IL CRISTALLO, 1961 III 1 | [stampa] |
Tempo fa Augusto Guerriero (Ricciardetto), in una sua rubrica nel settimanale Epoca, riferendosi alle doglianze austro-tirolesi per la presunta «marcia della morte » del gruppo etnico di lingua tedesca in Alto Adige, rivolse a un suo lettore press'a poco la seguente domanda: «Se a Firenze si stabilissero tanti tedeschi o inglesi o americani, che non si sentisse più parlare fiorentino o italiano, forse i fiorentini sarebbero morti?».1 Ebbene, a me pare che non possano esservi dubbi sulla risposta: sì, in quanto fiorentini o italiani, sarebbero morti; come (sia detto senza offesa per i popoli d'Africa e d'Asia) tutti noi saremmo morti, in quanto italiani, se nei prossimi cinquant'anni il nostro paese dovesse ospitare venti o trenta milioni di immigranti africani o asiatici. Del resto, l'Italia non ha già visto morire, in quanto entità etniche, gli Etruschi, i Galli cisalpini, i Longobardi, i Greci e gli Arabi del Mezzogiorno? E non sono ben morti quegli stessi «Romani », nei quali la nostra retorica vorrebbe che tutti noi ci riconoscessimo? Le storie dei popoli si confondono nella storia dell'umanità. Se ciò avvenga per il meglio o per il peggio, noi non sappiamo. L'homme s'agite, Dieu le mène, diceva Pascal; sebbene non sia facile crederlo. Forse noi siamo soltanto come le foglie, secondo l'immagine omerica; o come le marionette di Verlaine, che fanno tre salti, et puis s'en vont. Comunque stiano le cose, non vedo come si possa moralmente contestare a qualsiasi comunità il diritto di battersi, finché è possibile, per non vedersi tolta la speranza di trasmettere ai propri figli e nipoti (e nella terra degli avi) un patrimonio di valori faticosamente conquistati e amorosamente custoditi nei secoli.
Per quel che riguarda l'Alto Adige, può darsi che l'assorbimento graduale del gruppo etnico sudtirolese nella comunità italiana, e la conseguente sparizione della sua peculiare «cultura », siano inevitabili; ma non sarebbe di buon gusto, secondo me, prenderne atto con soddisfazione.
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In tutto l'Occidente si va diffondendo sempre più acuta la consapevolezza di un possibile tramonto di questa nostra comune civiltà, già venerabile e splendida, oggi così devastata nelle sue basi morali. Se vogliamo tentare di resistere a questa frana, dovrebbe essere un privilegio per noi (oltre che un preciso dettato costituzionale) adoperarci per tutelare e favorire la sopravvivenza di certi valori tradizionali, almeno là dove ognuno é deciso, come nel vecchio Tirolo, a difenderli e a salvarli nella propria coscienza.
In questo angolo di mondo le antiche strutture sociali non sono legate, come altrove, a un passato di servitù e di arretratezza materiale e morale, di cui sia necessario sbarazzarsi al più presto. Da molti secoli questa terra di montagna è tra le giù floride d'Europa, non per grazia del cielo, ma per virtù del suo popolo. Oggi è l'unica provincia d'Italia che non abbia analfabeti; e si tratta di montanari, dei quali moltissimi vivono in «masi » isolati tra i mille e i duemila metri. L'obiezione, che le loro letture si limitano ai libri edificanti suggeriti dai fogli parrocchiali, non può essere apprezzata da chi sappia quali sono le condizioni e il livello mentale della nostra gente di montagna, e non solo nel Mezzogiorno. Chi ha conosciuto davvero quelle condizioni non può non credere di sognare, se gli capita di affacciarsi in uno di quei «masi », che sono ancor oggi come li vide commosso Enrico Heine più di un secolo fa: «vaghe e linde casette, graziosamente dipinte e adorne di sacre immagini e di vasi di fiori, dove si vive e si ama intimamente ».2
Ci siamo scandalizzati per l'istituto del «maso chiuso », fondato sulla ininterrotta tradizione feudale e patriarcale del maggiorasco. Sul terreno del diritto è certamente un fatto anacronistico, ma le sue motivazioni sono generose e i suoi frutti sono splendidi, sotto ogni aspetto. Grazie ad esso, e soprattutto grazie alle risorse morali che lo rendono possibile, i sudtirolesi sono i soli contadini d'Italia soddisfatti e orgogliosi del proprio stato; i soli, forse, che non siano disposti a diventare una plebe, massa di manovra di squallide ideologie. Dovremmo ammirare l'allegra fierezza con cui questa gente si mantiene fedele agli antichi costumi, non per angustia mentale, come spesso si afferma, né per servile esibizione folcloristica a sollazzo dei forestieri, come purtroppo oggi accade quasi dovunque, ma come sfida agli aspetti deteriori della modernità.
