli emerge, dunque, ricco d'una forza che non lo abbandonerà più e che racchiude il segreto di quella, che appare come olimpica calma. Altre sventure personali lo colpiranno; ma soprattutto egli sarà nel corso della vita provato da sciagure a carattere nazionale e universale, che la sua sensibilità gli farà soffrire in forma ancor più grave che se avessero riguardato solamente la sua persona; la pazzia che sconvolse l'Europa con la prima guerra mondiale, trascinando nella fornace anche l'Italia; Caporetto; la successiva non minore follia che si manifestò dopo la «vittoria» nel mondo, che gioiva, mentre avrebbe dovuto piuttosto piangere sui lutti e le distruzioni della guerra e sulle tristissime prospettive del dopoguerra; il ventennio fascista; il secondo conflitto mondiale.4
Ma egli aveva imparato a chiudere nel profondo del cuore i sentimenti più accesi, per manifestarli poi nei suoi scritti, purificati nella limpida esposizione e innalzati al vaglio del pensiero, e proprio per questo resi più validi come voce non dell'istinto ma della ragione, e quindi non più angusti fatti personali, ma atti d'un dramma universale ed insieme capitoli d'un altissimo insegnamento etico-politico.
Il fondamento passionale dell'animo del Croce non può essere da noi illustrato attraverso la narrazione delle sue vicende sentimentali, in quanto, se lo tentassimo, il nostro discorso scadrebbe all'esposizione di faccende personali (nel senso più ristretto) del filosofo e rischierebbe di ridursi a considerazioni generiche, come sempre avviene quando ci si ferma a considerare i fenomeni pratici (amori, avversioni, e via discorrendo), che sono più o meno comuni a tutti gli uomini e di per sé dicono poco o nulla. Mentre la passionalità del Croce si manifesta,ben piú chiaramente e nella forma più originale in molti aspetti della sua attività di studioso, che possono quindi essere fruttuosamente esaminati da tale punto di vista.
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Consideriamo, innanzitutto, la sua maniera d'intendere e praticare gli stessi studi d'ogni genere, ai quali si applicò sempre per lo stimolo di sentimenti. Egli non lavorò mai alla maniera degli accademici, iniziando cioè una ricerca (critica, storica o filosofica che sia) per motivi estrinseci, come potrebbe essere l'obbligo d'una ricorrenza (i centenari!) o un'ordinazione altrui. Tanto che, se pure alcuni dei suoi lavori gli sono stati richiesti, egli poi nell'esecuzione si è lasciato condurre non dalle ragioni dei richiedenti, ma dalle sue proprie esigenze, giungendo a presentare infine tutt'altra cosa da ciò che i committenti si aspettavano. Quando, ad esempio, nel 1909, ricevette da Halle l'invito, a comporre un'opera sull'etica o sulla filosofia della storia per una collezione di volumi sulle varie parti della filosofia, non respinse l'invito, ma soddisfece ad esso con tutta comodità (dopo sei anni: periodo di tempo lunghissimo per uno scrittore della sua fecondità), cioè soltanto quando l'argomento fu bene a fuoco nel suo interesse; e, per di più sovvertì totalmente nella trattazione ciò che in Germania s'intendeva, allora per filosofia della storia.5 E in ciò non si imponeva la pura e semplice esigenza teoretica che lo indirizzava ad una sua concezione della storiografia, perché essa era nata sopra motivi pratici, in quanto era rivolta a trovare la spiegazione dell'amore che spinge lo storico a ricercare nel già avvenuto e che urgeva nell'animo del Croce come «richiamo del passato»; richiamo che poteva apparire in contrasto con l'interesse filosofico, altrettanto urgente, ma rivolto non al trascorso bensì ai problemi del presente, di quell'eterno presente che considera i valori perenni della realtà. E la spiegazione veniva trovata nel calore stesso di quell'amore, tanto bruciante da non poter essere dovuto ad un richiamo del passato, ma da dover essere con assoluta evidenza attribuito alla suggestione d'un problema presente, praticamente vivo.
Persino le ricerche erudite del Croce sono ispirate dall'affetto per Napoli o per altri luoghi, oppure per alcuni particolari personaggi o monumenti o avvenimenti. Anche l'aneddotica, di cui il Croce fu cultore, sebbene non sorga sopra lo stimolo di un problema storico originato da una passione etico-politica, ha tuttavia sempre alla sua base una «curiosità»: l'aneddotica «nasce e si nutre anch'essa di un bisogno, del bisogno di tener viva e di accrescere l'esperienza delle più varie e diverse manifestazioni dell'anima umana, componendo una sorta di erbario che raccoglie sempre nuovi esemplari da campi sempre nuovi».6
Ma il suo stesso concetto di filosofia comporta una rivoluzione rispetto alla tradizione, in quanto per lui i problemi del pensiero non si pongono a freddo, ma sorgono sotto lo stimolo di moti del sentimento e di condizioni di vita.7 E il processo del pensiero non solo sgorga da motivi pratici, ma altresì sfocia nella brama dell'azione, in quanto la conoscenza è strumento di vita e non sterile pensare sul pensiero.8 In tal senso, la filosofia si identifica con la storia, perché «è valida nei limiti in cui è in grado di meglio chiarire e illuminare i problemi continuamente sorti dalla vita che è storia ed è vana ed arbitraria se ha rescisso o non mai stretto i suoi legami con la realtà storica».9 E la storia, a sua volta, è concepita dal Croce come «contemporanea», perché «solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato; il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente».10 Tale interesse è etico-politico, cioè pratico, in quanto il contenuto della storia è fondamentalmente etico-politico, tant'è vero che su tale base è possibile giustificare ogni elemento particolare della storia (la civiltà, la cultura, la politica, l'economia, le vicende militari e diplomatiche), poiché essa si rivolge non a settori specializzati, ma all'uomo in universale, cioè «agli uomini di coscienza, intenti al loro perfezionamento morale, che è inseparabile dal perfezionamento dell'umanità, e può dirsi veramente un grande esame di coscienza che l'umanità a volta a volta esegue di sé stessa nel suo operare e progredire».11
In ultima analisi, insomma, nel circolo della vita dello spirito, l'accento è posto dal Croce sopra l'attività pratica, anzi, nella sua più matura speculazione, proprio sulla vitalità, che è il momento più primitivo della vita, «crudo e verde, selvatico e intatto»: la realtà della c a r n e, della vita fisiologica, delle passioni; e rappresenta l'elemento trofico d'ogni altra attività, al punto che la vitalità è considerata addirittura come la molla della dialettica. In essa, cioè nella sua caratteristica irrequietezza, il Croce scopre infatti la forza capace di dare il movimento alla immobilità, di spiegare quindi il divenire, la realtà come divenire.12 Non solo, ma tutta la vita dello spirito, in conseguenza di ciò, non è mai concepita come un «contemplare», neppure nelle attività teoretiche (arte e filosofia), sibbene sempre come un «fare»; tanto che le forme dello spirito o categorie (del bello, del vero, dell'utile e del bene) sono definite dal Croce più maturo come «potenze del fare».
