IL CRISTALLO, 1962 IV 1 | [stampa] |
È uscito di recente nella collezione «Testimonianze del tempo» dell'editore Parenti di Firenze, un libro di Paolo Alatri e di Edio Vallini sulla questione dell'Alto Adige.
Se non andiamo errati, questa è la prima opera di ampio respiro, dedicata all'Alto Adige, pubblicata, in questo dopoguerra, da un editore di importanza nazionale.
Dopo tanti articoli di inviati speciali, dopo tanti saggi apparsi nelle nostre riviste di cultura, che non sempre sono riusciti a centrare il nocciolo della questione altoatesina, in quanto hanno colto soltanto momenti singoli di essa, è certamente da giudicare positivamente il tentativo di Alatri e di Vallini di tracciare un profilo storico delle vicende politiche dell'Alto Adige da quando esse hanno incominciato ad interessare direttamente il nostro paese. E poiché il libro, nelle due sue parti, è di agevole lettura, si può sperare che esso avrà non pochi lettori e che contribuirà a rendere meno occasionale l'interesse per la questione dell'Alto Adige in un settore dell'opinione pubblica italiana, che su altri argomenti è ben altrimenti informato.
L'argomento è di scottante attualità; non è da stupirsi quindi che il libro sia un saggio di storiografia pura fino ad un certo punto: non solo nella seconda parte, dedicata agli avvenimenti altoatesini di questo dopoguerra, ma anche nella prima parte che risale alle origini della questione, a tempi quindi relativamente remoti, esso si presenta piuttosto come un saggio politico, come un saggio cioè che propone una determinata linea di azione politica con argomentazioni tratte dalla storia.
Paolo Alatri, nelle prime pagine del suo saggio introduttivo, precisa quali sono le difficoltà che si presentano allo storico dell'Alto Adige. Ci sono, egli dice, due antinomie che ingombrano il campo della ricerca e rendono arduo il compito di ricostruire obiettivamente i fatti: la prima antinomia nasce dalla contraddizione tra il carattere geografico e il carattere etnico linguistico della regione; la seconda dal carattere contraddittorio del movimento autonomista sudtirolese che, nelle sue rivendicazioni, da un lato si ispira a motivi democratici, dall'altro accoglie motivi che sono di derivazione pangermanista, neonazista, quindi antidemocratica.
In effetti la polemica delle parti in lotta ha giocato e gioca tuttora sugli equivoci che nascono da queste antinomie, contribuendo non poco a rendere incerto il giudizio anche di coloro che non partono da tesi preconcette.
Tuttavia non direi che queste antinomie, come ritiene Alatri, possano imbarazzare lo storico: se sono colte nella loro concretezza, come temi che hanno polarizzato di volta in volta e in forme diverse la lotta politica in Alto Adige, esse non soltanto non possono generare equivoci, ma anzi costituiscono quasi una falsariga per lo storico, il quale però non ha il compito di proporne la soluzione, quanto di spiegare la loro genesi e di determinare il loro peso negli avvenimenti politici, nelle successive fasi del processo storico.
L'Alatri, a mio modesto avviso, si impegna troppo nel lavoro di confutazione di alcune tesi politiche che si collegano con queste antinomie; così facendo, egli alimenta una polemica che politicamente può essere importante, ma che rende più difficile quel discorso storiograficamente rigoroso che pareva volesse iniziare dopo la premessa di carattere metodologico fatta nelle prime pagine del saggio.
Per quel che concerne la prima antinomia, Alatri raccoglie abilmente prove sufficienti che il problema del confine del Brennero fu avvertito piuttosto tardi in Italia. Durante il Risorgimento, e a questo proposito è citato un importante saggio di Bice Rizzi, i patrioti trentini e delle restanti parti del nostro paese non ritennero che si dovessero avanzare pretese sull'Alto Adige. La voce di Mazzini in favore dell'annessione dell'Alto Adige all'Italia risuonò isolata, ed è lecito pensare che la sua opinione fosse dovuta a scarsa informazione sulla consistenza del gruppo etnico di lingua tedesca al di qua del Brennero.
Cesare Battisti, come si può provare sulla base dei suoi scritti e sulle testimonianze di Ernesta Battisti e di Gaetano Salvemini, non condivise mai la tesi di Tolomei.