La verità, è che la civiltà di un popolo non si misura dall'equità formale dei suoi ordinamenti, ma si giudica dai suoi motivi profondi, dalla sua «pietas » religiosa, nel senso più largo (e non solo confessionale) della parola. Per un funesto equivoco, spesso accade che si confonda la sbracata arroganza giacobina, frutto di società, retrive o decadute, col progresso civile dei popoli più vigorosi e maturi. Le società più avanzate sono spesso le più conservatrici, come dimostrano gli esempi della Svizzera, della Gran Bretagna, dell'Olanda, o delle comunità puritane e quacchere, che hanno dato un'anima al Nuovo Mondo.
Chi scrive è italiano e meridionale; ma, come europeo, crede sia doveroso cercar di comprendere le ragioni della riluttanza dei tirolesi (come del resto anche degli italiani del Nord verso i «terroni »; e si potrebbe aggiungere, degli inglesi di Bedford verso i nostri lavoratori) ad accoglierci in massa nelle loro terre. Se noi fossimo venuti qui con animo capace di rispetto, di comprensione, di simpatia (come sempre si dovrebbe quando si mette piede in casa altrui), è certo che oggi non si sarebbe a questo punto. Se anche avessimo ingenuamente ecceduto nel vagheggiare (piuttosto che nel disconoscere) questo lembo di mondo tedesco che abbiamo voluto chiudere entro i nostri confini, avremmo soltanto ricambiato in parte, da buoni europei, quell'amore pieno di reverenza (fino all'idealizzazione romantica) che tante generazioni di tedeschi hanno nutrito per il mondo italiano, senza paura di tradire o di umiliare la propria cultura. Federico Nietzsche, che nell'Italia umbertina s'immaginò di trovare il clima più adatto al suo spirito, arrivò a dire una volta, senza scandalizzare nessuno dei suoi compatrioti, che c'era più nobiltà in un gondoliere veneziano che in un consigliere di Stato tedesco.3
Dopo tutto, chi decide di abbandonare il proprio paese per stabilirsi altrove, deve pure esser mosso da una certa «affinità elettiva » (magari illusoria), da una ragione non meramente economica, se non vuoi essere uno sgradevole intruso.
«Io sono certo — scriveva Luigi Einaudi per il Corriere della Sera del lontano 31 maggio 1915 — che se l'Italia racchiuderà nei suoi confini qualche minoranza di lingua tedesca o slava, l'unico mezzo di assimilazione che noi porremo in opera sarà quello del rispetto alla lingua, alle tradizioni, agli usi e agli interessi delle minoranze incluse nei confini del Regno. È il solo metodo il quale sia degno di una nazione come l'italiana, nemica di ogni oppressione e di ogni persecuzione ». Così parlava l'Italia liberale. Poi venne il fascismo, coi suoi frutti di cenere e tosco. E bisogna dire che l'accordo De Gasperi-Gruber, quale che ne sia stata l'esecuzione, non fu mai veramente voluto né mai capito dall'opinione pubblica italiana, né, d'altra parte, da quella tirolese, l'una e l'altra avvelenate da velleitarie nostalgie di prepotenza nazifascista. Al punto in cui siamo, sarebbe necessaria e urgente una migliore informazione, anche storica, senza imbrogli nazionalistici; ma soprattutto una mutata disposizione degli animi.
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A me pare che la piccola questione dell'Alto Adige s'inquadri, con infinite altre, in un problema mondiale, che è certo fra i più gravi e dolorosi del nostro tempo: quello della convivenza sempre più difficile, eppur sempre più necessaria su questo nostro pianeta, di gruppi umani e di «razze » con tradizioni, aspirazioni e possibilità. (materiali e spirituali) tragicamente diverse. Non credo che le sottigliezze giuridiche di una corte internazionale bastino a dirimere conflitti di questa natura.
