Zombitudine
di Elvira Frosini e Daniele Timpano
con contributi di Federico Boni, Daniela Ferrante,
Gianfranco Manfredi
Imola (Bo), Cue press, 2019, pp. 65
Dal clima surreale e sospeso del beckettiano En Attendant Godot a un tumultuoso e pauroso En Attendant Zobie: è questo il segno del trapasso proprio della poetica maligna e spiazzante di Zombitudine di Elvira Frosini e Daniele Timpano. Come in Beckett, alla semplicità dello sviluppo narrativo, regolato dal principi secondo il quale tutto o nulla succede, corrisponde un fitto reticolato di metafore capaci di tracciare la prospettiva di una visione del mondo.
La cornice ambientale del testo è fortemente emblematica. In una sala teatrale si sono barricati due attori in scena, un LUI e una LEI, e il pubblico per difendersi dall’invasione planetaria degli Zombie. Poco importa sapere se questi esseri mostruosi e puzzolenti sfonderanno veramente le porte dell’edificio. Forse sono un incubo o un’allucinazione espressa da dialoghi brevi e pungenti che alternano panico e rassegnazione, sorpresa e mistero. Sta di fatto che è questa la prima grande metafora intorno alla quale si sprigionano riflessioni e denunce sulla condizione sociale e culturale dell’attore che cerca di resistere ai morsi inesorabili degli uomini-Zombie.
Il teatro inteso come spazio comunitario è visto come un cimitero vivente. Rivolgendosi al pubblico, LEI dice: “Venendo a teatro questa sera – anche se non lo sapevate – siete diventati dei ‘rifugiati’, siete entrati nel novero di quello che (forse) ce la faranno”. A fare cosa non si sa, perché la visione della morte vivente diventa l’essenza dell’uomo nelle sue diverse manifestazioni dell’essere uno Zombie, a partire dai suoi bisogni primari. Per esempio all’inizio di Zombitudine i due personaggi si nutrono di carne umana cruda appartenente ai corrispettivi genitori. La scena raccapricciante e disgustosa anticipa la metamorfosi finale dei due, quando di fatto si mangeranno a vicenda. Il grottesco intrecciato a questi gesti cannibaleschi assurge a codice di un percorso connesso alla vita stessa, qui rappresentata nella sua simbolica decomposizione quotidiana.
A questo punto il discorso è chiaro. Gli Zombie non esistono perché siamo noi gli Zombie stessi, sono uno specchio alterato e deforme del nostro vivere nella società della rivoluzione digitale e dei social network, delle competizioni cannibalesche provocate dalla precarietà invasiva e dalla mercificazione umana che non esclude nessuno. Significativamente la moda parafrasa l’essenza e le caratteristiche dell’uomo-Zombie. Questi morti viventi decerebrati, si legge nel testo, “sono belli e sono fashion […]. Hanno la pelliccia Gucci. I jeans Trussardi. La t-shirt Cavalli. Tutte cose noi non potremo permetterci mai, mai mai. […] Hanno le mutande di Calvin Klein!! Appunto! Questo è il problema! […] Avete capito? Non c’è da fidarsi!”.
In Zombitudine non c’è né apocalisse né nichilismo. I dialoghi apparentemente semplici e costruiti con il ricorso ad una pregevole leggerezza espressiva, rivelano un sottotesto puntellato di rimandi filosofici e sociologici dai quali muovere riflessioni sulle mostruosità dell’uomo moderno. Non c’è molto da ridere o da sorridere, anche se alla lettura dell’intrigante testo del duo Frosini-Timpano il divertimento non manca.
di Massimo Bertoldi
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