Tolomei rappresenta, anche nel campo degli irredentisti trentini, l'eccezione; tuttavia furono le sue tesi a prevalere quando, per motivi strategici, i nostri uomini di governo ebbero bisogno di pezze di appoggio per chiedere l'annessione dell'Alto Adige. I lavori del Tolomei furono poi valorizzati da quegli uomini politici che, nella crisi del dopoguerra, furono per soluzioni sostanzialmente autoritarie, dai nazionalisti e dai fascisti.
Una volta annesso all'Italia, l'Alto Adige costituì un grave problema per la nostra classe dirigente. I democratici che si erano dimostrati avversi all'annessione di un territorio abitato da una popolazione alloglotta, si batterono per una politica che rispettasse al massimo i caratteri etnici e linguistici dell'Alto Adige. Alatri, che di recente ha pubblicato un saggio sulla politica estera di Nitti, dimostra come durante il ministero Nitti parve che la politica italiana in Alto Adige si orientasse in senso democratico. Sennonché con Giolitti cominciarono a prevalere le tesi dei nazionalisti che poi trionfarono con l'avvento del fascismo. Con ampie citazioni Alatri documenta efficacemente l'atteggiamento di Bissolati, di Salvemini e di Turati. Il clima politico del dopoguerra doveva però favorire in Alto Adige l'affermarsi di correnti mutuamente sopraffattrici: ai fascisti si contrapposero, in campo sud-tirolese, i nostalgici del programma pangermanista che pretendeva di portare il confine a Borghetto.
Il periodo fascista è lumeggiato con un'ampia citazione di Salvemini. Le pagine di Salvemini sono certamente le più vive e penetranti che abbiamo in Italia sull'argomento; tuttavia, specialmente per quel che concerne la grave questione delle opzioni, mi sembra che l'Alatri avrebbe dovuto approfondire gli accenni del Salvemini.
La questione delle opzioni è infatti un momento cruciale della storia dell'Alto Adige. L'accordo di Mussolini con Hitler rivelò il fallimento della politica sopraffattrice dei fascisti: il popolo sudtirolese non era stato piegato, anzi i torti subiti lo avevano reso più compatto e disponibile alle suggestioni dell'irredentismo. Il nazismo, che giocava in tutta Europa la grande carta dell'irredentismo tedesco, penetrò in Alto Adige con il consenso di Mussolini, fece leva sul sentimento patriottico dei sudtirolesi, i quali optarono per la Germania in grandissima maggioranza, disposti a compiere il sacrificio di abbandonare la loro terra. D'altra parte si fece allora correre la voce insistente che i non optanti sarebbero stati trasferiti in altre parti del regno, magari in Sicilia.
I tragici avvenimenti di questo mezzo secolo ci hanno reso spesso insensibili alle sciagure altrui: c'è sempre qualcuno che ha sofferto più di altri. Certamente i sudtirolesi, in un'età ferrea come la nostra, hanno avuto una sorte migliore di tanti altri popoli, hanno senza dubbio sofferto infinitamente meno dei popoli sottomessi da Hitler. Tuttavia, se non vogliamo che il furore polemico di questi giorni 'ottenebri in noi ogni sentimento di umanità, non possiamo non avvertire la sofferenza di un popolo che la violenza mise davanti ad un'alternativa inesistente. La stessa parola opzione sulla bocca di uomini privi di scrupoli come i fascisti e i nazisti, serve a coprire una realtà ben diversa.
Alla questione delle opzioni si collega fondamentalmente la seconda antinomia rilevata da Paolo Alatri. L'autore trova l'addentellato per una versione antidemocratica dell'autonomismo già nel primo dopoguerra. Egli è nel vero, se non altro perché il fondo politico del Tiralo è stato per lo più conservatore se non reazionario; mi sembra però che egli avrebbe dovuto mettere in evidenza come l'accordo tra Mussolini e Hitler fu la causa principale della penetrazione del nazionalsocialismo in una popolazione tradizionalmente devota ed ubbidiente al clero. E, se non vogliamo discostarci del tutto da una corretta prospettiva storica, dobbiamo tenere presente che la politica fascista isolò i sudtirolesi dal restante mondo tedesco, li sottrasse agli influssi della cultura tedesca di orientamento democratico che fiori in Germania prima dell'avvento del nazismo. Costretti alla difensiva, i sudtirolesi lottarono non tanto per l'affermazione di un determinato regime politico, quanto per la difesa dei propri caratteri etnici e linguistici. Fu una lotta angusta che, man mano che l'oppressione fascista cresceva, sempre più si arroccava dietro alla logica dell'irredentismo. La questione dell'Alto Adige oggi risente di questa chiusura politica, di questa logica eversiva di ogni dialogo.