Lo spirito è attività, tensione alla creazione: e ciò appare in maniera ancor più evidente, se si considera che lo spirito stesso non è più posto dal Croce in una sfera sopramondana, distinta dal mondo del senso, ma è esso medesimo sensualizzato, calato nel mondo; mentre, contemporaneamente, il senso viene spiritualizzato, con quella redenzione della carne che rappresenta uno dei maggiori titoli di originalità e di modernità del pensiero crociano, e che si è concretizzata con la fondazione di due scienze «mondane»: l'Estetica e soprattutto l'Economica. Mondane, in quanto dànno dignità di forma positiva e creativa dello spirito al senso, elevato nell'Estetica a conoscere sensibile e intuitivo (con ciò ponendo un nuovo grado della conoscenza, oltre a quello tradizionale della razionalità); e nell'Economica a riconoscimento della legittimità e dignità dell'utile (precedentemente ammessa soltanto per l'eticità, mentre l'utile era confuso con l'egoistico); quel senso che un tempo era invece collocato fuori dello spirito e ad esso opposto, e che veniva quindi disprezzato e combattuto, come estraneo all'autentica vita dello spirito e per essa pericoloso.13
Particolarmente, infine, la passionalità (nel significato questa volta meno crudo e verde e più consapevole) appare nel valore che il Croce attribuisce alla religiosità, considerata come la forza che permette all'uomo di sollevarsi al di sopra dell'empirico e dell'individuale, realizzando in varie forme (nella poesia, nell'eroismo, in tutto ciò che va al di là del meramente empirico e individuale) l'insopprimibile anelito dell'uomo ad innalzarsi.14 L'importanza che il filosofo dà alla coscienza religiosa è tale ch'egli la considera indispensabile alla vita non solo degli individui ma altresì delle nazioni e dell'umanità tutta; tanto da attribuire ad una deficienza di essa (omnes Itali athei!) la maggior parte dei mali che si riscontrano nel nostro paese. Il suo opposto, cioè l'indifferentismo, il difetto di energia e di indirizzo, si trova quindi agli antipodi con la sua concezione della vita, intesa come operosità e perciò attività e decisione spirituale. L'indifferentismo è per lui il vero ateismo e vero ateo è l'indifferente ai valori dello spirito.15
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Da tutto ciò appare evidente quale posto debba avere avuto tra i problemi presentatisi allo spirito del Croce quello dei rapporti tra cultura e vita politica (che implica la definizione delle responsabilità degli intellettuali di fronte alla società e dei politici di fronte alla cultura) e quale ruolo decisivo nella soluzione di esso abbia avuto la passionalità del filosofo e la sua tendenza a ricavare l'impostazione d'ogni ricerca dai suggerimenti della vita pratica e dalle suggestioni del sentimento.
Veramente, egli non se ne occupò in maniera sostanziale nel primo periodo della sua esistenza, cioè sino allo scoppiare della prima guerra mondiale. La situazione politica italiana gli si presentava allora in forma complessivamente buona, per lo meno nel senso che, dopo la crisi dell'unificazione e le sue conseguenze, il processo di liberalizzazione sembrava, soprattutto con il nuovo secolo, ben avviato, pur nella gradualità e lentezza delle riforme. Il Croce, che proveniva da una tradizione di uomini dell'ordine e della legalità, aveva fiducia nel paese e poteva quindi dedicarsi con sufficiente serenità ai suoi studi. Tuttavia, non si estraniò mai dalla vita pubblica, memore senza dubbio del consiglio di Antonio Labriola, che raccomandava ai giovani studiosi di mantenersi informati della cronaca d'ogni giorno; ma soprattutto per la curiosità che sempre lo ha distinto, rivolgendolo alle manifestazioni della vita concreta.
Più in generale, non gli sfuggirono le zone d'ombra che aduggiavano la vita politica e sociale italiana: e ciò appare dagli studi sul marxismo, da lui condotti negli ultimi anni dell'Ottocento (dal 1895 in poi) e che si conclusero bensì con il rifiuto teoretico della dottrina del materialismo storico, ma insieme con il riconoscimento della bontà delle richieste etico-sociali del socialismo. Non solo, ma, in particolare, il Croce non mancò di prender netta posizione antigovernativa in occasione delle agitazioni popolari avvenute in ogni parte d'Italia e culminate nella crudele repressione operata a Milano dal generale Bava Beccaris nel maggio del 1898, ed altresì di sostenere la causa dei molti imprigionati in tali circostanze. Né esitò ad opporsi ad un tentativo d'estrema destra, organizzato intorno al 1910 con il finanziamento di molti grandi industriali.16 Il vivo amore che nutriva per la sua terra lo portò, infine, ad interessarsi dei problemi del Sud, intervenendo polemicamente in fatti di carattere secondario, ma preparando insieme, attraverso ricerche apparentemente lontane dal campo politico, quella che sarà la sua impostazione della «questione meridionale» nella sua complessità.17
Senonché, si trattò in quel periodo di fatti rivelatori bensì, ma in certo modo marginali; mentre egli fu fondamentalmente occupato dai suoi studi, che tuttavia non concepiva come una «torre d'avorio» in cui rimanere isolato dalla vita, in quanto era convinto di assolvere con essi il suo dovere di uomo e di cittadino, contribuendo nell'àmbito della cultura all'evoluzione generale, mentre non si considerava portato alle faccende politiche vere e proprie. I suoi interessi politici di allora possono perciò essere considerati marginali in senso relativo, nei confronti cioè dei dominanti interessi culturali; ma non sono né sporadici né di poco conto, in quanto, seguendo le pubblicazioni del Croce per lo meno dal 1888 in poi sino al 1913 (cioè per il primo periodo ora considerato), se ne ritrovano continuamente i documenti, e sempre più numerosi e di sempre maggior rilievo. A parte, infatti, i frequenti interventi spiccioli in questioni amministrative o civiche o politiche o storiche, si pensi agli Studi storici sulla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicati nel 1897, e alla massa di lavori sul marxismo, che segnano effettivamente un'epoca non solo per la formazione del Croce, ma altresì per la vita italiana. Al medesimo periodo del resto appartiene la Filosofia della pratica - Economica ed etica, uscita nel 1909.