D'altra parte, dobbiamo guardarci dalle improvvisazioni moralistiche e dai retorici sdegni. I razzismi non si combattono con le intimidazioni del bigottismo egualitario o con un generico embrassons-nous: bisogna cercarne le radici profonde, e valutarli caso per caso. I popoli anglosassoni e specialmente gli americani, che hanno condotto una crociata contro il razzismo nazista, secondo un'opinione largamente diffusa non avrebbero, in fatto di antirazzismo, le carte in perfetta regola. Eppure, ciò che colpisce un osservatore attento e spregiudicato nella odierna società americana non è il residuo razzismo di certi ambienti, ma proprio la dura battaglia che quel popolo sta combattendo in sé stesso contro ogni forma di discriminazione razziale e sociale, con una coerenza che in certi casi (come in quello della integrazione scolastica) è perfino sconcertante. Né io mi sentirei di bollare d'infamia quelle leggi che a un certo momento hanno posto un freno all'immigrazione massiccia di milioni di déracinés che ogni anno, da ogni parte del mondo, si riversavano negli Stati Uniti, corrompendo e sfigurando una nobile civiltà che era appena sbocciata secondo certi caratteri etnici dei quali, quelle leggi, per comune fortuna nostra, hanno salvato il salvabile.
Può sembrare un paradosso: ma l'avvenire dell'universale spirito di «liberté, égalité, fraternité » è proprio legato (per ora e per molto tempo ancora, mentre infuria nel mondo afroasiatico il folle razzismo anti-bianco) alla sopravvivenza e all'integrità di quelle élites occidentali che se ne sono fatte promotrici, pur tra, duri contrasti e contraddizioni, che sarebbe doveroso comprendere, prima di condannare.
Quasi tutti i popoli della Terra hanno conosciuto e praticato senza rimorsi la segregazione razziale o la schiavitù. Prima di essere presi schiavi dai «bianchi», i negri d'Africa si prendevano schiavi reciprocamente, quando non si divoravano in banchetti sacri; e nessun popolo ha conosciuto più spietate barriere razziali di quelle tuttora esistenti in India, dove ciascuna casta è, per fede religiosa, una specie umana radicalmente distinta in una gerarchia metafisica, e dove tuttora esiste, nel sentimento di milioni di uomini, il dogma della intoccabilità.
L'antica Grecia, madre dell'Occidente, praticava la schiavitù e la riteneva necessaria. E tuttavia creò la prima civiltà democratica e liberale che l'umanità abbia conosciuto e per prima ricercò un ideale di giustizia e di libertà che fosse comune a tutti gli uomini.
Quando l'India dipendeva dalla Gran Bretagna, migliaia di inglesi potevano schierarsi pubblicamente in favore della sua libertà, come poi hanno fatto per Cipro, per Suez e per tutti i paesi già soggetti a quel singolare impero. Fin dai primi decenni del secolo scorso molti eminenti funzionari britannici in India presagivano (senza rammarico, anzi con orgoglio) che un giorno gli indiani avrebbero chiesto l'autogoverno con istituzioni «europee », cioè rappresentative e liberali, avendo appreso «a camminare da soli sui sentieri della giustizia ».4 «Quel giorno — disse Macaulay in un discorso alla Camera dei Comuni il 10 luglio 1833 — sarà il più glorioso della storia inglese » (it will be the prouclest day in English history). Nondimeno, il generale sir John Malcolm non si peritava di affermare: «Noi dobbiamo pure sentirci umiliati pensando in quanti punti, in quanti doveri della vita, intere classi di quel popolo sobrio, onesto e mansueto ci sono superiori ».
La Francia, che non è senza peccato, ma che ha dato agli algerini una patria, di cui essi non avevano mai avuto né il concetto, né il sentimento, oggi vede larghi settori della propria opinione pubblica levarsi in difesa della libertà algerina.
Nessuna civiltà, prima e fuori della nostra (intendo: europea e americana), aveva mai dato prova di tanta equanimità e di tanto rispetto e interesse per la libertà e la cultura altrui; né aveva mai sofferto di tali complessi di colpa per aver perpetrato, come tutti, violenze, aggressioni e genocidi. Ma questo é il punto: questa rivolta interiore, che non da oggi dilania la coscienza occidentale, é la nostra peculiare nobiltà (quando non sia una forma di diserzione o di involuzione masochistica); ma potrebbe essere la nostra rovina, e quindi la rovina di tutti i valori che l'Occidente ha creato e diffuso nel mondo.