L'irredentismo è ad un tempo ragione d'imbarazzo e costante tentazione per gli uomini politici; offre infatti un'arma prodigiosa a chi sappia abilmente suscitarlo, ma non si lascia addomesticare tanto facilmente, non si piega alle sinuosità del gioco politico. Alatri ritiene che sarebbe bastato esser più cauti nell'accogliere i rioptanti, come aveva suggerito lo stesso Grober, perché oggi il movimento autonomista fosse disposto alla collaborazione nel quadro di una politica democratica. È un'opinione questa che non può evidentemente essere né verificata né smentita, tuttavia è lecito supporre che essa nasca da una sottovalutazione dell'irredentismo sudtirolese. Può essere pericoloso identificare irredentismo e nazismo. Purtroppo l'irredentismo è disponibile per ideologie diverse e noi italiani lo sappiamo abbastanza dal momento che i nostri irredentisti furono democratici, nazionalisti, progressisti e reazionari. Gli irredentisti trentini movevano da ideologie diverse, erano però concordi nell'esigere soluzioni radicali. Gli accomodanti seguivano De Gasperi e i popolari, non Battisti, non Tolomei e neppure i liberali.
Alatri conclude il suo saggio con un rapido esame dell'accordo Gruber-De Gasperi. Il testo dell'accordo contiene nell'articolo 2 una proposizione che, come tutti sanno, ha reso possibile la realizzazione della regione autonoma del Trentino-Alto Adige. Secondo Alatri il testo dell'accordo non lascia dubbi sul fatto che l'autonomia legislativa ed esecutiva avrebbe dovuto spettare solo alla provincia di Bolzano.
Questa affermazione, che esplicitamente si contrappone a quanto ha scritto autorevolmente sull'argomento Nicolò Carandini, non può non sorprendere il lettore che è a conoscenza delle vie tortuose seguite dalle parti in contrasto per piegare alle proprie tesi la lettera e lo spirito di quell'articolo.
Alatri non tiene conto della distinzione tra una interpretazione giuridica del testo ed una valutazione politica di esso. Mi sembra che soltanto in termini di valutazione politica si possa giungere alla conclusione dell'Alatri. Non a caso le testimonianze, che egli porta per suffragare in qualche maniera la sua interpretazione, sono di carattere politico. Le testimonianze di Ernesta Battisti, riportate da Alatri, contribuiscono non tanto a chiarire il testo volutamente ambiguo, quanto a intendere la linea politica di De Gasperi, a mettere in evidenza per quali ragioni si volle il connubio della provincia di Bolzano con quella di Trento.
Ernesta Battisti, in due lettere, qui pubblicate per la prima volta, indirizzate rispettivamente a De Gasperi e all'on. Conti, manifestò senza mezzi termini la sua opposizione alla creazione della regione Trentino-Alto Adige, sostenendo che la «Regione unica» era la negazione del valore del patto De Gasperi-Gruber e che questa negazione avrebbe creato un perpetuo irredentismo al di qua e al di là del Brennero.
Ernesta Battisti avvertiva l'on. Conti che era opinione abbastanza diffusa che De Gasperi avesse firmato l'accordo contro animo e che perciò tentasse di ridurre la portata delle concessioni ai sudtirolesi attuando l'autonomia nel quadro regionale. Ma non soltanto per giocare i sudtirolesi De Gasperi si sarebbe proposta la creazione della «Regione unica»: egli voleva anche favorire gli interessi degli elettori trentini della D. C.
Ernesta Battisti non riuscì a persuadere gli uomini politici italiani ed è interessante accostare alle sue nobili e profetiche parole quelle dolenti che Salvemini le scrisse proprio su questo argomento e che Alatri riporta quasi integralmente. Salvemini concorda con quanto sostiene Ernesta Battisti, ma con molta amarezza, egli constata che è inutile parlare con buon senso quando la cicala nazionalista si mette a frinire. D'altra parte Salvemini non si limita a condannare la Regione che fu inventata «col proposito vaticanesco di soffocare il movimento di Cesare Battisti sotto l'alluvione clericale», ma condanna anche l'accordo stesso che gli sembra il risultato di «una storia umiliante di imbecillità e di viltà».
Si può pensare — egli dice — che, dovendosi bene fare qualche concessione all'Italia, che coi partigiani aveva utilmente partecipato alla disfatta della Germania, le fecero la concessione dell'Alto Adige, che nessuno era in grado di difendere, mentre preparavano la conquista titina dell'Istria (ed eventualmente anche di Trieste) perché in quel momento Tito era protetto da Stalin».