Siffatto relativo disimpegno fu rotto dalla guerra mondiale e già prima ancora che vi fosse coinvolta l'Italia. Il Croce fu neutralista convinto, anche se non escludeva che si potesse intervenire nel conflitto, contro gli Imperi centrali, ma procrastinando al massimo la decisione. Stigmatizzò quindi le tosi dette «radiose giornate» del maggio 1915, nelle quali la minoranza piazzaiuola interventista s'impose e gettò il paese immediatamente nella mischia. Riti tardi vedrà retrospettivamente in quegli avvenimenti, che minavano la corretta vita parlamentare, il primo delinearsi della tendenza destinata ad affermarsi col fascismo.
Durante il conflitto soffri dei lutti universali e delle distruzioni; ma si erse a difendere i valori della cultura e quindi dell'autentica civiltà, insidiati dalle menzogne della propaganda di guerra, per la quale si prostituivano gli intellettuali di tutti i paesi, traviati da un malinteso amor di patria.
Risenti dello sconvolgimento apportato da quegli anni, tanto che nella crisi del dopoguerra avverti l'esigenza di approfondire gli studi storici e politici alla ricerca d'un chiarimento. Il sorgere del fascismo, tuttavia, lo sorprese ancora impreparato e lo ingannò, come accadde del resto a quasi tutti gli Italiani e in particolare agli uomini più responsabili della vita politica; ma egli non tardò a capire e a prendere apertamente posizione contro la dittatura. Dal 1925 in poi s'impegnò quindi con tutti gli strumenti che la cultura metteva a sua disposizione ed altresì col prestigio.del suo nome, per agire politicamente; e si mantenne in tale atteggiamento durante il secondo conflitto mondiale; anzi, nel dopoguerra, intervenne direttamente negli affari di governo e nella Assemblea Costituente, almeno sino a che l'età avanzata gliela permise (nel 1946 aveva già ottanta anni!).
Nel corso della sua vita il filosofo è dunque passato da un atteggiamento se non di indifferenza per lo meno di relativo distacco verso le vicende politiche, ad un interessamento sempre più vivo, tanto da spingersi in certi periodi all'intervento diretto. E ciò in relazione con il progressivo drammatizzarsi delle situazioni, come se il crescendo dello stimolo pratico finisse per innalzare la passione al di sopra del riserbo, contribuendo a superare nel pensiero la classica concezione dell'uomo di studio, come irresponsabile di fronte alla vita politica.
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Con tutto ciò, il Croce non può e non deve esser confuso con gli intellettuali tosi detti impegnati (engagés); in quanto, pur sentendo e assolvendo come pochi altri i doveri di cittadino e gettandosi anzi allo sbaraglio quando fu necessario, mantenne sempre chiara la distinzione tra la cultura e la politica. Fatto sta ed ä che quest'ultima ha costituito sempre per lui un problema, sia perché non vi si trovava a suo agio per il suo stesso carattere, sia perché la sua eticità temeva i compromessi impliciti all'attività politica, che facilmente può cadere nel machiavellismo deteriore. La sua posizione al riguardo richiede però vari chiarimenti.
In un passo dell'opera Discorsi di varia filosofia, il Croce pone una distinzione tra quelle che si chiamano ideologie politiche e l'ideale morale e della libertà. Le ideologie 'politiche sono, a suo avviso, idoli dell'amore e dell'odio, mantengono una parte contro l'altra, difendono o mirano a conquistare qualcosa di particolare per sé e per i propri alleati, privandone altri. L'idea morale e della libertà, invece, «è un messaggio agli uomini nella loro universale qualità di uomini, e non un'istigazione a conseguire particolari interessi variamente utilitari, e dispiega negli animi la sua virtù redentrice ed educatrice». Mentre le ideologie politiche «lasciano... vuoto il cuore dell'uomo nella sua semplice ed essenziale qualità di uomo, che solo nel congiungimento con l'universale trova a pieno sé stesso».18
La cultura, rappresentata dagli intellettuali, per i quali il Croce però non usa tale denominazione, fondamentalmente equivoca e non priva di ironici sottintesi, ma che definisce invece o uomini di cultura oppure, più solennemente ma insieme più impegnativamente, lavoratori spirituali o addirittura operai di civiltà; la cultura, insomma, ha il compito di difendere e propagare l'ideale morale e della libertà. Le ideologie politiche rimangono retaggio dei politici, che vengono nettamente distinti dagli uomini di cultura. Occorre tuttavia tener presente quello che nella dottrina crociana è il concetto di distinzione.
Il Croce, nella Filosofia della pratica, afferma che l'attività politica coincide con l'attività economica, in quanto entrambe possono ricondursi alla stessa categoria dell'utile; e che l'attività politica occupa insieme con l'economica il grado inferiore, mentre l'attività morale occupa il grado superiore dello spirito pratico; in modo tale però che i due gradi sono «distinti e uniti insieme: tali cioè che il primo possa concepirsi in certo senso indipendente dal secondo, ma il secondo non sia concepibile senza il primo».19 Da tali affermazioni può apparire un'inferiorità assoluta ed un completo distacco del momento economico-politico rispetto a quello morale, e quindi una visione deteriore dell'attività economico-politica.
Senonché, il Croce spiega esaurientemente nelle stesse pagine ciò che intende significare. Momento economico e momento etico sono insieme distinti e uniti. La distinzione si basa sul fatto che il primo può esser concepito come indipendente dal secondo, in quanto si possono pensare azioni prive di valore morale e tuttavia perfettamente economiche. L'unità, a sua volta, scaturisce dal fatto che il momento etico non è concepibile senza il momento economico, in quanto non è possibile pensare azioni morali che non siano insieme pienamente utili o economiche. Se così non fosse, cioè se le due forme non fossero insieme distinte e unite, si verificherebbe ch'esse dovrebbero essere giustapposte o parallele, e quelli dell'utile e del morale sarebbero allora concetti coordinati, cioè sottoposti al concetto generale di attività pratica e insieme assolutamente indipendenti in sostanza l'uno dall'altro, come due specie sottoposte bensì ad un unico genere, ma senza alcun rapporto effettivo tra di loro. Ciò che porterebbe gravissime conseguenze.