Un giorno, è probabile, finiremo col mescolarci tutti, su questa piccola Terra: e sarà forse un bene, almeno per la nostra pace. Ma bisogna che ciò avvenga lentamente e per gradi, e non senza contrasti, se vogliamo che il meglio dell'uomo (o ciò che a noi pare il meglio) non vada forse del tutto e per sempre perduto.
NOTE
1 Epoca, n. 451, p. 10.
2 «...niedliche nette Häuschen, gewöhnlich mit einer langen, balkonartigen Galerie, und diese wieder mit Wäsche, heiligenbildchen, Blumentöpfen und Mädchengesichtern ausgeschmükt. Auch hübsch bemalt sind diese Häuschen Wenn ich solch Häuschen im einsamen Regen liegen sah, wollte mein Herz oft aussteigen und zu den Menschen gehen, die gewiss trocken und vergnügt da drinnen sassen. Da drinnen, dacht'ich, muss sich's recht lieb un dinnig leben lassen, und die alte Grossmutter erzählt gewiss die heimlichsten Geschichten. Während der Wagen unerbittlich vorbeifuhr, schaut'ich noch oft zurück, um die bläulichen Rauchsäulen aus den kleinen Schornsteinen steigen zu sehen, und es regnete dann immer starker, ausser mir und in mir, dass mir fast die Tropfen aus den Augen herauskamen» (Reisebilder 11, Italien (1828-1829), Reise von Miinchen nach Genua, in H. Heines sàmtliche Werke, Leipzig, M. Hesses Verlag, parte sesta, p; 24). È opportuno aggiungere che non tutto ciò che Heine scrive sul Tirolo e sui suoi abitanti riuscirebbe altrettanto gradevole ai nostri Tirolesi.
3 Tutti conoscono i nomi dei poeti, degli artisti, dei pensatori tedeschi, che da Winckelmann e Lessing in giù sono scesi fra noi, ardenti e trepidanti nell'accostarsi a una comune fonte della civiltà europea, nella terra «wo die Zitronen blühn », come cantava la Mignon di Goethe. Ma forse non sarà del tutto inutile ricordare qui almeno due poeti tirolesi: Hermann von Gilm e Adolf Pichler, fra tanti che conobbero e amarono l'Italia. Il primo, nato a Innsbruck nel 1812 e vissuto a lungo nel Sudtirolo, inneggiò ai moti del '48 e maledisse le repressioni del governo di Vienna. Nei Tiroler Schützenleben esaltò gli «Schützen » come espressione della maschia virtù della sua terra. Fu studioso di letteratura italiana e amò e cantò, da tedesco, l'Italia nei Lieder von den italienischen Grenzen. Al nome di Gilm è intitolata una via di Bolzano. Adolf Pichler, morto a Innsbruck nel 1900 combatté volontario contro i Piemontesi nel 1848. «Ma, pur restando sempre ostile a ogni idea di possibile unione dei paesi irredenti con l'Italia, additava il patriottismo degli italiani a esempio fra i suoi connazionali; e conobbe e studiò la letteratura italiana anche dell'epoca del Risorgimento; e, come spesso si ispirò ai classici e a Dante, così fu tra i primi Tedeschi che compresero la grandezza del Carducci. Liberale con tendenze «großdeutsch » nel primo periodo della sua vita, modificò in parte, dopo il '70, il suo orientamento in senso religioso e conservatore... fu, come naturalista e come poeta, uno schietto e rude interprete del suo Tirolo, al quale dedicò i suoi studi di scienziato e la più gran parte delle sue liriche ». (Cfr. Enciclopedia Italiana). Scrisse anche un poemetto su Dante in Ravenna (1887); e «sotto una suggestione dantesca, e genericamente italiana, compose l'opera che trovò la più ampia risonanza: Fra Serafico (1869)». Non mi risulta, purtroppo, che le opere di questi due poeti siano state mai, neppure in parte, tradotte in italiano.
4 «In that hour it will be her greatest boast that she [l'Inghilterra] has used her sovereignty towards enlightening her subjects, so as to enable the native communities to walk alone in the paths of justice »: sono parole del governatore generale Lord Moira, citate in H. G. Rawlinson, The British Achievement in India (London: W. Hodge and Co., 1948), p. 151.