Da questa recisa condanna dell'accordo, che può essere interpretata come un'affermazione che l'Alto Adige è stato ingiustamente attribuito all'Italia, deriva logicamente la convinzione che «la provincia Alto Adige, appena divisa dalla provincia Trentina, voterebbe l'annessione all'Austria; e così finirebbe la commedia De Gasperi-Gruber...».
Sono parole molto forti che nessun uomo politico italiano ha avuto ancora il coraggio di pronunciare pubblicamente e che Salvemini stesso ha affidato alla discrezione di un carteggio privato. Egli, per primo, sapeva che non era bene stuzzicare la cicala nazionalista.
Ma di queste parole noi dobbiamo, mi sembra, fare più conto di quanto non faccia Alatri. Esse toccano il nocciolo della questione altoatesina: per i sudtirolesi non sono soltanto la politica fascista e il gioco d'astuzia degasperiano ad essere condannabili; l'annessione dell'Alto Adige all'Italia è per essi un'ingiustizia ben più grande. Significa non voler guardare in faccia la realtà non ammettere che gli uomini politici sudtirolesi possano considerare la concessione dell'autonomia separata alla provincia di Balzano per ottenere qualcosa di più sostanziale quale sarebbe il ricorso ad un plebiscito.
Salvemini non considera però un aspetto essenziale della questione che la rende ancora più complessa: durante il fascismo si è avuta una forte immigrazione di italiani dalle altre province, l'Alto Adige è stato industrializzato, il centro di Bolzano ha oggi una popolazione in maggioranza italiana. Una soluzione radicale mediante l'annessione dell'Alto Adige all'Austria creerebbe a sua volta un'altra situazione difficile e di disagio. Questo aspetto della questione va tenuta presente anche quando la discussione si limiti all'attuazione dell'accordo De Gasperi-Gruber e non investa il fatto stesso che un accordo c'è stato.
Alatri conclude il suo saggio mettendo in relazione l'aggravamento della situazione altoatesina con la ripresa del pangermanesimo nel mondo tedesco. La questione altoatesina s'inserisce «nel nuovo contesto rappresentato dalla ripresa di un revanscismo pangermanico che punta contemporaneamente le sue batterie in tutte le direzioni, e perciò verso Bolzano ma anche verso le frontiere orientali della Germania» (pag. 126). Questo revanscismo poi trae alimento dalla politica degli oltranzisti del patto atlantico, politica che, a giudizio dell'Alatri è condivisa dai governi democristiani. Ed è propria questo oltranzismo atlantico che rende dubbioso l'autore sulla possibilità che la D.C. riesca a fare una sterzata nella sua politica in Alto Adige, ponendo così rimedio agli errori compiuti in questo dopoguerra.
Con questa battuta polemica, poco felice, Alatri conclude il suo discorso introduttivo che, se ha il pregio di raccogliere in sintesi documenti e testimonianze, a volte inediti, atti a dimostrare la presenza in Italia di una coscienza democratica dei termini del problema altoatesino, è ancora troppo permeato di preoccupazioni politiche contingenti per assolvere il compito di una autentica ricostruzione storica delle vicende dell'Alto Adige.
La tesi di Alatri che la storia dell'Alto Adige sia una storia di sopraffazioni e che queste sopraffazioni siano il risultato della carenza di una politica democratica autentica, è ripresa da Edio Vallini nel suo saggio su sedici anni di vita politica in Alto Adige. Con molta chiarezza il Vallini traccia il quadro politico della regione, mettendo in evidenza come i due gruppi etnici siano dominati da due partiti cattolici disposti a sostenersi a vicenda pur di conservare il monopolio politico nei campi rispettivi e di attuare un programma di conservazione sociale. Nei primi anni di questo dopoguerra SVP e DC collaborarono nel quadro dell'autonomia regionale. Tale collaborazione però favorì piuttosto, come osserva giustamente il Vallini, i disegni e le ambizioni della DC trentina che tendeva ad insabbiare l'attuazione dello statuto nelle parti che riguardavano le deleghe alla provincia di Bolzano e ad assicurare una posizione di predominio al governo regionale.