In mancanza dell'unità, infatti, si potrebbe pensare la moralità senza l'utilità: un'azione morale disinteressata; la quale poi, nella sua stoltezza, non sarebbe neppure azione, in quanto l'autentico agire nasce sempre da un libito individuale, che sarà bensì dominato e innalzato dalla volontà morale all'interesse universale, ma che rimarrà insopprimibile come spinta passionale originaria.
D'altra parte, in mancanza sempre dell'unità, si potrebbero pensare azioni utili che fossero insieme moralmente indifferenti. Ma ciò non è accettabile, in quanto, se il momento economico è distinto dall'etico, non è però da esso separato in senso assoluto, anzi permane in esso (come abbiamo visto) nell'unità della complessiva coscienza pratica, che è insieme etico-economica. Per tale unione, la moralità non può rimanere indifferente di fronte a nessuna azione economico-politica, perché l'indifferenza comporterebbe concessione di permessi contrari all'eticità.
L'indipendenza o autonomia del primo momento dal secondo è ammessa dal Croce soltanto in un certo senso: e cioè nel senso che non si può porre identità tra la forma economica e quella etica, in quanto l'identificazione condurrebbe a confusioni dannose al retto uso sia dell'una sia dell'altra, come vedremo. E il parlare di un grado superiore e di un grado inferiore significa puramente che «la coscienza utilitaria si distingue dalla coscienza morale, perché nella prima è soltanto implicita e indifferenziata, quella moralità, la quale nella seconda diventa esplicita, differenziata ed effettiva».20
In altri termini, l'autonomia dell'azione economico-politica dall'azione morale non implica l'assenza nella prima d'ogni coscienza morale: fatto impossibile, in quanto la vita dello spirito è sempre piena e completa in ogni suo momento, e le varie forme sono sempre tutte compresenti; bensì comporta solamente che nell'agire economico-politico l'uomo è e deve essere guidato non da finalità morali, ma da calcoli di utilità: e ciò dà all'agire stesso economico-politico una garanzia di successo che non avrebbe se fosse invece retto da finalità morali. Sarebbe come dire che l'economista e il politico devono essere economisti e politici, e non santi: cioè devono avere preparazione economico-politica e su di essa regolare la loro attività.
S'intende che, per l'unità dello spirito in essi vivente, secondo la loro stessa natura globale di uomini, e, per di più, per il fatto che le loro azioni coinvolgono sempre altri uomini e quindi altri esseri che insieme con la coscienza dell'utile posseggono anche quella del morale e con ambedue giudicano e, anzi, non essendo in maggioranza politici, dànno prevalenza alla valutazione etica, la quale, del resto, nella pienezza dell'attività pratica, sempre s'impone; ecco che gli economisti e i politici, implicitamente, non possono prescindere dalla considerazione morale. La quale sarà bensì vagliata da essi sulla bilancia dell'utilità, unico strumento tecnico a loro specifico; ma ponendo per forza di cose tra i pesi negativi l'azione immorale come non utile o addirittura dannosa, in quanto suscettibile di un giudizio negativo sufficiente a ridurre o ad annullare ogni eventuale seduzione di utilità che anche le azioni non morali possono ingannevolmente diffondere. La moralità, insomma, sussistendo sempre esplicitamente o anche soltanto implicitamente nell'animo umano, farebbe sentire la sua voce, che influirebbe sul valore dell'azione, anche dal punto di vista economico-politico.
Il Croce illustra la sua posizione, osservando che, se dopo il Machiavelli non poteva esser più messa in dubbio la positività della politica; neppure la positività della coscienza morale poteva essere abolita dopo il Cristianesimo. Per ciò, il problema che viene posto nell'epoca moderna dopo il Machiavelli, è quello di armonizzare il valore positivo e originale della politica con la positività e originalità e autonomia della moralità. Ciò che appare ottenuto con la teoria dell'unità nella distinzione.21
Con tale soluzione, se pure viene riconosciuta la positività della politica, tuttavia quest'ultima è sempre considerata come unilaterale e richiedente quindi la compresenza della moralità. Dice, infatti, il Croce:
... com'è necessaria e feconda la politica, e la produzione delle utilità e, in generale, l'economia! Ma tentate di plasmare con queste forze sole la vita, e avrete l'impoliticità della politica; l'inutilità delle astratte utilità, o la falsificazione dell'una e delle altre, che smarriscono la loro ragion d'essere e il loro ufficio, e, fatte indebitamente signore assolute, non hanno niente più da signoreggiare che valga.22
Tale considerazione si ricollega alla dottrina generale del Croce, per la quale «nessuna delle forme della storia può essere isolata dalle altre tutte»: e quindi non indica una condizione particolare ed umiliante per la sola forma dell'economico-politico. Ma, in tutti i modi, vale a dimostrare che il politica puro, cioè colui che vuol ridurre tutti i problemi della vita a politica e crede che tutti possano essere risolti politicamente, sbaglia di grosso. Cosf, non è possibile risolvere questioni morali o magari estetiche e culturali, solamente mediante provvedimenti politici. Eppure, tale è la fissazione degli ideologi d'ogni colore (e perciò, come abbiamo veduto, il Croce teme le ideologie): siano essi marxisti che pretendano di indirizzare l'arte e la cultura, oppure cattolici romani che ritengano di salvare la moralità della famiglia, negando il divorzio.
La politica, rientrando nella categoria dell'economico, ha soltanto un valore settoriale, e precisamente quello ristretto all'utilità. Un provvedimento politico, appunto perché ha soltanto efficacia utilitaria, è, per tosi dire, sprecato, quando pretende di influire sopra settori che gli sono vietati: non è più utile, e quindi diventa impolitico, se vuol dettar legge all'arte, alla cultura, alla moralità. Non solo, ma nello sforzo di penetrare in campi non suoi, finisce anche per deprimere ciò che voleva rafforzare: e le imposizioni politiche sull'arte e sulla cultura, oltre che essere politicamente inutili o addirittura dannose, rovinano altresì l'arte e la cultura; e se si rivolgono alla morale, deprimono anch'essa, come nel caso dell'imposizione coatta dell'indissolubilità del matrimonio, la quale, in, pratica, favorisce situazioni di illegalità (cioè di danno per un'ordinata vita politica) e di immoralità insieme.
Il politico, se mai, ha soltanto un dovere verso le altre attività: quello di favorire le condizioni che le rendono possibili, e cioè, in ultima analisi, la libertà, come solamente è data da istituzioni veramente democratiche e tali che permettano lo sviluppo di tutte le personalità individuali in ogni loro legittima aspirazione, dalle più ambiziose alle più modeste: dalla libertà di opinione, di pensiero e di parola, alla libertà dal bisogno materiale. Al di fuori di ciò, che pure è compito difficile, nobile e insostituibile, niente altro deve fare il politico: neppure cedere alla tentazione di aiutare le altre attività umane, e sia pure in buona fede. Un simile aiuto, infatti, non può non essere pericoloso: in quanto è pressoché impossibile evitare nell'attribuirlo discriminazioni sempre dannose, anche se sono basate sopra un giudizio attinente al merito specifico di quelle attività stesse, per l'ingiustizia implicita al criterio di premiare i miglior i, come se già non fossero essi favoriti dalla natura e come se i peggiori non avessero anche loro diritto di essere protetti. Una società non è fondata solamente sugli ottimi, che sono sempre pochissimi; ma sull'immensa base dei mediocri e degli insufficienti: tant'è vero che uno dei pericoli dell'attuale tendenza alla specializzazione sta nella deficienza di operatori nei settori più umili, eppure importantissimi alla vita.
E poi, chi emetterebbe il giudizio di merito? Non certo i politici, i quali non possono essere contemporaneamente competenti in arte, cultura, scienza, morale; o anche se sono esperti, come privati cittadini, in siffatte cose, sempre predominerà in essi la considerazione politica, se sono realmente buoni politici. Ché, se tali non fossero, il loro giudizio sarebbe ancor più dubbio, in quanto proverrebbe da uomini malfidi: letterati, artisti, scienziati, santi che si sono fatti politici senza tali essere effettivamente e quindi traditori non solo dell'attività politica, ma anche della loro vocazione di letterati, artisti, scienziati, santi, anzi equivoci in quella stessa loro vocazione.
Potrebbero essere incaricati delle valutazioni, come per lo più avviene, i competenti stessi in ciascuna attività. Senonché, quanto ciò valga è dimostrato dalla sorte comune a tutti i premi letterari, artistici, culturali e persino scientifici e morali (i premi per la pace!), pure attribuiti da giurie specializzate, ma che mai o molto raramente e per puro caso riconoscono l'autentico merito e si lasciano piuttosto guidare da preconcetti di scuola e d'indirizzo, da legami di amicizia o di clientela, se non addirittura da pressioni o considerazioni schiettamente politiche: ricadendo quindi, com'è logico, nel male originario. Ogni premio, ogni aiuto effettivo, non può essere che economico e quindi ineluttabilmente legato ad una sorgente utilitaria, che, malgrado ogni buona intenzione, non può non farsi sentire. È logico che chi dà i soldi, sia esso un privato o un gruppo di operatori economici o un partito o altresì un organo statale o governativo, voglia sapere come essi vanno a finir e. Il mecenatismo disinteressato non è mai esistito, né all'epoca di Augusto, né in quella del premio Nobel: e ciò non deve scandalizzare, ma:soltanto ammonire alla prudenza in simili cose. Le autentiche democrazie si rendono conto di tali realtà ed operano in modo che l'aiuto offerto dai politici alle altre attività sia quanto mai esteso a tutti i cittadini e quindi massimamente indiscriminato, attuando provvedimenti intesi ad esempio, a far si che tutti possano istruirsi gratuitamente (anzi, nei casi migliori, considerando l'istruirsi un servizio sociale e quindi da retribuirsi), organizzando assistenza sanitaria gratuita, assicurando insomma a ciascuno possibilità di vita dignitosa dalla nascita alla morte e a tutti i livelli: che sono poi garanzie di libertà e che solamente nella libertà possono essere concepite e realizzate. Del resto, i politici conoscono tanto bene l'antifona che, quando hanno voluto dominare, non solo hanno tentato di impedire l'instaurarsi delle condizioni della libertà, ma altresì hanno cercato di prendere le redini della vita culturale, servendosi allo scopo di allettamenti pratici, come le famigerate Accademie, da quella del cardinale di Richelieu a quella del Mussolini: ufficialmente destinate a favorire la cultura, ma in realtà valide soltanto a prostituirla con l'attrazione di onori, stipendi e prebende varie.23
Tutto ciò conferma a posteriori il presupposto e cioè la verità dell'identificazione di politica ed economia compiuta dal Croce e che viene tanto criticata da coloro i quali vorrebbero assegnare alla politica valori sconfinanti dalle sue attribuzioni: e cioè in concreto da tutti i sostenitori dello Stato etico, che in ultima analisi è l'espressione più matura e raffinata delle varie forme di paternalismo, dittatura, assolutismo, tutte tendenti a porre ogni attività umana alle dirette dipendenze o sotto il controllo dell'autorità politica, con l'unico risultato di fare cattiva politica e di ostacolare insieme il retto funzionamento delle diverse attività, assicurato soltanto dalla loro autonomia.24
In effetti, la politica non è altro che una tecnica dell'utile25 e il politico è tanto più valente, quanto più sa tecnicamente individuare l'autentica utilità, discernendo al tempo stesso l'inutilità e la dannosità di provvedimenti soltanto in apparenza o momentaneamente utili e non dannosi (un'infrazione alla morale, un'imposizione sugli uomini di cultura, la negazione d'un diritto naturale). D'altra parte, il qualificare la politica come tecnica non comporta alcuna considerazione negativa, in quanto come tale essa è preziosa all'uomo, anzi indispensabile, purché naturalmente non deroghi dal suo ufficio.
Certamente, tuttavia, essa viene posta in tal modo sopra un piano diverso da quello della cultura, la quale si vale anch'essa di suoi strumenti tecnici, ma non mira all'utilità, bensì alla bellezza e alla verità: e non è quindi essa stessa tecnica, bensì è conoscenza. E, poiché la conoscenza non è fine a sé stessa, ma è a, sua volta strumento di vita cioè di azione: ecco che la cultura non solo si distingue dalla politica per diversità di fini, ma è addirittura in grado di preparare il terreno alla politica, in quanto quest'ultima è azione e necessita della conoscenza.