La tattica dilatoria della DC trentina non poté durare a lungo; nella SVP infatti si fecero avanti uomini politici intransigenti. Si giunse così all'episodio di Castelfirmiano che, osserva il Vallini, ebbe «il significato di una svolta politica fondamentale da parte dei rappresentanti della popolazione di lingua tedesca» (pag. 188). Da allora la situazione altoatesina si è progressivamente aggravata.
Ma se la politica della DC trentina offrì con il suo ostruzionismo alla attuazione integrale dello statuto, motivi sufficienti di protesta alla SVP, ad aggravare la situazione contribuì non poco la ripresa del pangermanesimo nella vicina repubblica austriaca e nella Germania di Bonn. Il movimento autonomista sudtirolese doveva infatti cadere in mano di uomini politici sensibili ai classici temi del revanscismo tedesco, temi che abilmente propagandati, potevano anche concorrere a perpetuare posizioni di privilegio in campo economico, distraendo il proletariato sudtirolese dalla questione sociale.
Il Vallini accusa esplicitamente gli uomini della SVP di servirsi dell'irredentismo per scopi reazionari. La lotta che la SVP conduce contro l'industria italiana è una ripresa della lotta dei ceti feudali contro la nascente industria nazionale. Questa politica non poteva non sfociare nel pangermanesimo cosicché, almeno indirettamente, la SVP è responsabile delle forme violente assunte dalla lotta politica in questi ultimi tempi.
Sia la DC che SVP hanno, a giudizio del Vallini, impedito che in Alto Adige si instaurasse una collaborazione feconda e sincera in termini democratici e progressisti; alla collaborazione sincera hanno preferito i compromessi e le manovre ambigue; ma così facendo hanno anche posto le premesse di una ripresa degli opposti nazionalismi. I guai d'oggi sono la logica conseguenza di una politica sbagliata.
Entro certi limiti questa diagnosi è accettabile: in generale è vero che in Alto Adige non si è realizzata una politica autenticamente democratica, come è vero che una pacifica convivenza sul piano politico dei due gruppi etnici sarà possibile soltanto se, chiusa in faccia la porta alle sollecitazioni esterne, gli uomini politici locali saranno capaci di collaborare alla soluzione dei problemi che interessano veramente le popolazioni. Se però abbandoniamo il terreno delle affermazioni generali di principio, il discorso del Vallini può apparire meno persuasivo.
Il Vallini dice: «Desidera dunque, veramente la popolazione di lingua tedesca l'annessione della provincia all'Austria? Si può rispondere con sicurezza che la maggioranza non la vuole anche se indubbiamente aspira ad una maggiore autonomia» (pag. 254). Non si riesce a comprendere da dove il Vallini ricavi tanta sicurezza: purtroppo è lecito pensare il contrario.
Se in Alto Adige non si è fatta una politica autenticamente democratica, non è stato per le stesse ragioni per le quali non si è realizzata nel resto d'Italia; anche gli uomini politici di sinistra, che pretendono di essere i migliori interpreti della democrazia, non hanno in questo dopoguerra, ben diversamente dagli uomini politici di sinistra dell'altro dopoguerra, prospettato la possibilità che, per decidere dell'appartenenza o meno dell'Alto Adige all'Italia, si dovesse appellarsi alla volontà popolare, come niente hanno fatto perché non si realizzasse la regione Trentino-Alto Adige. Una volta imboccata la via dei compromessi, delle parziali abdicazioni ai principi, riesce piuttosto.difficile condannare l'impostazione della, politica altoatesina, data da De Gasperi.
In una terra vandeana come è la regione Trentino-Alto Adige si poteva sperare soltanto in una collaborazione tra cattolici.
Certamente la DC ha insabbiato l'attuazione dello statuto, ma lo stesso Vallini indirettamente giustifica questo insabbiamento quando delinea molto efficacemente la politica della SVP nella provincia di Balzano dimostrando come essa abbia danneggiato gli interessi della popolazione di lingua italiana.
Purtroppo un'equa soluzione della questione altoatesina è ostacolata da un cumulo enorme di sospetti che germogliano in un clima dominato dalla paura e dal risentimento. Di qui lo scoppio delle passioni, di qui lo sforzo di placare le passioni con compromessi sulla cui provvisorietà nessuno dubita.
In una situazione come questa, gli uomini di sentimenti democratici non possono limitarsi a fare, in nome di principi generali, il processo agli errori del passato; hanno anche il compito di impegnarsi nello studio dei problemi nei loro molteplici aspetti, affinché lo sterile scontro delle ideologie ceda il posto ad un dialogo costruttivo, aderente alla realtà.