S'intende, però, che la cultura, essendo non strumento in senso tecnico e quindi settoriale, ma preludio teoretico all'azione globale dell'uomo, non preparerà unilateralmente la via alla sola politica, ma alla politica e all'etica insieme, cioè alla pienezza dell'azione pratica, che è perfetta solamente nel momento etico. Di qui deriva la possibilità d'un contrasto tra cultura e politica: contrasto che in effetti non dovrebbe nemmeno presentarsi, se i politici fossero ben coscienti dei limiti della loro giurisdizione, cioè se fossero veramente politici; ma che in realtà si pone a causa del sussistere negli uomini di stato di tendenze prevaricatrici, direttamente proporzionali alla loro incapacità.
Naturalmente, responsabili di tale contrasto sono altresì gli uomini di cultura, allorché pretendono di influire sulla vita politica al di là del lecito. È necessario, quindi, vedere in quale senso si può parlare di una azione preparatrice della cultura rispetto alle attività pratiche. Non certo in quello che l'intellettuale debba essere consigliere del politico in ciò che concerne l'azione da eseguire. Infatti, affinché ciò fosse possibile, dovrebbero realizzarsi due condizioni: che il futuro fosse prevedibile in senso assoluto mediante un atto di conoscenza e che l'intellettuale fosse in grado di decidere in merito all'azione pratica richiesta dalla situazione prevista nel futuro. Ora, la seconda condizione è contraria già di per sé stessa alla vocazione dell'uomo di cultura, il quale, in quanto tale, non è uomo d'azione e non ha quindi la capacità di decidere in merito alle azioni. Tanto più se si tratta di un agire rivolto a risolvere situazioni future, per le quali non è possibile (e ciò pone l'assurdità anche della prima condizione) alcuna previsione in senso assoluto: né per l'uomo di cultura né per il politico.
Tuttavia, a tal riguardo, la posizione del Croce non è drastica. Egli nega una prevedibilità in senso assoluto, ma non nega una prevedibilità relativa, a differenza del positivismo, per il quale, essendo vero soltanto il perfettamente verificabile, sia per via matematica sia per via sperimentale, non può essere assunto come certo il fatto non ancora accaduto, che è di per sé stesso non verificabile e che, anzi, non è neppure un fatto, dal punto di vista positivistico.
Senonché, una prevedibilità relativa, se pure non può essere accantonata come senz'altro falsa (la non verificabilità del futuro è, infatti, a due facce, perché, se non può dare la sicurezza del vero, non può dare neppure quella del falso), non può nemmeno essere considerata come assicuratrice di certezza, ma solamente come un congetturare. Il quale possiede non valore teoretico (di verità), ma pratico, in quanto serve come strumento alla tecnica dell'agire: anzi fa parte di quella tecnica. Né il parlare di congetture deve far scadere l'attività del politico, come se egli si affidasse a immaginazioni o fantasie. Altro, infatti, è il congetturare che sempre si basa su dati di fatto e si muove lungo una linea quanto più possibile logica di calcolo delle probabilità; ed altro è l'immaginare, che si affida solamente alla fantasia. In pratica, sempre si procede per congetture in campo tecnico: non solo il politico, l'economista, il sociologo, ma altresì lo scienziato, in quanto tecnico, non possono far altro che congetturare l'andamento futuro della realizzazione d'ogni loro progetto, senza mai poterne avere la sicurezza al mille per mille. Soltanto chi fa scienza pura o, come si suoi dire, teoria, è sicuro delle previsioni, che poi, in tal caso, non sono affatto tali in senso proprio, in quanto sono pure e semplici deduzioni da principi posti, e quindi già implicite in essi e non risultanti da un reale processo storico, né soggette alla contingenza dell'accadimento effettivo. Ma tutti coloro che dalla teoria passano all'applicazione pratica, sia essa un'azione morale, un intervento economico o politico o sociale o didattico o sanitario, oppure una costruzione materiale, devono sempre fare i conti con le innumerevoli contingenze a cui tutti i fatti sono sottoposti.
Né ciò impedisce l'azione, per la determinazione della quale è necessaria una scelta, in; cui prevale bensì un atto di coraggio, ma che si esplica appunto sulle congetture fatte al riguardo. In mancanza d'una prevedibilità in senso assoluto, il congetturare è dunque indispensabile, perché senza di esso l'azione poggerebbe sul vuoto, anzi non sarebbe neppure definibile come azione, in quanto questa è tale solamente se sgorga dalla volontà di realizzare un progetto pensato secondo uno schema che attinge all'esperienza del passato, ma deve considerare, sin dove è possibile, le eventualità future.
Certamente, il congetturare è sufficientemente valido all'immediato agire, mentre si fa sempre più incerto quanto più lo si vuole spingere nel futuro; ma, anche per gli avvenimenti più prossimi al presente, resta sempre affidato ad una probabilità, non difficilmente smentita dall'accadimento reale. Senonché, l'autentico politico, il quale, per la sua stessa vocazione economica, cerca l'utile ed evita il dannoso, non si perde mai in calcoli riguardanti un futuro troppo remoto; e limita anzi le sue congetture al panorama più immediatamente vicino al suo sguardo. Si potrebbe senz'altro affermare che egli cerca di prevedere non tanto il futuro quanto il presente: perché già nel presente sussistono innumerevoli zone oscure; le quali, come tali, sono nascoste alla conoscenza e quindi in sostanza future: se il tempo non è da commisurarsi ad un inesistente ritmo oggettivo, ma è scandito dalla gradualità del conoscere. Non a torto il Croce afferma che «il 'prevedere' è un 'ben vedere il presente'...»,26 cioè un ricercare in esso quanto ancora si cela alla nostra conoscenza. Anzi, per essere esatti, l'uomo lavora sempre soltanto per il presente, quando effettivamente lavora, e il parlare di futuro è esclusivamente un parlare per immagini.
Lavorare per il futuro? Lavorare per le generazioni avvenire? Sia pure; ma è un modo di dire, un'immagine...; giacché o le generazioni avvenire sarebbero per effetto del nostro lavoro messe in condizione di non dover più lavorare e non sarebbero più generazioni umane, ma putredine; o a loro volta lavorerebbero ciascuna di esse per le generazioni avvenire; e del lavoro non si ritroverebbe mai il puro e semplice beneficiario, colui che non dovrà più 'desudare'. Il pensiero vero, adombrato nell'immagine, è che buon lavoro è quello che oltrepassa le nostre persone e s'indirizza all'universale. Si lavora sempre per sé e per il presente, e non per altri e per l'avvenire; ma per quel 'sé' che è lo spirito, e per quel sempre presente che è l'eterno...; noi nel nostro lavoro stesso abbiamo la ragione del lavoro e la soddisfazione nostra, vivendo e sentendo di vivere nel presente da uomini, che è quanto di meglio si possa fare nel mondo.27
* * *
Da tutte le precedenti considerazioni scaturisce che il politico è un tecnico dell'azione politica, per prepararsi alla quale si serve di congetture, utilissime ma non necessariamente vere in senso teoretico: ciò che in pratica non interessa al politico, il quale mira all'utilità e non alla verità. La quale è, invece, scopo fondamentale all'uomo di cultura; perché, anche se quest'ultima non è fine a sé stessa,, ma rappresenta uno strumento di vita, tuttavia, per l'intellettuale, è strumento tanto più valido quanto più consacrato dalla verità. L'importanza del vero è talmente essenziale e soddisfacente per l'uomo di cultura, che egli, come individuo, può fermarsi ad esso, lasciando all'uomo d'azione il beneficio pratico che può derivarne. Di qui la tendenza dell'intellettuale ad essere più spettatore che attore della storia: sebbene sia tale spettatore da non poter non influire sul corso delle cose, se non per determinarlo, certamente per prepararlo, ma altresì agendo egli stesso come uomo. La distinzione, infatti, tra teoretico (l'intellettuale) e pratico (il politico) è valida speculativamente, ma non empiricamente, in quanto si tratta di due momenti dello stesso spirito, uniti nella realtà dell'uomo. Per ciò, anche il politico non può essere puro attore, ma avrà in sé altresì un'esigenza di verità, perché diversamente non sarebbe uomo completo e quindi neppure buon politico, per quanto abbiamo già visto, cioè per la necessità di non ridurre tutto a mera azione politica.
Ma, essendo la ricerca della verità precipuo compito dell'uomo di cultura, ecco che la missione specifica di quest'ultimo nei confronti del politico, sarà di chiarirgli appunto la verità. Non, però, una verità particolare ed empirica, ma l'universale verità dell'uomo, sia per ciò che riguarda la situazione storica in cui vive, sia per ciò che riguarda l'imperativo della coscienza morale, senza della quale il vero rimane astratto e quindi disumano. L'intellettuale non dovrà, dunque, essere consigliere del politico, alla maniera di quanto tentò il Taine che chiamava i competenti medici consultori; proposito assurdo, in quanto, in tale caso, si tratterebbe di medici che dànno consulti ma non medicano; senza contare che è altresì assurdo considerare il mondo come un malato e gli intellettuali come medici capaci di guarirlo, perché, né il mondo è un malato, né gli intellettuali possiedono virtù mediche.
Il mondo non è un malato se non fosse di quella malattia che è la vita stessa, la vita nel suo rigoglio, un complesso di forze vitali che bramano e vogliono e tentano e operano, ardono di passioni, di speranze, di fedi, si oppongono tra loro in gare e contrasti, prorompono in deliri di amore e di odio.
E gli intellettuali sono «uomini tra gli uomini», «impegnati come forze vitali tra quelle forze vitali» e non possono «determinarle», come la voce dei violini non può «determinare» quella degli altri strumenti dell'orchestra di cui fanno parte, mentre tutti insieme contribuiscono nel loro ruolo al concerto complessivo. Ma, nella stessa attività intellettuale, hanno già la loro funzione specifica, assolvendo la quale compiranno il loro dovere nei riguardi del mondo politico, come non potrebbero fare se in esso pretendessero di intromettersi direttamente, o con l'azione pratica (al di là dei loro stretti doveri di cittadini e con la boria della loro cultura) o con le ricette e i consigli.
Certamente, l'intellettuale, come uomo, deve assolvere a tutti i doveri che ha in comune con gli altri e non estraniarsi dalla vita: in ciò servendo al bene comune. Ma, come uomo di cultura, cioè nel ruolo a lui più connaturato e in cui meglio può fruttare, dovrà svolgere la sua specifica opera,
che è un dovere, anch'essa, se è dovere servire al vero e al bello, produrlo e serbarlo puro e incontaminato. Dinanzi alle rovine e ai pericoli del mondo non si deve far altro che rendere più intensi il culto dell'ideale e l'operosa vita morale, in noi stessi primamente e direttamente, e negli altri mercé l'esempio e l'opera che è intesa a questo fine.
In concreto, l'intellettuale, per assolvere il suo compito nei riguardi della vita pratica, deve rammentare (a sé stesso e agli uomini d'azione) quel che sono, l'uomo e la vita umana: nelle loro possibilità effettive, al di là del pessimismo e dell'ottimismo; illuminare la situazione storica in cui si deve vivere e operare, sempre allo scopo di evitare illusioni; esortare, infine (sé stesso e gli uomini d'azione) ad ascoltare la voce della coscienza per ispirarsi all'azione28: compito, come si vede, tutt'altro che facile e passivo, e che richiede non solo un'attenzione sempre vigile sulla realtà, ma altresì chiarezza d'idee, indipendenza, onestà e coraggio.
Tale, in concreto, è stato l'ufficio che il Croce si è assunto, già a cominciare dalla prima guerra mondiale, ma soprattutto con l'opposizione alla dittatura; in esso perdurando sino all'ultimo e impegnandovisi con tutta la forza del cuore e della mente, senza mai tradire la sua vocazione e proprio per questo assolvendo nel modo migliore i suoi doveri d'uomo e di cittadino. Dal suo insegnamento scaturisce che l'intellettuale non va inteso come un puro e semplice competente in questioni culturali; ciò che ridurrebbe la cultura a tecnica e quindi a mero strumento per fini di immediata utilità pratica. Mentre l'autentica cultura, come ricerca di verità al di là d'ogni interesse pratico, vive di libertà ed insieme la potenzia, e quindi si nutre di moralità e ne costituisce al tempo stesso l'alimento, in quanto non si dà eticità senza libertà. Il concetto di verità, come quello di libertà, è, infatti, un concetto etico, perché solamente in un'autentica coscienza morale possono fruttificare la ricerca del vero e l'amore per la libertà. Elementi della cultura non sono perciò soltanto l'intelligenza o il genio e la capacità di studio o l'erudizione; ma soprattutto il cuore: cioè la coscienza del bene, che è contemporaneamente coscienza della libertà e del vero, ed altresì infine del bello, quale coronamento nell'efficacia dell'espressione alla purezza d'un'esistenza cosmicamente aperta a tutti i valori.
Tra gli uomini di cultura, al filosofo, quale primo responsabile di tale cuore, spetta il compito più umile e più arduo insieme. Egli sa, infatti, di non essere né onnisapiente né preveggente, e che tuttavia gli uomini a lui sempre guarderanno come a m a estro e lo condanneranno senza pietà se gli accadrà di errare: mentre non gli mostreranno alcuna gratitudine per ciò ch'egli avrà fatto di positivo a favore della comunità. Sebbene più d'ogni altro inserito nella realtà e ad essa partecipante come all'interesse fondamentale del suo spirito, egli sembrerà vivere lontano dagli altri uomini, quasi appartenesse ad un mondo diverso; e la gioia che ricaverà dalla sua opera sarà solitaria e severa, dura e alpestre, da pochi apprezzabile, eppure esemplare per tutti. In ciò, veramente, egli rappresenta la voce della coscienza u m a n a: quell'intimo spirito che si cela in ogni uomo e lo ammonisce, e lo infastidisce spesso, ma assume su di sé ogni colpa e non riceve del bene altro premio all'infuori d'una soddisfazione, non pacifica, bensì essa stessa combattuta, sanguinante anzi talvolta per le rinunce e i sacrifici, e appunto per ciò degna più d'ogni altra dell'uomo.
NOTE
1 Persino Renato Serra si è fermato a tali aspetti, al punto di sentirsi infastidito dal «sorriso calmo» e dal «viso lieto» del filosofo. (Cfr. del Serra gli Scritti, Firenze, Le Monnier, 1958, vol. I, p. 354).
2 Veramente, Fausto Nicolini, nel suo Croce (Torino, Utet, 1962, p. 69), riferisce che, secondo la stampa dell'epoca, non ore, ma giornate e nottate intere sarebbe durata quell'angoscia, in quanto il Croce sarebbe stato tra gli ultimi salvati. Ma, se ciò fosse vero, la nostra convinzione ne risulterebbe rafforzata. Quanto alla «maturità» del Croce diciassettenne, non solo egli aveva già terminato il Liceo classico, ma aveva già dato prove concrete di grande precocità negli studi e di serietà.
3 Contributo alla critica di me stesso, Bari, 1945, pp. 17-18.
4 Le impressioni crociane sulla prima guerra mondiale sono in gran parte raccolte nel volume L'Italia dal 1914 al 1918: pagine sulla guerra (Bari, 1950). In particolare, si vedano il primo articolo della sezione terza («Parole d'un italiano»), scritto il 3 settembre 1917, cioè subito dopo Capo-retto; e il sedicesimo della stessa sezione («La vittoria»). Per ciò che riguarda il ventennio fascista e il secondo conflitto mondiale, cfr. i due volumi di Scritti e discorsi politici (1943-1947) (Bari, 1963). Ci sia consentito di citare sull'argomento i nostri saggi, Croce di fronte al fascismo (sopra la «Nuova Rivista Storica», anno XLVIII, fasc. V-VI, 1964, pp. 579-605), e Salvemini e Croce (sopra la «Rassegna Pugliese», anno I, 1966, fasc. I, pp. 12-39; fasc 3, pp. 206-240; ed una terza puntata destinata al fasc. 5).
5 L'opera fu pubblicata in Germania nel 1915, col titolo Zur Theorie und Geschichte der Historiographie (aus dem Italienischen übersetzt von Enrico Pizzo, Tübingen, Mohr); e poi in Italia nel 1917 come Teoria e storia della storiografia.
6 La storia come pensiero e come azione, Bari 30 ed. 1939, p. 120.
7 Contributo alla critica di me stesso cit., pp. 48 e 50.
8 Cfr. Nuovi saggi di estetica, Bari 3° ed. 1948, pp. 59-60; Filosofia della pratica, Bari, 4° ed. 1932, pp. 195-6; Ultimi saggi, Bari, 2° ed. 1948, dalla p. 353 in poi; Conversazioni critiche, Quinta serie, Bari, 1939, pp. 270-1.
9 Raffaello Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, Napoli, Morano, 1966, p. 101.
10 Teoria e storia della storiografia, Bari, 39 ed. 1927, p. 4.
11 Ivi, p. 313.
12 Indagini su Hegel, Bari, 1952, pp. 29-45.
13 Breviario di estetica, Bari, 1952, pp. 151-168.
14 Etica e politica, Bari, 3° ed. 1945, pp. 207-8.
15 Ci sia consentito di citare sull'argomento la nostra monografia sopra La religione in Benedetto Croce, Bari - Santo Spirito, Edizioni del «Centro Librario», 1964.
16 Cfr. Denis Mack Smith, Storia d'Italia, Bari, 1961, p. 423.
17 A tale scopo varranno particolarmente gli studi sulla letteratura italiana del Seicento e sulla rivoluzione napoletana del 1799, tutti compiuti nell'età giovanile.
18 Discorsi di varia filosofia, Bari, 1945, vol. I, p. 299.
19 Filosofia della pratica cit., p. 226.
20 Ivi, p. 225.
21 Indagini su Hegel cit., pp. 168-9. Per conto nostro abbiamo trattato della «distinzione» crociana e dei suoi possibili sviluppi, nei saggi Considerazioni intorno al nesso dei distinti (sopra la «Rivista di studi crociani», anno I, fasc. 2, aprile-giugno 1964, pp. 188-197) e Trascendentale ed empirico nelle forme dello spirito (ivi, anno II, fasc. 3, luglio-settembre 1965, pp. 293-306), ai quali ci permettiamo di rimandare.
22 Indagini su Hegel cit., p. 151.
23 Eppur ancor oggi non manca chi sogna rinnovate Accademie. Al riguardo è interessante seguire la polemica contro tali ambizioni condotta da Fausto Nicolini sopra «Il Mondo» (dal 25 giugno al 22 ottobre 1957) e raccolta poi in un volumetto intitolato Neque italica academia restauranda neque lynceorum academia contaminanda (Napoli, Ed. de «L'arte tipografica», 1957). Perché tale sarebbe stato il risultato: rovinare l'Accademia dei Lincei, una delle poche istituzioni libere e feconde.
24 Contro la dottrina dello «stato etico» Croce già scriveva nel 1924. Cfr. Elementi di politica, Bari, 4° ed. 1952, pp. 26-34.
25 Indagini su Hegel cit., pp. 162-3.
26 Conversazioni critiche, Quinta serie, Bari, 1939, p. 351.
27 Ivi, pp. 353-4.
28 Filosofia e storiografia, Bari, 1949, pp. 335-340.